Questo è un reportage tratto dal primo libro della nostra Trilogia normalissima, “Gli ultrauomini” (che si può acquistare QUI, se vi va).
Visto che stiamo per uscire con il terzo volume della trilogia, abbiamo deciso di pubblicare questo pezzo anche qui, un piccolo regalo.
Buona lettura!
Quando paghiamo il conto al ristorante di pesce nei pressi del porto i proprietari hanno un occhio di riguardo per il mio commensale, il dottor Roberto Regnoli. Usciamo. Passeggiamo per il corso principale di Termoli. Ci rechiamo all’edicola in piazza, dove il dottore comprerà i magazine “Archeo” e “Pesca in mare”. Per strada siamo costantemente fermati da suoi amici o conoscenti: qualcuno in passato è stato operato da lui (un signore di una certa età lo ringrazia calorosamente per le cure che ha ricevuto a suo tempo). Per altri è semplicemente quello dei messaggi in bottiglia, il postino del mare, colui che raccoglie la singolare posta che proviene da altri luoghi e da altri tempi.
Il dottor Roberto Regnoli, 70 anni, possiede una collezione di circa ottocento biglietti arrivati dal mare. Sono i classici messaggi in bottiglia, di quelli che hanno fomentato l’immaginazione di bambini e sognatori, di scrittori e poeti, da Poe ai Police. Il dottore li raccoglie sulle spiagge di Termoli o quelle immediatamente confinanti. Regnoli non è termolese, e nemmeno è originario del Molise: è nato e cresciuto in una casa «A uno sputo dalle due torri di Bologna». Ma pur conservando una gradevole cadenza emiliana, dopo quarant’anni spesi a Termoli si considera oramai del posto. Qui è diventato una celebrità Quando gli chiedo come ci è finito un bolognese in Molise mi racconta che, appena terminata la facoltà di Medicina, il dottor Sabetta – suo mentore all’ospedale Rizzoli – gli propose: “Vuoi venire ad aprire un reparto di ortopedia a Termoli?”
Non ha dovuto nemmeno pensarci.
Ha salutato gli amici, la famiglia e la ragazza di allora, e la sua vita è ricominciata qui, dove ha fatto carriera come primario ortopedico. A Bologna ci torna sporadicamente, non gli è rimasto quasi nessuno. «Adesso son cinque anni che sono in pensione, ma allora ero appena ventiquattrenne. Fu una decisione che cambiò la vita. Un punto di non ritorno», mi dice. «Hai presente quei filmati in cui si montano le scritte “Poco prima” e “Poco dopo”?»
Qualcuno in passato è stato operato da lui. Per altri è semplicemente quello dei messaggi in bottiglia.
[Poco dopo]
La Nissan 4×4 mangia chilometri di strada deserta. Si vede solo qualche autotreno sulla corsia opposta. In alto, sul vetro del cruscotto, il dottore ha installato una piccola videocamera da auto. Regnoli è molto affascinato dalla tecnologia. Sorpassiamo Campomarino, poi Marina di Chieuti. Svoltiamo per una stretta stradina che si perde fra i canneti. Nel nulla compare una sbarra di metallo. Roberto scende dalla macchina e la alza. Passiamo. La rimette giù. L’asfalto è malmesso, corrotto dalle esondazioni del fiume Fortore: ormai il Molise lo abbiamo passato. «Quando sei a Termoli, se non ti sbrighi a schiacciare il freno dell’auto, è un attimo che arrivi in Puglia!» Scendiamo dalla 4×4. Il tratto di costa è lungo vari chilometri e arriva fino al Fortore. È solo uno dei luoghi di perlustrazione che a tappe Roberto batte ogni giorno alla ricerca delle bottiglie naufraghe. Con noi c’è il Piero, 74 anni, incappucciato per proteggersi dal vento e armato di due bastoni.
