Sono le poche superstiti di un’epoca. Giacciono intoccate da almeno sessant’anni, alcune ridotte a rudere, senza più infissi, fagocitate dalla vegetazione, popolate da insetti e da rapaci notturni. Altre, più resistenti o manutenute, conservano ancora una loro spoglia integrità.
Sono edifici oblunghi che sembrano essere sorti dalla campagna giallognola che li circonda, tanto si mimetizzano nel paesaggio. Gli elementi posticci – le lamiere, le plastiche ondulate, i cartelli di pericolo – ci ha pensato il tempo a sbiadirli e ad accordarli al mondo circostante.
Le chiamano case coloniche perché in un passato non troppo lontano ospitavano stabilmente intere famiglie di “coloni”: contadini legati al proprietario da un contratto di mezzadria che prevedeva la residenza, la coltivazione di un fondo e la divisione a metà del raccolto e degli utili da esso ricavati. Una pratica secolare che in alcuni casi si trascinò fino agli anni ’60 del secolo scorso.
Osservandole da vicino, per un attimo mi figuro l’ultimo bovino fatto uscire dalla stalla, il fattore che per l’ultima volta ne chiude a chiave il portone d’ingresso. Forse sono romanticherie ma è da questa fine immaginata che decido di far cominciare il mio piccolo viaggio a ritroso, nel tentativo impossibile di ricucire con poche righe la frattura tra questi luoghi e le loro storie.
Qui nella Bassa Friulana, provincia di Udine, il materiale è ormai rarità, la mezzadria un ricordo d’infanzia di alcuni ottantenni, troppo vicino per essere dimenticato, troppo lontano per essere rievocato con precisione.
È un sabato mattina di novembre, fuori piove a dirotto, giorno adatto ad infilarsi in una biblioteca con alcuni titoli appuntati nello smartphone.
Li trovo tutti eccetto uno, lo devo chiedere con la formula del prestito interbibliotecario; «Devo solo verificare con l’altra biblioteca che non sia già stato prenotato» mi spiega la ragazza al bancone mentre è già in chiamata con la sua omologa. La telefonata dura un attimo e lei stacca per un secondo gli occhi dal computer per dirmi con un mezzo sorriso «Non c’è problema, dicono che l’ultimo prestito risale al 1984».
La guardo un po’ smarrito, è l’anno in cui sono nato. Ringrazio, raccolgo l’ombrello e ritorno a casa.
Nei giorni seguenti leggo, rileggo, prendo appunti, ma mi accorgo presto che non è la storia della mezzadria vista dall’alto ad interessarmi, sono piuttosto le piccole storie, le singole esistenze che furono al centro di quel fenomeno. Sono quelle che voglio farmi raccontare, e così inizio a muovermi attraverso alcuni conoscenti: cultori di storia locale, ex sindaci, parenti di amici, amici di parenti. Ai primi tentativi di informarmi c’è chi mi risponde «mi dispiace, quelli che cerchi ormai sono tutti morti»; ma non mi arrendo facilmente, e va a finire che qualche storia da riportare al suo casale abbandonato ancora la trovo.
Vaticano
Sguardo austero, corporatura robusta, nonostante l’età e il passo pesante Gerardo ha ancora l’aspetto di un uomo forte. La sua carnagione è così scura, i suoi lineamenti così esotici, che la mia immaginazione mi porta in qualche angolo dell’America rurale, in Louisiana o giù di lì.
Lo trovo nel retro della sua casa intento a carteggiare un’asse di legno. Mi guardo attorno e vedo gli arnesi tipici delle famiglie in cui ancora qualcuno lavora la terra: fusti, erpici, botti, torchi, e ovviamente il trattore. Poco più in là una barca di legno rovesciata, poggiata su dei blocchi di cemento, memoria dei tempi non lontani in cui qui a Muzzana tutti andavano nella vicina laguna a palmonâ, a pescare a braccio durante le basse maree.
Mi conduce in casa e iniziamo a conversare. I suoi ricordi sono nitidi, le cose che dice sono secche, il più delle volte non lasciano appello.
Gerardo, che ha vissuto la sua infanzia in una famiglia colonica, mi racconta di campi lavorati a mano, aratri trainati dai buoi, economie di scambio, mendicanti che bussavano alla porta in cerca di cibo. Di una realtà che potrebbe essere quella di cento o duecento anni prima. Il suo sguardo è severo ma con una vena di dolcezza che si manifesta solo all’evocare certi ricordi. Non oso interromperlo.
Tra le due guerre, ovviamente, non c’erano solo loro, i mezzadri, a lavorare la terra. Uno scalino più su c’erano i piccoli proprietari, che avevano campi e bestie abbastanza per sopravvivere; uno scalino più in basso c’erano i braccianti, che qui in Friuli erano chiamati sotàns, i subalterni, sottomessi.
«I sotàns erano quelli messi peggio, gente che non aveva terra e che lavorava a giornata, il più delle volte in cambio di un piatto di fagioli o di un pezzo di formaggio. A noi mezzadri in fondo non andava così male».
Il proprietario del fondo era Antonio Cavarzerani, all’epoca celebre chirurgo che proprio qui a Muzzana aveva una delle sue tenute più grandi. Il suo cognome sbiadito si legge ancora oggi nella facciata di uno dei casali affacciati alla strada regionale che porta a Castions di Strada. Tra questi, ad affascinarmi più di altri è un grande edificio isolato che presiede una tenuta chiamata ancora oggi Vaticano.
Cosa c’entri il cuore della Chiesa cattolica con queste terre di fame e sudore me lo spiega Ampelio, che ha ottantasei anni e in quella casa ci è nato. Lo sorprendo nel suo capannone a pochi metri da lì, mentre è appena sceso dal trattore: «fu proprio Cavarzerani a chiamare così quella tenuta, nel 1919, quando scoprì che la sua estensione di quarantaquattro ettari era uguale a quella della Città del Vaticano. La mia famiglia ci arrivò qualche anno dopo, venivano da Fossalta di Portogruaro…erano piccoli proprietari che si erano indebitati e che furono costretti ad andare mezzadri».
