Archive for Febbraio, 2020

Il contadino di Babele

“Fondo Librario Documentario Riccardo Bertani” recita la targa sulla porta. È una piccola casa di cemento a Caprara, una frazione di Campegine, un paese di seimila abitanti vicino a Reggio Emilia. Di fronte alla casa c’è un orto in cui spuntano zucchine, pomodori e lattughe. E poco più in là un’aia su cui un tempo hanno scorrazzato oche e galline.

Secondo un articolo che ho letto recentemente su un quotidiano nazionale, Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da questa casa. Com’è possibile?

Quando viene ad aprirmi la porta, Bertani indossa i pantaloni di una vecchia tuta e un maglione sgualcito. Con lui c’è Domenico, un signore del paese di una decina d’anni più giovane, che si occupa dei convenevoli. Tra loro, si parlano in dialetto. Con me, parlano italiano. Distratto, Bertani mi stringe la mano, prima di fare marcia indietro e imboccare un corridoio stretto. Cammina lentamente, aiutandosi con un bastone. I suoi piedi sono avvolti da ingombranti bendaggi. Senza preoccuparsi di verificare se lo stiamo seguendo o meno, scompare dentro una stanza.

Dopo pochi secondi lo raggiungo dentro al suo studio, uno stanzino di una quindicina di metri quadrati. Tre delle quattro pareti sono occupate da librerie. Sulle mensole (a quanto pare un tempo reggevano forme di formaggio) ci sono statuette di divinità pagane e qualche foto di Bertani, un po’ più giovane, intento a ricevere un premio o a mangiare con gli amici. Inchiodato a un palo della libreria c’è un foglietto con una citazione di Tolstoj. Poco più in là un castello di medicine impilate l’una sull’altra.

Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da casa sua.

Al centro della stanza troneggia una grande scrivania di noce, con un leggìo che regge un libro aperto. Bertani ci si accomoda dietro e mi fa cenno di sedermi su una delle tre sedie che stanno disposte lì davanti. Improvvisamente solleva la testa e mi trafigge con i suoi occhi azzurri: “Allora, cosa vuoi sapere?”

Non sembra abituato alla compagnia. Da quando il Comune ha trasformato la sua casa in un Fondo, delegazioni di linguisti e curiosi sono venuti a trovarlo, ma evidentemente lui non è ancora riuscito a superare l’imbarazzo di rispondere alle domande dei suoi ospiti, e tantomeno quello di farsi fotografare: “Mi farebbe piacere che mi conoscessero per le mie opere, non per le foto”, commenta. Quando gli chiedo di raccontarmi la sua storia apre prontamente un cassetto, tira fuori alcuni fogli graffettati e me li allunga: “Sta tutto scritto qui”.

La sua passione per le lingue risale all’infanzia, ma non ha nulla a che vedere con un’educazione convenzionale. Di fatto, ha abbandonato la scuola subito dopo le elementari, un’esperienza che definisce “castrante”. Gli strumenti per imparare invece li ha trovati in casa. Paese natale dei sette fratelli Cervi, forse i più celebrati tra i martiri della Resistenza, Campegine subito dopo la guerra diventò un luogo simbolo del comunismo italiano. A cena Bertani ascoltava suo padre, primo sindaco di Campegine nel dopoguerra, parlare di Stalin e di Lenin. La libreria di casa era affollata di autori russi.

Apprendista contadino di giorno, il giovane Bertani di notte leggeva Dostoevskij, Puškin, Gogol’ e Tolstoj. A vent’anni, mi racconta, imparò il russo grazie alle lezioni pubblicate sulla rivista “Notizie Sovietiche”. Si comprò un dizionario e una grammatica e cominciò a tradurre un libro di poesie dell’ucraino Taras Shevchenko, che era stato abbandonato a Campegine da qualche soldato passato da queste pianure negli anni della guerra.