«La squadra è composta da tre persone», mi spiega Roberto. «Io e Piero siamo i cercatori, poi c’è l’informatico. Gestisce il sito, e via discorrendo». Se i cercatori operano sul campo, Antonio – un amministrativo dell’ospedale di Termoli, appassionato di internet e siti web – è quello che invece lavora in remoto. È il più giovane del gruppo, 64 anni, pensionato da poco, appassionato di programmazione: digitalizza ogni messaggio trovato dai cercatori nelle bottiglie e lo carica poi sul sito, con tanto di fotodocumentazione. «Sarà venuto in spiaggia un paio di volte», aggiunge il Piero, ex direttore di banca in pensione che invece col dottore ci viene sin dalla fine del 2005, quando l’avventura è cominciata. Piero e Roberto si sono conosciuti nel ’75: Regnoli era appena arrivato in paese. Condividevano prima la passione per la pesca, poi gli stessi amici, e infine questa missione. Se all’inizio battevano le spiagge solo nei fine settimana, ora che sono in pensione ci vengono tutti i giorni, cambiando area di volta in volta per effettuare ricerche più sistematiche. Sono infastiditi dal fatto che, proprio ora che hanno tutto il tempo da dedicare a quest’attività, di messaggi se ne trovano di meno rispetto agli anni passati.
«Questi mi servono per esaminare le bottiglie senza avere la necessità di chinarmi ogni volta sulla sabbia», mi spiega il direttore Piero, alludendo ai bastoni. «E poi mi sorreggono nel cammino».
Roberto mi dice che tutto il golfo che scende da Vasto a Punta Mileto è attraversato da fortissime correnti di superficie che accompagnano, proprio su quelle spiagge, bottiglie lanciate da molto lontano: il dottore conserva nella sua collezione messaggi arrivati dalla Turchia come dalla Grecia, dal sud della Francia come dalla Danimarca o da Nottingham.
Pare che già dal 310 avanti Cristo il mare e le sue correnti venissero indagati lanciando messaggi in bottiglia nel mare, e ancora oggi gli scienziati li utilizzano a questo scopo – ad esempio per studiare il cambiamento delle correnti artiche a seguito del disgelamento dei ghiacciai. Lo stesso Regnoli conserva fra i suoi ritrovamenti un biglietto arrivato dall’Istituto Oceanografico Croato che faceva ricerche di questa tipologia. C’è poi la questione del vento. Roberto definisce Termoli “la madre di tutti i venti”. Questo fa sì che su queste spiagge arrivino anche i messaggi legati ai palloncini: «Ne conserviamo parecchi, quasi sempre di bambini».
Nonostante vengano subito alla mente pizzini scritti da naufraghi o mappe del tesoro, la stragrande maggioranza dei biglietti ritrovati sono stati inviati per gioco, per esperimento: quasi tutti contengono il nome e il cognome del mittente più un indirizzo email seguito dalla scritta “Se trovi questo messaggio, scrivimi”. E Roberto assolve all’impegno di postino del mare con solerzia. Contattati gli autori, ne viene spesso ricompensato con foto, ricordi o racconti, che poi fa puntualmente caricare da Antonio sul sito.
«La squadra è composta da tre persone: io e Piero siamo i cercatori, poi c’è l’informatico»
«Qualche anno fa» mi dice, «Trovammo quello di una ragazza che ci diceva di presentarci con una rosa rossa sulla spiaggia di Peschici il 5 agosto. Il messaggio lo trovammo in ottobre. Aspettammo pazientemente che arrivasse l’estate, poi io e Piero comprammo una rosa e ce ne andammo al luogo dell’appuntamento. Ma in agosto Peschici è murata di gente! Ci siam fatti la spiaggia avanti e indietro, sotto al sole ustionante, cercando la ragazza con la rosa. Quando stavamo chiedendo informazioni a un bar, lei ci ha notato. Non è venuta di persona, ha mandato suo padre. Lei avrà avuto sedici anni. Non aveva portato la sua rosa! Ci siam fatti la foto assieme», mi dice. Poi tira fuori il cellulare per mostrarmela. Mentre le cerca mi dice che gli piace avere telefonini top di gamma: su quel cellulare ha vagonate di foto. Così tante che non riesce a trovare quella con la ragazzina.