La loro vita da coloni andò avanti molto a lungo, fino agli anni ’70, per poi proseguire nell’agricoltura fino ad oggi: «Io questi campi li conosco alla perfezione, le terre migliori e quelle peggiori, le ho girate e voltate migliaia di volte, noialtri abbiamo sempre lavorato molto».
Prima di risalire sul suo Fiat 60-90, mi mostra il portafogli e appoggiandomi la mano sulla spalla mi dice sogghignando «me lo porto dietro, così se mi trovano morto in qualche campo almeno riescono a riconoscermi». Sorrido anch’io, sento il motore battere i primi colpi e in un attimo il puzzo di gasolio si diffonde nell’aria e mi invade le narici.
L’indomita Elide
Valle Hiershel era una tenuta a ridosso degli argini lagunari e delle foci del fiume Stella che prendeva il suo nome dalla famiglia ebraica di commercianti triestini che ne fu proprietaria fino al 1920.
La famiglia di Elide ci arrivò qualche anno più tardi, nel 1927, per lavorare a mezzadria una parte della vastissima proprietà della Società anonima Beni Rustici. Dodici animali e settanta campi di dura terra argillosa, tutti da lavorare a mano, alcuni ancora da bonificare.
«Mezzadria per modo di dire, quella era schiavitù!», sentenzia lei. E mi racconta che il prodotto non veniva mai diviso a metà ma andava tutto all’ammasso, nessuna divisione paritaria degli utili, a loro era riservato solo lo stretto indispensabile per sopravvivere. Il gastaldo li controllava assiduamente e ogni piccola trasgressione era sanzionata.
Consolazione per i loro stomaci, a due passi c’era la laguna e quindi pesce a volontà. Pescavano quasi tutto con le mani o con qualche guadino di fortuna costruito con un sacco e un bastone: passere, vongole, gamberetti, anguille. Una parte la vendevano per riuscire a comprarsi quel po’ di sale e di olio che occorrevano in casa.
In laguna ci andavano pure per lavarsi, visto che ai padroni «costava troppo» portare l’acqua al loro casale. Per abbeverare le mucche la famiglia di Elide era costretta a prender l’acqua con le tinozze da un pozzo nei paraggi.
Indomita Elide, racconta la sua vita con la fierezza di chi nonostante tutto ce l’ha fatta.
Mentre lei mi parla, sua figlia è intenta a cucinare delle vongole, il profumo che invade la stanza e il crepitio dei gusci che si aprono al calore della pentola – tic tac tic – fanno da sfondo ideale per questa storia.
A scuola Elide ci andava solo nelle giornate di pioggia, quando non c’era modo di lavorare in campagna. Sua madre le infilava addosso un sacco di canapa come impermeabile e lei partiva, con gli zoccoli che si infangavano sempre di più lungo il cammino.
Arrivata la guerra tutti gli uomini partirono al fronte, rimase solo suo nonno.
Poi giunse il momento in cui i tedeschi, temendo uno sbarco anglo-americano in alto Adriatico, prima riempirono le sponde di mitragliatrici, poi svelarono il loro piano difensivo: far saltare gli argini lagunari. Fu questione di poco tempo, uno squarcio nell’argine e l’acqua salmastra si riprese tutta la terra che anche loro avevano contribuito a bonificare. I campi, le vigne, i gelsi. Tutto finì sott’acqua, annichilito dal salso.
La famiglia fuggì, sparpagliandosi per la Bassa friulana nell’attesa e nella speranza, poi avveratasi, di veder tornare gli uomini dal fronte.
Dopo la guerra, di nuovo mezzadri. Questa volta sulla sponda opposta dello Stella. Anche qui tutto era da fare, ma la terra era migliore e i rapporti con i padroni pure. Tutto veniva annotato nel libretto colonico e pure il fattore era un “buon cristiano”.
Elide rimase in famiglia fino al 1951, quando dopo essersi sposata si trasferì a Carlino presso la famiglia di suo marito, anche lui “colono”, ancora per qualche anno, sotto i Conti Zaina.
Infine, la svolta di cui solo una donna col suo temperamento sarebbe stata capace: «mi proposero di diventare “coltivatore diretto” ma ci volevano troppi campi, e visto che abitavamo vicino al fiume Zellina proposi a mio marito di mettermi a pescare con le reti. Ci saremmo svegliati assieme all’alba, lui sarebbe partito per raggiungere le stalle in cui faceva il mungitore, e io sarei andata a pescare. Mi guardò e si mise a ridere ma poi fu davvero così, diventai l’unica donna con la licenza di pesca professionale in tutto il Friuli! Mio padre, che era andato mezzadro a Ipplis, si procurò un rovere molto grande e mi fece costruire la barca, che poi denunciai alle Finanze…avevo reti di ogni tipo e pescavo cefali, anguille, passere,…».
E così fu, fino alla pensione.
Isoglosse
Per stabilire la geografia delle lingue e dei dialetti, i ricercatori tracciano sulle carte delle linee immaginarie chiamate isoglosse, che delimitano i confini dei singoli fenomeni linguistici. Sono certo che qui, nei dintorni di Lugugnana, lembo orientale della provincia di Venezia e lembo occidentale del Friuli storico, ne passassero parecchie di queste linee, accavallandosi in un groviglio. Poteva capitare infatti che i confini linguistici tra veneto e friulano dividessero i membri di una stessa famiglia.
Di sicuro loro, contadini impermeabili alle smanie definitorie della modernità, non ci facevano molto caso.
Antonietta è nata proprio qui e parla un friulano ormai raro da sentire. È un saliscendi enfatico di volumi alti e bassi, con alternanza di parole che escono di corsa e di altre pronunciate lentamente.
Mi accoglie nel seminterrato in cui assieme al marito passano le serate invernali, lei a stirare e cucire, lui a guardare la tv. Il resto della casa non è abitato se non per mangiare e dormire. Un gatto gli fa compagnia. «Era randagio, un po’ alla volta lo abbiamo avvicinato ed ora eccolo lì, accovacciato sulla poltrona…ci ha preso gusto!» ride Antonietta.