Nei decenni successivi Bertani dice di aver imparato il bielorusso, il ceco, lo slovacco, il polacco, lo sloveno-croato, il georgiano, il mongolo, l’uzbeko, l’osseto e diverse altre lingue dell’ex blocco sovietico. Alcune erano usate in regioni remote – come il rutulo, parlato da ventimila persone nella Repubblica del Dagestan – e non esistevano né grammatiche né dizionari che potessero aiutarlo a decifrarle.
A un certo punto persino la Biblioteca Lenin di Mosca lo contattò per dare una mano con una traduzione dal yacuto, una lingua della Siberia nordorientale. “La lingua yacuta è antica: turca con elementi tungusi, manciuri e paleoasiatici. La parlano circa 500,000 persone. La traduzione mi riuscì”, mi spiega Bertani, e aggiunge: “Piacevo ai russi. Mi mandavano i dizionari gratis”.

“Sono sempre stato un contadino sbagliato. Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”

La lista di lingue crebbe: scozzese, francese, spagnolo, svedese, danese, norvegese, eskimo, finlandese, hausa (che si usa nell’Africa occidentale) e altre minoritarie come l’ainu, parlato sull’isola di Hokkaido in Giappone, o estinte come l’etrusco, che scomparve intorno al 50 d.C., Bertani dice di averle imparate su libri che ha comprato o che gli amici gli hanno portato dai loro viaggi. Invece si vanta di non aver mai imparato il tedesco, una lingua probabilmente legata a episodi infelici della sua infanzia.

Bertani sostiene di aver passato la maggior parte della sua vita in questa piccola casa contadina, con le pareti e i muri irregolari, svegliandosi alle tre di mattina per studiare e tradurre fino alle nove prima di andare nei campi a lavorare, con poca grinta: “Sono sempre stato un contadino sbagliato”, si schermisce, “Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”.

Un paio di volte, con riluttanza, ha preso un treno per recarsi fino a un’altra città italiana per un seminario o una lezione all’università. “Io, un contadino, in cattedra. Loro, i professori, ad ascoltarmi”, ricorda con un ghigno, che si tramuta prima in un colpo di tosse poi in un lungo sospiro. Mi ricorda Salgari, che scrisse avventure di pirati nell’Estremo Oriente senza mai avventurarsi più in là dall’Adriatico. Però Salgari mentì sempre, raccontando di aver camminato attraverso il Sahara, incontrato Buffalo Bill in Nebraska e navigato i Sette Mari. Bertani, invece, sembra ammettere candidamente le sue lacune.

“Per parlare veramente una lingua devi passare del tempo nel luogo in cui è nata”, spiega, “Io non sono andato in nessuno di questi Paesi. Avevo paura, dopo esserci arrivato, di scoprire che il mondo letterario che avevo immaginato non corrispondesse a quello reale”. Non è mai uscito dall’Italia, nemmeno quando nel 1984 è stato invitato a Sochi a un misterioso Forum Internazionale per l’Unione Spirituale dell’Umanità organizzato dall’Accademia delle Scienze dell’URSS.

Quando gli domando come sia riuscito a fare quello che ha fatto, Bertani socchiude gli occhi e sospira di nuovo. Il suo compaesano Domenico, che è stato seduto in un angolo per tutta la durata dell’intervista, mi fa segno che non c’è più tempo. Mentre mi alzo dalla sedia e faccio per congedarmi, Bertani solleva la testa e quasi scusandosi mi risponde: “Non penso di poterlo spiegare. È come chiedere a quelli che fanno i calcoli a memoria come ci riescono.  Io, ad esempio, non so nemmeno la tabellina del tre”.

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Tornato a casa, cerco di mettere ordine nei pensieri. Questa cosa delle cento lingue è vera? Scorro l’elenco di pubblicazioni che mi ha passato in un ciclostilato. Sono principalmente articoli e saggi pubblicati da case editrici minori: il Comune di Campegine, il notiziario dell’ANPI, la rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, qualche quotidiano locale e così via. Spicca un articolo sui popoli dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale pubblicato nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET nel 1983. Ma non c’è una singola pubblicazione accademica. Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale? Non dovrebbe avere ricevuto una laurea onoraria, o qualcosa di simile?

Per scoprirlo, provo a rintracciare Jargal Molomjamts, una professoressa di lingue mongole all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che nel 2007 ha scritto la prefazione a un dizionario mongolo-italiano di Bertani. Sfortunatamente, la segreteria dell’università mi risponde bruscamente che Molomjamts ha smesso di lavorare per loro molti anni fa e che non hanno modo di rintracciarla. La cerco sui social network, ma non ottengo risultati.

Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale?

Prendo il telefono e chiamo Giorgio Iemmolo, un linguista che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi all’insegnamento delle lingue. “Più lingue impari, più facile ti riesce imparare la prossima, soprattutto se è imparentata geneticamente con un’altra che già conosci”, mi spiega, “È il caso degli iperpoliglotti, un termine coniato dal linguista Richard Hudson per definire le persone che parlano sei o più lingue. In campo accademico c’è poca ricerca su questi temi, anche perché i casi sono rari”.
Tra questi spiccano il poeta John Milton che parlava undici lingue e coniò più di seicento parole dell’inglese, il Cardinale Mezzofanti che insegnò arabo e greco all’Università di Bologna nella prima metà dell’800 e fu definito da Lord Byron “un mostro delle lingue”, e il linguista tedesco Emil Krebs, che visse a cavallo del 1900, imparando a parlare e scrivere 68 lingue e studiandone 120. Alla morte, il il cervello di Krebs fu sezionato e si constatò che la sua area di Broca, responsabile per il linguaggio, era strutturalmente diversa da quella delle persone normali.

Se si fa eccezione per alcuni celebri poliglotti della storia come Cleopatra, Nikola Tesla e Audrey Hepburn, nella maggior parte dei casi chi eccelle nell’apprendimento delle lingue è uno studioso di professione, o comunque qualcuno che si muove in ambienti accademici o a stretto contatto con i centri del sapere. Bertani, in questo senso, è una mosca bianca: “Uno dei punti straordinari di questa storia è che un signore con un’istruzione quasi inesistente abbia fatto un lavoro molto fine di estrapolazione di regole e confronti, simile a quello che duecento anni fa ha dato vita alla linguistica moderna”, mi spiega Iemmolo, “Ha inventato un metodo comparativo. Giusto o sbagliato che sia, non è questo il punto”.

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Quando vado a trovarlo per la seconda volta, Bertani non si ricorda di me. Gli faccio notare che ci siamo già visti e lui risponde, laconico: “Viene molta gente”. Stavolta con lui c’è un altro amico, Luigi. Dalla reverenza con cui lo tratta è evidente che Bertani è il vanto del paese, una sorta di diamante grezzo da mostrare con orgoglio a chi viene da fuori. Pochi giorni fa, ad esempio, il quotidiano argentino Clarín è venuto a intervistarlo per verificare una delle sue ipotesi, secondo cui la lingua degli indigeni Ona della Patagonia è direttamente legata a una lingua in via d’estinzione che si parla sulle coste occidentali della Kamchatka, in Siberia.

Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia.

“Le lingue al centro evolvono, quelle agli estremi si cristallizzano”, mi spiega Bertani. Questo teorema mi sembra immediatamente troppo netto, assoluto. È un tratto abbastanza comune nel lavoro – e forse nel carattere – di Bertani. Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia. Su quest’ultima ipotesi trovo una lettera di un professore di Venezia che gli appunta: Ritengo che la documentazione acquisita necessiti di molto altro materiale prima di poter arrivare ad una qualunque conclusione.

Non è l’unico messaggio del genere che riceve. Su un’ipotetica etimologia della parola indiana beng, un esperto gli risponde: Vorrei esprimere qualche suggerimento metodologico e comunque consigliarle di approfondire ulteriormente la sua ricerca che, così com’è, mi pare presenti il fianco a delle obiezioni. In un’altra lettera, un decano dell’Accademia della Crusca chiarisce: Con franchezza le devo dire che assai rischiosi e impossibili sono i suoi tentativi di comparazione linguistica.

Bertani non si scoraggia mai. Continua a fare ricerca, studiare, tradurre e riempire decine di agende omaggio del Credito Emiliano con lemmi e caratteri di alfabeti lontani. Quando è stanco di una lingua o di una cultura, si sposta su un’altra, inseguendo la sua sete di conoscenza. Scrive dizionari dal georgiano, dal cincio, dall’orocio e dal gotico all’italiano, approfondimenti sui proverbi coreani e sui nomi propri persiani, in quel che presto diventa una bibliografia che contiene più di seicento pubblicazioni tra libri, saggi e articoli.