«Sòccia, vabè… la trovi anche sul sito».
[Poco prima]
Fuori il cancello della villetta del dottor Roberto Regnoli campeggia la scritta “Attenti al cane”. Sotto la scritta, il disegno del faccione di Dogo, un Pastore del Caucaso. Entrando in casa sorprende il grosso ritratto sulla destra: il dottore col suo cane seduti in riva al mare. Da qualche anno Dogo è morto, ma è grazie a lui che è iniziato tutto.
Quando gli misero davanti il musetto di quel cane, ancora cucciolo, chiedendogli se avesse voluto acquistarlo, Roberto non dovette nemmeno pensarci. Solo dopo, sfogliando un libro su quella razza, scoprì che non era così facile occuparsene. Per cominciare diventano enormi. Sono protettivi e talvolta aggressivi. “Un Pastore del Caucaso può uccidere due lupi. Due Pastori del Caucaso possono ammazzare un orso”, era scritto su quel libro. I poveretti che passavano davanti alla casa del dottore attraversavano la strada, intimoriti. Dogo aveva necessità di muoversi libero, e dato che la mansuetudine non è contemplata fra le virtù di un cane del genere, era meglio portarlo a passeggio su spiagge non frequentate. Quelle selvagge, affollate di rifiuti riversati dal mare, in cui i turisti non fanno i bagni. Quelle difficili da raggiungere.
«Una volta ci ho trovato una bomba a mano, sai quelle da esercitazione? Son comunque pericolose! Ho dovuto chiamare gli artificieri. Un’altra volta un razzo di segnalazione che conteneva fosforo. E giù a chiamar la polizia. I poliziotti hanno dovuto parcheggiare lontano dalla spiaggia perché non avevano il mezzo adatto, poi li ho riportati indietro io. Sono spiagge che non batte nessuno, poi dopo ti ci porto. Non ci arrivi mica se non hai un fuoristrada con blocco differenziale 4×4», mi dice con orgoglio pensando alla sua Nissan.
Con Dogo e l’amico Piero, Roberto passava lunghe ore a respirare aria salmastra e, in una di quelle occasioni, si ritrovò sotto i piedi una bottiglia con dentro un messaggio. Niente di rilevante, solo un fugace stupore: c’era scritto “Porca puttana”. Gettò la bottiglia subito dopo. Così fece anche con la seconda, finché iniziò ad accorgersi di quanta gente, nell’era delle email e della messaggistica istantanea, si affidava ancora a questo tipo di posta – non solo per sfogare rabbia. Era la fine del 2005 e, con un messaggio proveniente dalla Croazia – che non è mai stato tradotto – cominciò ufficialmente la collezione.
«Una volta ci ho trovato una bomba a mano, sai quelle da esercitazione? Ho dovuto chiamare gli artificieri. Un’altra volta un razzo di segnalazione che conteneva fosforo»
Le passeggiate di Piero e Roberto divennero così un rito abituale. A Dogo si aggiunse un nuovo cane: il dottore aveva acquistato un altro Pastore del Caucaso – una femmina, stavolta – Kyra, deceduta sei mesi dopo il trapasso di Dogo (morta di crepacuore, dice Roberto). All’inizio del 2007 i cercatori trovarono 75 messaggi. Nel 2009 ne rinvenirono 102, spesso anche tre o quattro nella stessa ricognizione.
All’ingresso della sua villetta il dottore mi sta mostrando degli stivali di gomma («Il numero 45 ti calza bene?») e proprio in quel momento gli telefona Antonio. Roberto risponde dallo smartwatch, ché non trova il telefonino. Gli dice che sta per portarmi sulla spiaggia con Piero, e gli chiede se si vuole aggiungere così da farmi conoscere la squadra al completo. Ma a Termoli gira una brutta influenza, e Antonio deve stare a casa per quello che intuisco sia un parente ammalato. È stato lui ad avere l’idea del sito, portando al dottore fama internazionale – nei primi anni la missione di Regnoli si meritò un trafiletto sul “Times”. Ci fu un’ospitata in tv da Magalli, poi pagine dedicate su “Gente”, “Vero”, “La Gazzetta dello Sport”, e persino “Muy Interesante Junior”, un magazine messicano per ragazzi. Per finire una mostra con i migliori ritrovamenti, organizzata ogni anno a Termoli; anche quella fu un’idea di Antonio. «A noi cercatori, invece», chiosa il dottore, «spetta la parte divertente».