«Quando ero bambina in casa eravamo in trentatré, poi un po’ alla volta i fratelli di mio padre nel corso degli anni se ne sono andati. Eravamo a mezzadria, i proprietari erano i Brunich, gente perbene. Ci concedevano molta libertà e noi non ne abbiamo mai approfittato. Ricordo il fattore inviato dai proprietari, un uomo alto e secco, veniva due volte l’anno e se vedeva qualcosa che non andava si voltava dall’altra parte. La campagna era grande, avevamo settanta campi: mais, frumento, girasoli, barbabietole, erba medica, avena…e poi le bestie e i bachi da seta». Ricorda tutto alla perfezione e se qualcosa le sfugge ci pensa suo marito, aggrappato al bastone, a ricordarglielo.
Emerge quel vivere scandito da stagioni e ritualità, destinato di lì a poco ad essere spazzato via dal boom economico: a Sant’Antonio la mietitura del frumento; a San Pietro la trebbiatura; a San Martino la conclusione dell’annata agraria, scadevano i contratti che legavano i mezzadri ai possidenti e per qualcuno era il momento di andarsene e di cercarsi un nuovo padrone, perché essere mezzadri significava anche vivere esposti al perenne rischio di una sfiducia.
Antonietta non esita a dirmi che non tornerebbe alla vita nei campi, di cui ricorda le ferite alle mani, le levatacce, la casa senza allacciamento alla corrente elettrica. Per lei la mezzadria finì nel 1963, quando, a venticinque anni, emigrò in Svizzera per lavorare come operaia in una fabbrica tessile: «In quegli anni tutti lasciavano la mezzadria, la misero fuori legge e c’era il cosiddetto Piano Verde con cui lo Stato prestava i soldi a chi comprava i campi».
Erano anche gli anni dei metalmezzadri, che dividevano la loro vita tra il lavoro nei campi e quello nelle fabbriche, preludio della fuga definitiva dalle campagne che si sarebbe consumata nei decenni a seguire.
Scorte vive
È grazie a Chiara, una vecchia amica che non sentivo da tanto, che mi procuro un altro incontro. Ricordavo vagamente che la sua era una famiglia di contadini venuti dal Veneto e lei al telefono me ne dà conferma: «mio nonno è molto anziano ma ricorda tutto alla perfezione, sarà felicissimo di raccontarti la sua storia».
Ed eccomi, pochi giorni dopo, davanti al portone di casa del nonno. Mentre aspetto impaziente osservo i campi che circondano l’edificio, sono appena stati arati e mostrano le viscere lucide di una terra compatta e argillosa.
Mi apre la porta Enea, nato novantadue anni fa ad Eraclea, nel litorale veneto, quando ancora il paese portava il vecchio nome di Grisolera. La sua era una famiglia di mezzadri ancora obbligati alle cosiddette “onoranze”, i regali in natura che i coloni erano tenuti a rendere al proprietario in determinate occasioni: «a Pasqua dovevamo portargli centodue uova, dodici capponi e la coscia più bella del maiale».
Era il 1942 quando si trasferirono in Friuli, portando con sé solo pochi attrezzi, il carro e l’aratro.
Lui li raggiunse da solo, poco tempo dopo. Il racconto del suo arrivo è una sequenza di immagini: un ragazzino quindicenne spaesato salito sul treno accelerato con le catene del bestiame in spalla, un capotreno coscienzioso che a un certo punto gli dice «ecco, puoi scendere, siamo a Palazzolo dello Stella», una lunga camminata attraverso la campagna sconosciuta in cui avrebbe poi vissuto per tutta la vita.
«Quando arrivammo qui c’era ancora la malaria e pure io la presi. Durante gli sfalci ricordo che mi saliva la febbre e mia madre, non vedendomi fare ritorno, mi raggiugeva con una coperta per coprirmi la schiena e mi riportava a casa…la febbre durava quattro-cinque ore».
Gli domando se si integrarono subito con la gente del luogo. Sorride, e racconta «appena arrivati noi veneti ci chiamavano talianòts (“italianotti”, nda) ma noi non ci badavamo tanto, si pensava solo a lavorare».
La sua è una storia emblematica, furono infatti tantissimi i veneti che si trasferirono nella Bassa Friulana per lavorare la terra. Spesso a staccarsi e fondare un nuovo nucleo erano pezzi di famiglie coloniche divenute troppo numerose, in cerca di terre bonificate da lavorare e disposti a indicibili sacrifici.
«Qui in Friuli, essendoci molti piccoli proprietari, c’era ancora posto per nuovi mezzadri» ricorda Enea, mostrandomi uno dei tanti libretti mezzadrili che ha conservato. È lì che venivano formalizzati tutti i crediti e i debiti sorti tra le parti, oltre che stabilite le condizioni del singolo contratto, che si rifaceva ad un Patto Generale sottoscritto a livello provinciale.
Una delle prime cose che ci trovo annotata è la composizione della famiglia mezzadrile: nomi-cognomi-date di nascita. Ne conto tredici al loro arrivo nel ’42: marito, moglie e ben undici figli.
Nella pagina successiva, speculare, quasi una continuazione in forma animale della stessa, la “stima delle scorte vive” ossia vacche, vitelli e buoi elencati anch’essi per nome: Ardito, Furba, Volga, Tosca, Nano, Betta.
Squilla il telefono nella stanza accanto, Enea si allontana per rispondere e rimango solo, di fronte a questi libretti vecchi di quasi sessant’anni. Mentre lo sento parlare provo a riflettere su cos’è che accomuna i racconti che ho ascoltato finora. C’è di sicuro la precarietà di un vivere sempre appesi a un contratto a termine, assoggettati a una volontà esterna; ci sono poi continue migrazioni – da un casale a un altro, da un paese a un altro, da una regione a un’altra – alla ricerca di un’opportunità di vita migliore; c’è soprattutto la famiglia, attorno alla quale ruota tutto l’universo mezzadrile. Non c’è biografia che non graviti attorno ad essa, che non chiami in causa madri, padri, fratelli e sorelle. È lo stesso contratto a definire il mezzadro come “capo di un’intera convivenza familiare”.
Precarietà, migrazioni, famiglie. Se immagino un filo rosso tra queste e altre storie, più celebri, anche qui mi trovo davanti agli stessi elementi. Penso ai mezzadri bergamaschi del film L’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi o alla storia della famiglia Joad narrata da John Steinbeck in Furore.