Quando ha un dubbio, si rivolge a colleghi linguisti e traduttori di tutto il mondo, che spesso si prodigano in complimenti sul suo lavoro. Porta avanti una corrispondenza fitta con un professore dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e con la bibliotecaria del Centro di Studi Zingari di Roma. Nei suoi archivi personali ci sono anche lettere di un docente giapponese, dell’Istituto di Cultura Italiano ad Amsterdam, dell’ambasciata vietnamita a Roma, dell’Istituto Linguistico dell’Accademia delle Scienze di Budapest.

La generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere

Stanno tutte in un armadio della Ludoteca della Biblioteca di Campegine, a pochi metri dai libri per bambini. Quando mi presento al banco accettazione e dico di essere venuto per fare una ricerca su Bertani, le due bibliotecarie sgranano gli occhi. Da quando è stato aperto il Fondo, mi confessano, Bertani le ha sommerse di libri, articoli e carte che loro hanno a malapena il tempo di catalogare. Ma subito si mettono all’opera: la generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere, curare. Dopo una breve ricerca mi mostrano il pezzo forte dell’archivio: due lettere scritte e firmate a mano dal padre dell’antropologia, Levi Strauss, che fa i complimenti a Bertani per una sua ricerca sul Genius Loci.

Ciò che filtra da questa maniacale e globale corrispondenza è il desiderio di dialogare con quella che Bertani considera la sua comunità di riferimento, ma ancor di più un bisogno sconfinato di conoscere, risolvere i dubbi che lo ossessionano durante la notte, mentre lui traduce nel suo piccolo studio e gli altri – uomini e vacche – dormono. 

“Prendi un albero, per esempio”, spiega Bertani, “Un contadino ci vede un olmo, una vite o un albero da frutto. Un cittadino ci vede un albero da viale o da parco. Una persona che vive nella foresta lo vede da un altro punto di vista ancora”. Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Bertani consiste nell’investigare il significato dietro a oggetti culturali apparentemente banali, lo stesso approccio usato da grandi semiologi come Roland Barthes o Umberto Eco.

Oltre a dizionari e saggi di linguistica, spulciando la bibliografia di Bertani, si trovano anche articoli sui ricci, gli indovinelli, la morte di Trotzkij e il Carnevale.

Questa bulimia intellettuale ha un doppio movimento. Il primo è rivolto verso l’esterno. “Per fare una buona traduzione bisogna conoscere anche la cultura, i costumi, i sentimenti e la storia di un popolo”, mi spiega Bertani, “Per imparare il russo, ad esempio, bisogna leggere il Canto della Schiera di Igor”. Seguendo questa filosofia, Bertani usa la linguistica come grimaldello per fare scorrerie nelle culture e nelle epiche di mezzo mondo. Studia la storia della Mongolia a partire da un carattere dell’alfabeto locale e si appassiona dello sciamanesimo degli Jukaghiri, una popolazione siberiana.

Ma il secondo movimento è sempre quello del ritorno alla terra. Come se, nelle notti di studio febbrile, il sorgere del sole gli ricordasse sempre che tra poche ore sarà di nuovo nei campi a lavorare. Bertani è un contadino e scrive per i contadini. Ecco allora articoli sul picchio e le zucche, sull’aratura dei campi e sulla funzione della stalla, sull’uso del propoli per curare l’asma e sui diversi nomi del ‘maiale’ in dialetto reggiano, oltre a trattati di erboristeria, botanica e zoologia (“Animali creduti ingiustamente malefici”, 2006).

Questo ritorno alla terra non è però mai nostalgico. È lui stesso ad ammettere di essersi allontanato presto dal comunismo (oggi si considera anarchico e tolstojano) e a dichiararsi contrario allo studio del dialetto reggiano nelle scuole dato che “i bambini non pensano più in dialetto”. Un suo saggio degli anni Novanta sulla provenienza centroeuropea della vacca rossa reggiana si è rivelato profetico: oggi la varietà è stata recuperata e produce uno dei Parmigiano Reggiano più ricercati e raffinati della zona.