[Poco dopo]
Tira un vento gelido. Il mare è grosso e si slancia verso i nostri piedi raffreddandoci gli stivali. Camminiamo da circa mezz’ora, salendo e scendendo fra le cunette di sabbia e spazzatura. Nessuno parla. La spiaggia è piena di bottiglie, ma sono tutte vuote. Non è semplice identificare fra quel cumulo di rifiuti portati dal mare quelli che recano messaggi. Io avverto una certa stanchezza. Mi distraggo leggendo le varie marche d’acqua sparse per la spiaggia: Norda, Sant’Anna, Mia Vallestura, Acqua di Sepino – quella buona contro i calcoli renali. E poi quelle di aranciata, di birra, di succhi di frutta, e le taniche. I bottiglioni dei detersivi e quelli di grasso lubrificante. Arrivati alla carcassa di una vecchia barca alla deriva, decidiamo di tornare indietro. «Noi di solito continuiamo, ma per stavolta va bene così», mi dicono. Al ritorno andiamo più spediti. Roberto mi sorprende a osservare una lampara per la pesca: una volta fulminata il pescatore deve averla gettata in mare, e ora eccola lì, fra reti e cordame. Mi accorgo poi di grosse boe spiaggiate sull’arena. «Sono per la mitilicoltura», mi informa il Piero. «Non sai quante ne troviamo ogni giorno…». «Te lo dicevo», si aggiunge il dottore. «Su queste spiagge arriva davvero di tutto, e dai luoghi più disparati. Quando il Po esonda, la roba arriva qui!». Una volta i due trovarono un frigorifero quasi nuovo. Altre volte cartelli dei traghetti di Venezia, o un menu di un ristorante aquilano, o spazzatura proveniente dalla stessa Bologna che arrivò facendo il giro della penisola.
«E poi c’è la questione delle sculture», mi dice Roberto.
«Quali sculture?», domando.
«Non conosci le sculture?»
Il dottore tira fuori il telefono e grida: «Ok Google, chiama Silvio Marroni».
«Non ho capito», risponde la voce sintetica.
[Poco dopo]
Silvio Marroni non è in azienda, anche lui vittima dell’influenza. Ad aprirci ci sono però due dei suoi figli. La Italcom si occupa di arredo di interni per locali e negozi, uffici e abitazioni di lusso, con clienti anche influenti sparsi in tutta l’Italia. Roberto e Piero sembrano di casa e mi fanno strada, conducendomi attraverso un ampio magazzino in una sala riunioni che fa pure da showroom. Lì sono in bella mostra le famose sculture: oggetti dai colori vivaci e dalle forme più varie, tutti di materiali plastici, tutti provenienti dal mare, e tutti pezzi unici. Va detto: hanno un certo fascino. Roberto e Piero li lasciano in questa sala durante l’anno, per poi esporli durante la mostra d’agosto divertendosi a dare i nomi a ogni pezzo. Ci sono ad esempio “Le torri gemelle”: due sculture slanciate molto simili raccolte però in periodi diversi. «Non sono proprio uguali», precisa il direttore. «Sono sorelle, non gemelle, ma le abbiamo chiamate così». C’è poi una sorta di groviglio rosso acceso, schiacciato, che sembra pasta lunga. Loro lo espongono su un piatto di ceramica col nome di “Spaghetti al Ketchup”.
«Non sai quanti ci hanno chiesto come abbiamo creato queste opere», mi dice Roberto.
«Ci chiamano stronzi perché non si fidano del fatto che le troviamo già fatte così», precisa il Piero, sornione.