Quando Enea ritorna c’è tempo ancora per alcune battute ma presto arriva l’ora di salutarci. Accompagnandomi alla porta mi indica una foto d’epoca alla parete che ritrae una grande trebbiatrice circondata da uomini, donne e bambini. «Quella era la famiglia di mia moglie» mi dice. Gli uomini hanno tutti busti magri e abbronzati, e portano canottiere bianche, sullo sfondo una casa colonica che probabilmente non esiste più. Ci metto un po’ a scorgere un giovane uomo, di lato al resto del gruppo, con il braccio teso del saluto fascista. Glielo faccio notare azzardando una domanda su cosa ricorda del fascismo. «Mio padre era socialista ma in quel periodo dovevamo rigare dritti…da bambino quando trasmettevano i discorsi del Duce c’era l’obbligo di fermarsi e stare in silenzio, finché non finiva di parlare».
Con l’anguria sulla testa
Gli ultimi giorni di agosto, in queste strade di pianura, sono forse il momento più dolente dell’anno. La natura attorno pare consunta, scolorita, sofferente. In attesa di un temporale per scrollarsi gli ultimi frutti di dosso.
Decido di spostare la mia ricerca più ad est, nella Bassa “orientale”. Mi metto in macchina.
Il territorio è un continuum pianeggiante, strade rettilinee interrotte solo dalle rotatorie, campi a destra e a sinistra, fino a incontrare con lo sguardo l’insediamento produttivo dell’ex SNIA di Torviscosa, eredità del sogno agro industriale fascista.
La storia divise in due questo territorio per lungo tempo tra le sponde del fiume Ausa, che fino al 1918 segnò il confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico.
Incontro Carmelo, classe 1939, in una delle poche osterie di Cervignano del Friuli sopravvissute agli arredi in rattan sintetico.
La sua famiglia, originaria del goriziano, si trasferì a Terzo d’Aquileia nel 1940 per lavorare a mezzadria le proprietà dei Brunner, triestini di origini austriache.
Mi racconta con un certo orgoglio la sua lunga militanza nel P.C.I. – «ho fatto politica tutta la vita…comizi…riunioni…da Lignano a Tarvisio le osterie le ho girate tutte» – e della sua partecipazione all’ultima fase delle lotte mezzadrili della Bassa.
Assieme a lui provo a ripercorrere la storia delle lotte contadine in queste zone. Sul tavolo, accanto ai bicchieri, una monografia sull’argomento scritta dallo studioso Renato Jacumin in un’edizione degli anni ’70.
Si parte dagli albori del ‘900, quando nel segno di un cattolicesimo sociale nascevano copiosi nel Friuli austriaco circoli, cooperative e casse rurali. La mezzadria era all’epoca una realtà molto diffusa ed erano proprio i cattolici eletti nel parlamento di Vienna a battersi per ottenere un miglioramento dei patti colonici.
Dopo il conflitto cambiarono molte cose, sotto il Regno d’Italia i preti più impegnati socialmente furono allontanati dalla diocesi perché ritenuti austriacanti, il movimento cattolico si indebolì e si fecero spazio i socialisti, che in quegli anni guadagnarono molti consensi nelle campagne attraverso l’azione della «Federazione Provinciale dei Lavoratori della terra», capitanata da Giovanni Minut, figura leggendaria di agitatore politico di queste terre prima dell’avvento del fascismo.
Minut proveniva proprio da una famiglia di mezzadri, e dopo aver combattuto la Prima Guerra Mondiale con la divisa dell’Impero aderì prima al socialismo e poi divenne comunista, diventando protagonista di dure lotte contro i grandi proprietari terrieri.
Nell’immaginario collettivo rimasero i suoi comizi in lingua friulana, e la sua motocicletta acquistata grazie a una colletta tra tutte le leghe contadine della zona, con la quale sfrecciava nelle strade polverose della Bassa, da un paese all’altro, per organizzare l’attività politica.
Prima di salutarci, Carmelo estrae dalla borsa un libricino fresco di stampa, è una raccolta di sue poesie in friulano. Dal modo in cui lo maneggia sembra quasi, per timidezza, volermelo nascondere. Me ne legge alcune.
Una è dedicata al fratello Nino, catturato dai nazisti in Grecia e morto di tubercolosi nelle miniere di Saarbrucken, un’altra alla «porta sempre aperta» della madre Griselda, che a Pasqua accoglieva il prete a benedire la loro casa anche se la loro era una famiglia di comunisti scomunicati, un’altra ancora alla parabola dei tanti mezzadri venuti dal Veneto dopo aver passato il Piave «cu l’anguria sul cjâf», con l’anguria sulla testa, come dicevano da queste parti ad indicarne la povertà, e «diventati un po’ alla volta friulani».
Rincasando in auto dopo l’ultima intervista, mi sembra di vedere questo paesaggio che conosco da una vita con occhi nuovi, di poter scorgere delle storie dietro ogni cosa: le case edificate negli anni ’60, che coronavano il sogno di tanti friulani usciti dal dopoguerra e dall’emigrazione, i campi di soia, le officine meccaniche, i negozi chiusi per sempre e quelli aperti ma chissà ancora per quanto, i camionisti stranieri fermi nei piazzali di sosta, le villette a schiera, i pioppeti, i distributori, i motoscafi sui carrelli posteggiati in giardino.
Una periferia pianeggiante che porta i segni del passaggio di epoche, economie, tecnologie. Uguale e diversa da molte altre, come altre piena di contraddizioni che non sappiamo o vogliamo vedere.
Gli ultimi casali colonici sono sempre là, li si scorge alzando un po’ lo sguardo verso la campagna, i contorni offuscati dall’umidità che si leva da terra e confonde la vista, vecchi guardiani che sembrano osservare con disincanto, da lontano, la strada statale.
Sono le poche superstiti di un’epoca. Giacciono intoccate da almeno sessant’anni, alcune ridotte a rudere, senza più infissi, fagocitate dalla vegetazione, popolate da insetti e da rapaci notturni. Altre, più resistenti o manutenute, conservano ancora una loro spoglia integrità.