Il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare

Fuori dalla finestra, la nebbia scende sul piccolo orto di Bertani, creando quella scenografia eterea che fa della Bassa emiliana un habitat naturale per la ricerca poetica. Basti pensare a Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi, Antonio Ligabue, Luigi Ghirri, che hanno popolato il profilo piatto di queste terre con personaggi strani e un po’ lunatici. Forse per giudicare l’opera di Bertani sarebbe utile avvicinarlo a questi autori –visionari e anticonformisti – più che ai cattedratici dei grandi atenei italiani.

Ma non c’è tempo di investigare oltre. Quando il respiro del vecchio si fa di nuovo pesante, il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare. Mentre si congeda con una rapida stretta di mano, ho la netta sensazione che Bertani si senta sollevato all’idea che tra poco il suo studio sarà vuoto e lui potrà accendere l’abat-jour, tirare fuori l’agenda e dedicarsi alla traduzione degli scritti in caratteri runici che ha lasciato in sospeso la notte passata.

Il suono delle aurore – Il professor Unto K. Laine

Le popolazioni artiche li descrivono come sibili di breve durata, fischi sommessi, deboli crepitii. Nella mitologia Inuit sono segnali di risposta da parte degli antenati; in quella finlandese, il fruscio prodotto dalla coda di una volpe di fuoco.

La storia dei suoni prodotti da intense manifestazioni dell’aurora boreale parte da lontano e affonda le sue radici nel folklore. I primi tentativi di dare un valore scientifico a tali osservazioni risalgono alla metà degli anni Sessanta, quando un gruppo di geofisici dell’Università dell’Alaska effettua la prima registrazione con microfoni a banda larga. Dall’analisi delle tracce non emerge nulla. Nel 1969 arriva la prima conferma di una vibrazione prodotta da un’aurora. Il suono è nel regime delle basse frequenze e non risulta udibile all’orecchio dell’uomo se non tramite sofisticate apparecchiature.

Lo studio dei suoni prodotti dalle aurore ha da sempre suscitato grande diffidenza nel mondo accademico. Il motivo è presto a dirsi: i fasci danzanti dell’aurora hanno origine a un’altitudine di oltre 100 km dal suolo, laddove le particelle del vento solare perdono energia sotto l’azione del campo magnetico terrestre, regalando riflessi verdi, azzurri, violacei. Ammettendo pure che da tale interazione scaturisca un suono, questo non avrebbe alcuna possibilità di raggiungere un osservatore a terra con caratteristiche apprezzabili, dato il lungo percorso e l’attenuazione.

Il campo di ricerca vive vicende alterne e gli scarsi progressi avvengono grazie ad appassionati e accademici residenti alle alte latitudini che vi si dedicano in forma saltuaria. A credere più di ogni altro nel progetto è il professore di acustica Unto K. Laine, dell’Università Politecnica di Helsinki.

“Ho assistito alla mia prima aurora boreale all’età di tre anni. L’aurora era accompagnata da strani suoni.”

Il professor Laine è guidato non solo da un interesse professionale, ma soprattutto dall’aver fatto esperienza in prima persona del raro fenomeno sonoro nell’autunno del 1990, nella Lapponia finlandese.
Laine, insieme al suo gruppo di ricerca, sviluppa nuove tecniche di rilevazione acustica e nel 2011, in concomitanza di un massimo solare, registra la prima traccia riconducibile a un suono prodotto da un’aurora boreale ben entro il limite di frequenze percepite dall’uomo. Il suono pare avere origine a una distanza di soli 70 metri dal suolo.

Nel giungo del 2016, incrociando nuovi segnali con dati da una sonda aerostatica dell’istituto finlandese di meteorologia, il professore svela il meccanismo che c’è dietro alla produzione di tali fruscii, e dimostra in via definitiva la veridicità del fenomeno. Abbiamo chiesto al prof. Laine di rispondere ad alcune delle nostre domande.

Professor Laine, quando ha sentito parlare per la prima volta dell’aurora boreale e che impressione le ha fatto?