E in effetti la natura di questi oggetti pare misteriosa. Forse la plastica è stata sformata arrostendo al sole e poi levigata dall’acqua del mare? Non è dato saperlo. C’è una scultura che ha la forma precisa di una vagina, con tanto di clitoride. Nello showroom è stato messo al contrario, probabilmente per non turbare la sensibilità dei clienti.
«I messaggi più belli sono quelli d’amore», mi spiega Roberto. C’è ad esempio il ragazzo che sta per lasciare la ragazza e, rammaricato, affida i suoi pensieri nel mare: “Amore, sono seduto qui sulla spiaggia a guardare l’immensità del mare, che in questo momento è l’unica cosa che mi dà tranquillità”, declama a memoria Regnoli. C’è la donna che si rivolge al suo amore adultero: “Ho paura che presto questa relazione dovrà finire, ti voglio davvero troppo bene per andare oltre. È ora che guardi Vincenzo come un uomo sposato…”. La figlia che scrive al padre morto: “Ciao papà, è notte fuori ed io mi sono svegliata molto presto, all’improvviso … Forse perché ti ho sognato, forse perché mi manchi tanto…”. Ci sono poi messaggi meno poetici, come un bigliettino infilato in una bottiglia sul quale era scritto a caratteri cubitali “Voglio andare in pensione!”. Ci sono vari volantini pubblicitari: spam, come in tutti i tipi di posta. E poi messaggi religiosi o politici: il dottore ne trovò uno in cui si predicava in varie lingue l’indipendenza del Montenegro – quindi affidato al mare prima del 2006.
«Abbiamo provato a comunicare con il Guinness dei Primati per vederci riconosciuto il primato di questa collezione, ma non abbiamo ancora avuto risposta», mi dice il direttore.
Una volta in una bottiglia trovarono un messaggio in cui si leggeva “Chi mi contatterà dandomi prova di aver trovato questo biglietto, riceverà un premio!”
Roberto chiaramente contattò il mittente, e ne ricevette per posta un ciondolo e un “diploma di ritrovamento”. Un’altra volta trovarono invece un biglietto con una mappa e una lettera: dei giovani genovesi avevano fatto un giro dei Balcani in moto, e al ritorno, una volta imbarcati i mezzi sul traghetto che li riportava in Italia, hanno spedito al mare il loro itinerario e i loro pensieri (con tanto di progetti per il futuro: uno voleva fare il dottore). In quel caso promettevano, a chi avesse trovato il messaggio, una bottiglia di vino. Roberto e Piero andarono a riscattare il premio fino a Genova, al salone nautico.
«È stata una gita piacevole. Anche se i giovani avrebbero preferito che il biglietto lo trovassero due belle ragazze», scherzano i due.
“Ho paura che presto questa relazione dovrà finire, ti voglio davvero troppo bene per andare oltre. È ora che guardi Vincenzo come un uomo sposato…”
Quando organizzano la mostra al Castello, allestiscono anche il piano inferiore. Vi si scende oltrepassando un cancelletto che è chiuso ai minori: lì sono esposte le bambole.
[Molto prima]
A Termoli c’è una casa in fiamme. Il proprietario vive a Roma, ma una volta alla settimana scende per curare i rapporti con la sua clientela. Si trova in paese proprio quella sera in cui sente puzza di bruciato. Il fuoco ha preso tutto, per salvarsi è costretto a saltare dalla finestra. È solo un primo piano, ma l’urto col pavimento del cortile gli rompe la caviglia. È costretto a trascinarsi all’ospedale. Ad operarlo, Roberto Regnoli.
«Vedi te se è il modo di conoscere una persona», sorride il dottore. Non mi dice come si chiama quel vecchio paziente, ma usa il suo nome d’arte. Per tutti, infatti, è il Mago Umberto.
[Molto dopo]
Sul tavolino del bar ci sono le riviste “Archeo” e “Pesca in mare”; il dottore le ha appena acquistate. C’è poi una copia per me del libro “L’amore dal mare”, che Roberto ha autopubblicato raccogliendo i migliori messaggi che gli sono stati smistati dall’Adriatico.