Sono edifici oblunghi che sembrano essere sorti dalla campagna giallognola che li circonda, tanto si mimetizzano nel paesaggio. Gli elementi posticci – le lamiere, le plastiche ondulate, i cartelli di pericolo – ci ha pensato il tempo a sbiadirli e ad accordarli al mondo circostante.
Le chiamano case coloniche perché in un passato non troppo lontano ospitavano stabilmente intere famiglie di “coloni”: contadini legati al proprietario da un contratto di mezzadria che prevedeva la residenza, la coltivazione di un fondo e la divisione a metà del raccolto e degli utili da esso ricavati. Una pratica secolare che in alcuni casi si trascinò fino agli anni ’60 del secolo scorso.
Osservandole da vicino, per un attimo mi figuro l’ultimo bovino fatto uscire dalla stalla, il fattore che per l’ultima volta ne chiude a chiave il portone d’ingresso. Forse sono romanticherie ma è da questa fine immaginata che decido di far cominciare il mio piccolo viaggio a ritroso, nel tentativo impossibile di ricucire con poche righe la frattura tra questi luoghi e le loro storie.
Qui nella Bassa Friulana, provincia di Udine, il materiale è ormai rarità, la mezzadria un ricordo d’infanzia di alcuni ottantenni, troppo vicino per essere dimenticato, troppo lontano per essere rievocato con precisione.
«Mi dispiace, quelli che cerchi ormai sono tutti morti»
È un sabato mattina di novembre, fuori piove a dirotto, giorno adatto ad infilarsi in una biblioteca con alcuni titoli appuntati nello smartphone.
Li trovo tutti eccetto uno, lo devo chiedere con la formula del prestito interbibliotecario; «Devo solo verificare con l’altra biblioteca che non sia già stato prenotato» mi spiega la ragazza al bancone mentre è già in chiamata con la sua omologa. La telefonata dura un attimo e lei stacca per un secondo gli occhi dal computer per dirmi con un mezzo sorriso «Non c’è problema, dicono che l’ultimo prestito risale al 1984».
La guardo un po’ smarrito, è l’anno in cui sono nato. Ringrazio, raccolgo l’ombrello e ritorno a casa.
Nei giorni seguenti leggo, rileggo, prendo appunti, ma mi accorgo presto che non è la storia della mezzadria vista dall’alto ad interessarmi, sono piuttosto le piccole storie, le singole esistenze che furono al centro di quel fenomeno. Sono quelle che voglio farmi raccontare, e così inizio a muovermi attraverso alcuni conoscenti: cultori di storia locale, ex sindaci, parenti di amici, amici di parenti. Ai primi tentativi di informarmi c’è chi mi risponde «mi dispiace, quelli che cerchi ormai sono tutti morti»; ma non mi arrendo facilmente, e va a finire che qualche storia da riportare al suo casale abbandonato ancora la trovo.
Vaticano
Sguardo austero, corporatura robusta, nonostante l’età e il passo pesante Gerardo ha ancora l’aspetto di un uomo forte. La sua carnagione è così scura, i suoi lineamenti così esotici, che la mia immaginazione mi porta in qualche angolo dell’America rurale, in Louisiana o giù di lì.
Lo trovo nel retro della sua casa intento a carteggiare un’asse di legno. Mi guardo attorno e vedo gli arnesi tipici delle famiglie in cui ancora qualcuno lavora la terra: fusti, erpici, botti, torchi, e ovviamente il trattore. Poco più in là una barca di legno rovesciata, poggiata su dei blocchi di cemento, memoria dei tempi non lontani in cui qui a Muzzana tutti andavano nella vicina laguna a palmonâ, a pescare a braccio durante le basse maree.
Mi conduce in casa e iniziamo a conversare. I suoi ricordi sono nitidi, le cose che dice sono secche, il più delle volte non lasciano appello.
Gerardo, che ha vissuto la sua infanzia in una famiglia colonica, mi racconta di campi lavorati a mano, aratri trainati dai buoi, economie di scambio, mendicanti che bussavano alla porta in cerca di cibo. Di una realtà che potrebbe essere quella di cento o duecento anni prima. Il suo sguardo è severo ma con una vena di dolcezza che si manifesta solo all’evocare certi ricordi. Non oso interromperlo.
Tra le due guerre, ovviamente, non c’erano solo loro, i mezzadri, a lavorare la terra. Uno scalino più su c’erano i piccoli proprietari, che avevano campi e bestie abbastanza per sopravvivere; uno scalino più in basso c’erano i braccianti, che qui in Friuli erano chiamati sotàns, i subalterni, sottomessi.
«I sotàns erano quelli messi peggio, gente che non aveva terra e che lavorava a giornata, il più delle volte in cambio di un piatto di fagioli o di un pezzo di formaggio. A noi mezzadri in fondo non andava così male».
Il proprietario del fondo era Antonio Cavarzerani, all’epoca celebre chirurgo che proprio qui a Muzzana aveva una delle sue tenute più grandi. Il suo cognome sbiadito si legge ancora oggi nella facciata di uno dei casali affacciati alla strada regionale che porta a Castions di Strada. Tra questi, ad affascinarmi più di altri è un grande edificio isolato che presiede una tenuta chiamata ancora oggi Vaticano.
Cosa c’entri il cuore della Chiesa cattolica con queste terre di fame e sudore me lo spiega Ampelio, che ha ottantasei anni e in quella casa ci è nato. Lo sorprendo nel suo capannone a pochi metri da lì, mentre è appena sceso dal trattore: «fu proprio Cavarzerani a chiamare così quella tenuta, nel 1919, quando scoprì che la sua estensione di quarantaquattro ettari era uguale a quella della Città del Vaticano. La mia famiglia ci arrivò qualche anno dopo, venivano da Fossalta di Portogruaro…erano piccoli proprietari che si erano indebitati e che furono costretti ad andare mezzadri».
La loro vita da coloni andò avanti molto a lungo, fino agli anni ’70, per poi proseguire nell’agricoltura fino ad oggi: «Io questi campi li conosco alla perfezione, le terre migliori e quelle peggiori, le ho girate e voltate migliaia di volte, noialtri abbiamo sempre lavorato molto».