Ho assistito alla mia prima aurora boreale all’età di tre anni. Ho un ricordo vago dell’accaduto, è stato mio fratello a confermare che abbiamo davvero assistito a un’intensa manifestazione dell’aurora boreale insieme a tutta la famiglia. Lui ricorda che in quell’occasione abbiamo avuto la fortuna non solo di guardarla, ma anche di ascoltarla. L’aurora era accompagnata da strani suoni. Il mio interesse più rigoroso per il fenomeno risale all’autunno del 1990, in seguito ad un viaggio in Lapponia in compagnia di alcuni amici.

Quali sono le condizioni atmosferiche ideali per il verificarsi di suoni aurorali e qual è il meccanismo che li produce?

I suoni sono favoriti dalle tempeste geomagnetiche associate a intense manifestazioni dell’aurora boreale. Nei giorni di sole, con l’alta pressione, l’aria al suolo si riscalda e la sera in assenza di vento prende lentamente a salire, fermandosi a un’altezza di circa 70–100m. Quest’aria trasporta un eccesso di ioni negativi. Con il verificarsi di un’aurora boreale il campo magnetico terrestre subisce delle piccole perturbazioni che aumentano la permettività elettrica dell’aria, favorendo la scarica a terra degli elettroni in eccesso. Come sappiamo dall’esperienza quotidiana, una piccola scarica elettrica produce un suono, in questo caso il suono prodotto è quello dell’aurora.

Ha incontrato difficoltà nel racimolare finanziamenti per la sua attività di ricerca? Pensa ci siano altri campi, oltre al suo, che soffrono di un certo pregiudizio da parte della comunità scientifica e che meriterebbero invece maggiore attenzione?

È stato tutto molto difficile. In un campo speculativo come il nostro, racimolare fondi è un’impresa quasi impossibile. Questo atteggiamento è in parte giustificato, dato che nessuno vuole correre il rischio di sprecare soldi e tempo per niente. Per lo stesso motivo molte idee nuove e radicali fanno fatica a trovare lo spazio che meriterebbero. Dovremmo dare spazio anche a quei progetti di ricerca che implicano un certo rischio.

A che punto è la sua ricerca e quali sono i suoi prossimi obiettivi?

Io mi sento di dire che dal punto di vista scientifico la questione è chiusa. Al momento sono impegnato a studiare la storia di questi suoni e l’impatto che hanno avuto sulla cultura dei popoli che li hanno ascoltati. In mio archivio si arricchisce di nuove informazioni ogni giorno. Recentemente ho studiato alcune pitture rupestri rinvenute in Finlandia e risalenti a 5000–7000 anni fa che potrebbero darci nuovi indizi su queste affascinanti fenomeni celesti. Nell’antichità l’aurora è stata interpretata come un’entità magica, un essere luminoso che faceva la sua comparsa nei cieli invernali. Questa è stata la spiegazione ufficiale prima che nel sedicesimo secolo si iniziasse a dare una spiegazione scientifica ai fenomeni naturali.

Non pensa che a volte sarebbe più confortante pensare all’aurora come a un fenomeno dalla natura prettamente magica, piuttosto che al risultato della fluttuazione di un campo magnetico? La scienza moderna non scoraggia ad apprezzare il lato ingenuo, immaginativo della natura?

Qualche giorno fa ho discusso il tema in un seminario aperto al pubblico. Ho iniziato la mia presentazione introducendo il sistema cognitivo umano, e ho spiegato come un bambino prenda coscienza del mondo attraverso i sensi: la vista, l’udito. A questo stadio le nostre interpretazioni sono innate. Ma andando avanti, esse diventano frutto della cultura in cui ci troviamo. Per trovare qualcosa di nuovo dovremmo guardare il mondo con gli occhi di un bambino, dimenticando tutte le interpretazioni. Dovremmo chiudere i libri e andare a osservare la realtà originale e oggettiva del mondo, quella della natura. Tutto ciò che abbiamo imparato dalla nostra cultura ci impedisce di guardare la realtà con onestà. Abbiamo frapposto delle lenti culturali, colorate, tra noi e la realtà. La verità finale è nascosta nella realtà, ed è nostro dovere andare a cercarla con metodi nuovi e nuove idee. Questo richiede moltissima immaginazione.