«Il Mago Umberto è stata la peggiore sciagura che potesse capitarmi», scherza, quando gli chiedo dettagli su questo personaggio. «Gli ho salvato la caviglia e lui ogni tanto, per riconoscenza, mi devasta la psiche».
Gli domando chi può aver dato alle fiamme la casa del mago. «Evidentemente qualcuno che non era contento delle sue prestazioni professionali».
Il Mago Umberto è diventato oramai una sorta di consulente della squadra di Regnoli. Fra le tante cose che arrivano dalla spiaggia, non di rado ci sono infatti bambole vudù e fatture. Dei ritrovamenti fanno parte i bambolotti con gli spilli infilzati negli occhi e nel cuore, o alcuni limoni con sopra spillate le foto di due persone che si vogliono costringere a stare insieme per sempre. Il dottore me ne mostra le foto dal cellulare. Su una bambola è scritto a penna, sopra i vestiti infantili, un nome, un cognome e la dicitura “traditore”. Sul sito ci sono foto di bambole e fatture, con qualche spiegazione ricevuta dal Mago Umberto, ma il dottore sembra un po’ scettico a riguardo. «Ragazzi… Ci vogliamo credere? Ci vogliamo credere. Non ci vogliamo credere? Per me va bene lo stesso».
«Il Mago Umberto è stata la peggiore sciagura che potesse capitarmi»
Mi faccio fare una dedica sul libro.
«Sono sempre stato un cercatore», mi dice il dottore, firmando sul frontespizio del libro. «Da piccolo collezionavo figurine, tappini, pacchetti di sigarette a Riccione, poi ho cominciato a cercare pietre e poi pesci».
Nel 2004 pescò un tonno di oltre duecentocinquanta chili di cui è molto orgoglioso. Ci sono volute ore per prenderlo. Scoprirò che ne ha una foto incorniciata all’ingresso, una in studio, una che fa da sfondo al suo computer e una da qualche parte sul cellulare. «Il Big Game – la pesca al tonno – è una delle poche attività che faccio senza Piero. A lui non piace perché è una pesca d’attesa. Sono più le volte che non troviamo niente rispetto a quelle, rarissime, in cui troviamo qualcosa».
[Poco dopo]
«Anche stavolta, niente di niente», commenta il dottore dopo la ricognizione sulla spiaggia «Nessun messaggio!»
«Nada de nada», conferma il direttore.
Il dottor Roberto Regnoli, 70 anni, possiede una collezione di circa ottocento biglietti arrivati dal mare.
Risaliamo nella 4×4 per toglierci gli stivali. Mi guardo un’ultima volta in giro. La quantità di spazzatura che arriva qui da tutto il Mediterraneo (e oltre) è impressionante. Queste spiagge sono state abituate a ricevere dal mare lavatrici e pozzetti frigo, palanche e le onnipresenti cassette di polistirolo. Arrivano così tanti tipi di scarpe che Roberto ne ha fatto una galleria fotografica che mostra agli amici: un suo conoscente, musicologo in pensione, ne ha composto la musica di sottofondo. L’ha intitolata, su suggerimento del dottore, “Mare calzolaio”. I cercatori mi dicono che una volta, pochi anni prima, la provincia ha fatto ripulire completamente il litorale. «Tempo qualche mese e, come avevamo previsto, è tornato tutto com’era», mi dice il Piero. «Il problema non è pulire», aggiunge Roberto, «Il problema è non sporcare. La gente non è educata, in mare versa di tutto». Per provocarlo faccio notare che anche le bottiglie lanciate nel mare sono da considerarsi inquinamento. Gli chiedo: «Se un giorno smetteste di trovare bottiglie in mare, sareste contenti sapendo che la gente ha finito di inquinare, o ci rimarreste male perché sarebbe finita la vostra collezione?»
Roberto non ha nemmeno bisogno di pensarci.
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