Prima di risalire sul suo Fiat 60-90, mi mostra il portafogli e appoggiandomi la mano sulla spalla mi dice sogghignando «me lo porto dietro, così se mi trovano morto in qualche campo almeno riescono a riconoscermi». Sorrido anch’io, sento il motore battere i primi colpi e in un attimo il puzzo di gasolio si diffonde nell’aria e mi invade le narici.
L’indomita Elide
Valle Hiershel era una tenuta a ridosso degli argini lagunari e delle foci del fiume Stella che prendeva il suo nome dalla famiglia ebraica di commercianti triestini che ne fu proprietaria fino al 1920.
La famiglia di Elide ci arrivò qualche anno più tardi, nel 1927, per lavorare a mezzadria una parte della vastissima proprietà della Società anonima Beni Rustici. Dodici animali e settanta campi di dura terra argillosa, tutti da lavorare a mano, alcuni ancora da bonificare.
«Mezzadria per modo di dire, quella era schiavitù!», sentenzia lei. E mi racconta che il prodotto non veniva mai diviso a metà ma andava tutto all’ammasso, nessuna divisione paritaria degli utili, a loro era riservato solo lo stretto indispensabile per sopravvivere. Il gastaldo li controllava assiduamente e ogni piccola trasgressione era sanzionata.
Consolazione per i loro stomaci, a due passi c’era la laguna e quindi pesce a volontà. Pescavano quasi tutto con le mani o con qualche guadino di fortuna costruito con un sacco e un bastone: passere, vongole, gamberetti, anguille. Una parte la vendevano per riuscire a comprarsi quel po’ di sale e di olio che occorrevano in casa.
In laguna ci andavano pure per lavarsi, visto che ai padroni «costava troppo» portare l’acqua al loro casale. Per abbeverare le mucche la famiglia di Elide era costretta a prender l’acqua con le tinozze da un pozzo nei paraggi.
Indomita Elide, racconta la sua vita con la fierezza di chi nonostante tutto ce l’ha fatta.
Mentre lei mi parla, sua figlia è intenta a cucinare delle vongole, il profumo che invade la stanza e il crepitio dei gusci che si aprono al calore della pentola – tic tac tic – fanno da sfondo ideale per questa storia.
A scuola Elide ci andava solo nelle giornate di pioggia, quando non c’era modo di lavorare in campagna. Sua madre le infilava addosso un sacco di canapa come impermeabile e lei partiva, con gli zoccoli che si infangavano sempre di più lungo il cammino.
Arrivata la guerra tutti gli uomini partirono al fronte, rimase solo suo nonno.
Poi giunse il momento in cui i tedeschi, temendo uno sbarco anglo-americano in alto Adriatico, prima riempirono le sponde di mitragliatrici, poi svelarono il loro piano difensivo: far saltare gli argini lagunari. Fu questione di poco tempo, uno squarcio nell’argine e l’acqua salmastra si riprese tutta la terra che anche loro avevano contribuito a bonificare. I campi, le vigne, i gelsi. Tutto finì sott’acqua, annichilito dal salso.
La famiglia fuggì, sparpagliandosi per la Bassa friulana nell’attesa e nella speranza, poi avveratasi, di veder tornare gli uomini dal fronte.
Dopo la guerra, di nuovo mezzadri. Questa volta sulla sponda opposta dello Stella. Anche qui tutto era da fare, ma la terra era migliore e i rapporti con i padroni pure. Tutto veniva annotato nel libretto colonico e pure il fattore era un “buon cristiano”.
Elide rimase in famiglia fino al 1951, quando dopo essersi sposata si trasferì a Carlino presso la famiglia di suo marito, anche lui “colono”, ancora per qualche anno, sotto i Conti Zaina.
«Proposi a mio marito di mettermi a pescare con le reti. Ci saremmo svegliati assieme all’alba, lui sarebbe partito per raggiungere le stalle, e io sarei andata a pescare»
Infine, la svolta di cui solo una donna col suo temperamento sarebbe stata capace: «mi proposero di diventare “coltivatore diretto” ma ci volevano troppi campi, e visto che abitavamo vicino al fiume Zellina proposi a mio marito di mettermi a pescare con le reti. Ci saremmo svegliati assieme all’alba, lui sarebbe partito per raggiungere le stalle in cui faceva il mungitore, e io sarei andata a pescare. Mi guardò e si mise a ridere ma poi fu davvero così, diventai l’unica donna con la licenza di pesca professionale in tutto il Friuli! Mio padre, che era andato mezzadro a Ipplis, si procurò un rovere molto grande e mi fece costruire la barca, che poi denunciai alle Finanze…avevo reti di ogni tipo e pescavo cefali, anguille, passere,…».
E così fu, fino alla pensione.
Isoglosse
Per stabilire la geografia delle lingue e dei dialetti, i ricercatori tracciano sulle carte delle linee immaginarie chiamate isoglosse, che delimitano i confini dei singoli fenomeni linguistici. Sono certo che qui, nei dintorni di Lugugnana, lembo orientale della provincia di Venezia e lembo occidentale del Friuli storico, ne passassero parecchie di queste linee, accavallandosi in un groviglio. Poteva capitare infatti che i confini linguistici tra veneto e friulano dividessero i membri di una stessa famiglia.
Di sicuro loro, contadini impermeabili alle smanie definitorie della modernità, non ci facevano molto caso.
Antonietta è nata proprio qui e parla un friulano ormai raro da sentire. È un saliscendi enfatico di volumi alti e bassi, con alternanza di parole che escono di corsa e di altre pronunciate lentamente.
Mi accoglie nel seminterrato in cui assieme al marito passano le serate invernali, lei a stirare e cucire, lui a guardare la tv. Il resto della casa non è abitato se non per mangiare e dormire. Un gatto gli fa compagnia. «Era randagio, un po’ alla volta lo abbiamo avvicinato ed ora eccolo lì, accovacciato sulla poltrona…ci ha preso gusto!» ride Antonietta.
«Quando ero bambina in casa eravamo in trentatré, poi un po’ alla volta i fratelli di mio padre nel corso degli anni se ne sono andati. Eravamo a mezzadria, i proprietari erano i Brunich, gente perbene. Ci concedevano molta libertà e noi non ne abbiamo mai approfittato. Ricordo il fattore inviato dai proprietari, un uomo alto e secco, veniva due volte l’anno e se vedeva qualcosa che non andava si voltava dall’altra parte. La campagna era grande, avevamo settanta campi: mais, frumento, girasoli, barbabietole, erba medica, avena…e poi le bestie e i bachi da seta». Ricorda tutto alla perfezione e se qualcosa le sfugge ci pensa suo marito, aggrappato al bastone, a ricordarglielo.
Emerge quel vivere scandito da stagioni e ritualità, destinato di lì a poco ad essere spazzato via dal boom economico: a Sant’Antonio la mietitura del frumento; a San Pietro la trebbiatura; a San Martino la conclusione dell’annata agraria, scadevano i contratti che legavano i mezzadri ai possidenti e per qualcuno era il momento di andarsene e di cercarsi un nuovo padrone, perché essere mezzadri significava anche vivere esposti al perenne rischio di una sfiducia.
Antonietta non esita a dirmi che non tornerebbe alla vita nei campi, di cui ricorda le ferite alle mani, le levatacce, la casa senza allacciamento alla corrente elettrica. Per lei la mezzadria finì nel 1963, quando, a venticinque anni, emigrò in Svizzera per lavorare come operaia in una fabbrica tessile: «In quegli anni tutti lasciavano la mezzadria, la misero fuori legge e c’era il cosiddetto Piano Verde con cui lo Stato prestava i soldi a chi comprava i campi».
Erano anche gli anni dei metalmezzadri, che dividevano la loro vita tra il lavoro nei campi e quello nelle fabbriche, preludio della fuga definitiva dalle campagne che si sarebbe consumata nei decenni a seguire.
Scorte vive
È grazie a Chiara, una vecchia amica che non sentivo da tanto, che mi procuro un altro incontro. Ricordavo vagamente che la sua era una famiglia di contadini venuti dal Veneto e lei al telefono me ne dà conferma: «mio nonno è molto anziano ma ricorda tutto alla perfezione, sarà felicissimo di raccontarti la sua storia».
Ed eccomi, pochi giorni dopo, davanti al portone di casa del nonno. Mentre aspetto impaziente osservo i campi che circondano l’edificio, sono appena stati arati e mostrano le viscere lucide di una terra compatta e argillosa.
Mi apre la porta Enea, nato novantadue anni fa ad Eraclea, nel litorale veneto, quando ancora il paese portava il vecchio nome di Grisolera. La sua era una famiglia di mezzadri ancora obbligati alle cosiddette “onoranze”, i regali in natura che i coloni erano tenuti a rendere al proprietario in determinate occasioni: «a Pasqua dovevamo portargli centodue uova, dodici capponi e la coscia più bella del maiale».
Era il 1942 quando si trasferirono in Friuli, portando con sé solo pochi attrezzi, il carro e l’aratro.
Lui li raggiunse da solo, poco tempo dopo. Il racconto del suo arrivo è una sequenza di immagini: un ragazzino quindicenne spaesato salito sul treno accelerato con le catene del bestiame in spalla, un capotreno coscienzioso che a un certo punto gli dice «ecco, puoi scendere, siamo a Palazzolo dello Stella», una lunga camminata attraverso la campagna sconosciuta in cui avrebbe poi vissuto per tutta la vita.
«Quando arrivammo qui c’era ancora la malaria e pure io la presi. Durante gli sfalci ricordo che mi saliva la febbre e mia madre, non vedendomi fare ritorno, mi raggiugeva con una coperta per coprirmi la schiena e mi riportava a casa…la febbre durava quattro-cinque ore».
Gli domando se si integrarono subito con la gente del luogo. Sorride, e racconta «appena arrivati noi veneti ci chiamavano talianòts (“italianotti”, nda) ma noi non ci badavamo tanto, si pensava solo a lavorare».
La sua è una storia emblematica, furono infatti tantissimi i veneti che si trasferirono nella Bassa Friulana per lavorare la terra. Spesso a staccarsi e fondare un nuovo nucleo erano pezzi di famiglie coloniche divenute troppo numerose, in cerca di terre bonificate da lavorare e disposti a indicibili sacrifici.
«Qui in Friuli, essendoci molti piccoli proprietari, c’era ancora posto per nuovi mezzadri» ricorda Enea, mostrandomi uno dei tanti libretti mezzadrili che ha conservato. È lì che venivano formalizzati tutti i crediti e i debiti sorti tra le parti, oltre che stabilite le condizioni del singolo contratto, che si rifaceva ad un Patto Generale sottoscritto a livello provinciale.
Una delle prime cose che ci trovo annotata è la composizione della famiglia mezzadrile: nomi-cognomi-date di nascita. Ne conto tredici al loro arrivo nel ’42: marito, moglie e ben undici figli.
Nella pagina successiva, speculare, quasi una continuazione in forma animale della stessa, la “stima delle scorte vive” ossia vacche, vitelli e buoi elencati anch’essi per nome: Ardito, Furba, Volga, Tosca, Nano, Betta.
Squilla il telefono nella stanza accanto, Enea si allontana per rispondere e rimango solo, di fronte a questi libretti vecchi di quasi sessant’anni. Mentre lo sento parlare provo a riflettere su cos’è che accomuna i racconti che ho ascoltato finora. C’è di sicuro la precarietà di un vivere sempre appesi a un contratto a termine, assoggettati a una volontà esterna; ci sono poi continue migrazioni – da un casale a un altro, da un paese a un altro, da una regione a un’altra – alla ricerca di un’opportunità di vita migliore; c’è soprattutto la famiglia, attorno alla quale ruota tutto l’universo mezzadrile. Non c’è biografia che non graviti attorno ad essa, che non chiami in causa madri, padri, fratelli e sorelle. È lo stesso contratto a definire il mezzadro come “capo di un’intera convivenza familiare”.
Precarietà, migrazioni, famiglie. Se immagino un filo rosso tra queste e altre storie, più celebri, anche qui mi trovo davanti agli stessi elementi. Penso ai mezzadri bergamaschi del film L’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi o alla storia della famiglia Joad narrata da John Steinbeck in Furore.
«A Pasqua dovevamo portargli centodue uova, dodici capponi e la coscia più bella del maiale»
Quando Enea ritorna c’è tempo ancora per alcune battute ma presto arriva l’ora di salutarci. Accompagnandomi alla porta mi indica una foto d’epoca alla parete che ritrae una grande trebbiatrice circondata da uomini, donne e bambini. «Quella era la famiglia di mia moglie» mi dice. Gli uomini hanno tutti busti magri e abbronzati, e portano canottiere bianche, sullo sfondo una casa colonica che probabilmente non esiste più. Ci metto un po’ a scorgere un giovane uomo, di lato al resto del gruppo, con il braccio teso del saluto fascista. Glielo faccio notare azzardando una domanda su cosa ricorda del fascismo. «Mio padre era socialista ma in quel periodo dovevamo rigare dritti…da bambino quando trasmettevano i discorsi del Duce c’era l’obbligo di fermarsi e stare in silenzio, finché non finiva di parlare».
Con l’anguria sulla testa
Gli ultimi giorni di agosto, in queste strade di pianura, sono forse il momento più dolente dell’anno. La natura attorno pare consunta, scolorita, sofferente. In attesa di un temporale per scrollarsi gli ultimi frutti di dosso.
Decido di spostare la mia ricerca più ad est, nella Bassa “orientale”. Mi metto in macchina.
Il territorio è un continuum pianeggiante, strade rettilinee interrotte solo dalle rotatorie, campi a destra e a sinistra, fino a incontrare con lo sguardo l’insediamento produttivo dell’ex SNIA di Torviscosa, eredità del sogno agro industriale fascista.
La storia divise in due questo territorio per lungo tempo tra le sponde del fiume Ausa, che fino al 1918 segnò il confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico.
Incontro Carmelo, classe 1939, in una delle poche osterie di Cervignano del Friuli sopravvissute agli arredi in rattan sintetico.
La sua famiglia, originaria del goriziano, si trasferì a Terzo d’Aquileia nel 1940 per lavorare a mezzadria le proprietà dei Brunner, triestini di origini austriache.
Mi racconta con un certo orgoglio la sua lunga militanza nel P.C.I. – «ho fatto politica tutta la vita…comizi…riunioni…da Lignano a Tarvisio le osterie le ho girate tutte» – e della sua partecipazione all’ultima fase delle lotte mezzadrili della Bassa.
Assieme a lui provo a ripercorrere la storia delle lotte contadine in queste zone. Sul tavolo, accanto ai bicchieri, una monografia sull’argomento scritta dallo studioso Renato Jacumin in un’edizione degli anni ’70.
Si parte dagli albori del ‘900, quando nel segno di un cattolicesimo sociale nascevano copiosi nel Friuli austriaco circoli, cooperative e casse rurali. La mezzadria era all’epoca una realtà molto diffusa ed erano proprio i cattolici eletti nel parlamento di Vienna a battersi per ottenere un miglioramento dei patti colonici.
Dopo il conflitto cambiarono molte cose, sotto il Regno d’Italia i preti più impegnati socialmente furono allontanati dalla diocesi perché ritenuti austriacanti, il movimento cattolico si indebolì e si fecero spazio i socialisti, che in quegli anni guadagnarono molti consensi nelle campagne attraverso l’azione della «Federazione Provinciale dei Lavoratori della terra», capitanata da Giovanni Minut, figura leggendaria di agitatore politico di queste terre prima dell’avvento del fascismo.
Minut proveniva proprio da una famiglia di mezzadri, e dopo aver combattuto la Prima Guerra Mondiale con la divisa dell’Impero aderì prima al socialismo e poi divenne comunista, diventando protagonista di dure lotte contro i grandi proprietari terrieri.
Nell’immaginario collettivo rimasero i suoi comizi in lingua friulana, e la sua motocicletta acquistata grazie a una colletta tra tutte le leghe contadine della zona, con la quale sfrecciava nelle strade polverose della Bassa, da un paese all’altro, per organizzare l’attività politica.
Per un attimo mi figuro l’ultimo bovino fatto uscire dalla stalla, il fattore che per l’ultima volta ne chiude a chiave il portone d’ingresso.
Prima di salutarci, Carmelo estrae dalla borsa un libricino fresco di stampa, è una raccolta di sue poesie in friulano. Dal modo in cui lo maneggia sembra quasi, per timidezza, volermelo nascondere. Me ne legge alcune.
Una è dedicata al fratello Nino, catturato dai nazisti in Grecia e morto di tubercolosi nelle miniere di Saarbrucken, un’altra alla «porta sempre aperta» della madre Griselda, che a Pasqua accoglieva il prete a benedire la loro casa anche se la loro era una famiglia di comunisti scomunicati, un’altra ancora alla parabola dei tanti mezzadri venuti dal Veneto dopo aver passato il Piave «cu l’anguria sul cjâf», con l’anguria sulla testa, come dicevano da queste parti ad indicarne la povertà, e «diventati un po’ alla volta friulani».
Rincasando in auto dopo l’ultima intervista, mi sembra di vedere questo paesaggio che conosco da una vita con occhi nuovi, di poter scorgere delle storie dietro ogni cosa: le case edificate negli anni ’60, che coronavano il sogno di tanti friulani usciti dal dopoguerra e dall’emigrazione, i campi di soia, le officine meccaniche, i negozi chiusi per sempre e quelli aperti ma chissà ancora per quanto, i camionisti stranieri fermi nei piazzali di sosta, le villette a schiera, i pioppeti, i distributori, i motoscafi sui carrelli posteggiati in giardino.
Una periferia pianeggiante che porta i segni del passaggio di epoche, economie, tecnologie. Uguale e diversa da molte altre, come altre piena di contraddizioni che non sappiamo o vogliamo vedere.
Gli ultimi casali colonici sono sempre là, li si scorge alzando un po’ lo sguardo verso la campagna, i contorni offuscati dall’umidità che si leva da terra e confonde la vista, vecchi guardiani che sembrano osservare con disincanto, da lontano, la strada statale.