Ad indicare che il caffè è pronto non è il borbottare della moka o della cuccumella, ma il lampeggio di un led: il caffè in capsule ha fatto il suo ingresso anche in una casa del genere. Si tratta di una notevole costruzione seicentesca che guarda il golfo di Napoli dalla collina del Vomero, ed è la prima fondamentale protagonista di questa storia.
Prima ancora che la Nespresso abbia terminato le sue commissioni mi viene portato un bicchiere d’acqua. «Va bene frizzante?», mi chiede Sergio Ragni, svestendo per un attimo la carica autorevole per cui sono venuto a intervistarlo. Lui, di questa storia, è il secondo eminente protagonista.«Ti faccio vedere una cosa», aggiunge poi.
Da una vetrinetta tira fuori una tazza di fine Ottocento in porcellana di Meissen. Sulla superficie il ceramista dell’epoca ha raffigurato un profilo diventato ormai iconico. È quello di Gioachino Rossini; l’ultimo, e al contempo il principale protagonista di questa faccenda.
Villa Belvedere
Se fino alle porte di Villa Belvedere ero accompagnato da forte curiosità, salendo i gradoni in pietra che conducono ai piani alti questa ha fatto spazio a un senso di inadeguatezza. Infine, varcato l’uscio, è prevalsa la meraviglia. Sergio Ragni vive in una casa museo.
Dire che ospita in casa cimeli rossiniani sarebbe riduttivo: entrando nel suo appartamento pare che sia Rossini a dargli un posto dove dormire. «Finirà per buttarmi fuori di casa», commenta spesso.
Sergio mi accoglie con cordiale vivacità, stringendomi la mano, indicandomi un divano dove poter poggiare le mie cose, e iniziando subito a parlare con trasporto della sua collezione. La prima parte dell’intervista la faccio indossando ancora il giubbotto: non ho avuto tempo di liberarmene, e però non voglio perdere una sola parola del collezionista.
Dall’ampia sala d’ingresso lo seguo per il corridoio, su cui affaccia anche la camera da letto. Finiremo nel vasto salone con vista sul mare, ma ci arriveremo poco per volta: per ogni centimetro c’è un pezzo della collezione, quindi un pezzo di storia.
Ogni angolo del suo appartamento è occupato da busti d’epoca del celebrato compositore pesarese; ogni bianca parete è invasa da una sua litografia, da un suo dipinto. Di fotografie di Sergio non ne vedo; ci sono pochissimi elementi a testimonianza che in questa casa ci abiti lui e non Rossini: la Nespresso, dicevo, o un misurato televisore che adopera la sera per guardare il tg. Persino il telefono accanto al letto è semi trasparente, quasi a voler limitare al massimo l’ingerenza contemporanea in una casa il cui vero padrone pare vivere nell’Ottocento.
Lì noto una sedia dove Rossini sedette, qui le statuine caricaturali del compositore, là una scatoletta che contiene i suoi occhiali da presbite, i suoi occhiali da sole, il bocchino per il sigaro, il portamine e addirittura un ciuffo dei suoi capelli. Di ogni cimelio Sergio conosce vita morte e miracoli; sa quando è stato prodotto e in quale occasione, con che materiale e soprattutto da chi: «Li conosco bene, so le vicende di ognuno, questi che vedo alle pareti li considero parenti. Mi affascina molto la storia legata a ogni pezzo di questa casa», mi dice.
Mi spiega ad esempio che la tazza, quella in ceramica di Meissen nella vetrinetta, fu regalata a Rossini da un mercante di vino che si sentì gratificato dal fatto che questo nume disceso sulla terra, fra l’altro grande buongustaio, avesse elogiato i suoi vini.
Mi correggo: per ogni elemento non c’è una sola storia, ma almeno due: quella dell’epoca rossiniana e quella altrettanto fascinosa di come Sergio sia riuscito ad ottenerlo. La scatoletta contenente gli occhiali, il bocchino e i capelli del compositore, per dire, fu battuta all’asta da Sotheby’s. «C’era a Londra una mia corrispondente, una grande antiquaria che mi fece offrire una cifra che riteneva consona a vincere il lotto. E invece fui poi superato», mi racconta, e il ricordo pare angosciarlo ancora. «Io ero disperato, dove l’andavo a trovare più una cosa del genere? Mi misi alla ricerca dell’acquirente. Tanto feci che riuscii a individuarlo e a fare mia la scatoletta».
Approfitto della pausa caffè per spogliarmi del giubbotto. Lui beve all’impiedi, e per tutto il tempo dell’intervista non siederà mai.
«Il mondo dell’opera è un mondo di chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere», mi dice. «I veri appassionati d’opera sono dei pettegoli, e io stesso conosco tutti i retroscena dei vari cantanti». L’atmosfera è rilassata, e allora mi faccio prendere anch’io da una curiosità un po’ impicciona: Ci sono collezionisti rossiniani che hanno un assortimento di cimeli più grande del tuo?, gli domando. Sergio non è tipo da offendersi per queste cose. Pur continuando a definirsi vecchio, ha una giovinezza che esplode costantemente dagli allegri occhi a mandorla e dalla sua ironia partenopea. Sorride giocoso, sfregandosi le mani mi risponde «Me li fumo tutti quanti!».
In un disimpegno, piazzato su un piedistallo, scopro un paio di scarpe della Callas, altro mito di Sergio. «Io con la Callas mi trovo sfasato. Ha riportato un po’ di modernità in un periodo in cui l’opera era invecchiata». Sergio mi spiega che ha avuto pochi e ben definiti idoli in musica, sin da quando, giovanissimo, si accucciava sotto le gambe della madre ascoltandola suonare al pianoforte Liszt e Chopin. Quegli idoli se li porta dietro ancora oggi e, oltre alla Callas, mi dice di essere stato «un fanatico ammiratore di Mina»: la cantante andava spesso a Ischia, dove la famiglia Ragni passava i giorni di villeggiatura. Ci fu un’estate in cui Sergio venne a sapere che, dopo un concerto su quell’isola, Mina ne doveva tenere uno a Capri. «Persi la testa. Presi anch’io lo stesso aliscafo e feci questo viaggio inutile per stare vicino a lei. Che potevo fare?».
Ma sopra tutti i miti che si porta dietro dalla gioventù svetta Rossini, e la sua vita è stata finora una sorta di enorme tributo alla grandezza del compositore, con tutto quel che comporta in termini di praticità.
«Rossini è una presenza ingombrante in questa casa», ironizza. «Io ho dato tutto il mio spazio a lui. La mia cucina è un buco. In una casa così grande, se voglio ospitare qualcheduno devo aprire un divano letto perché non ho spazio per una stanza degli ospiti. Ogni tanto faccio un repulisti per gettare via le mie cose superflue. Ho dovuto allungare la mia libreria in altezza per non occupare più spazio del necessario: ho uno scaletto altissimo!». L’unica stanza “borghese”, come la definisce, è grande meno di dieci metri quadri. All’interno campeggia un guardaroba di legno, un moderno divano letto e delle scaffalature piene di suoi cd – gran parte dei quali di musica classica. Il salone è ormai una sala d’esposizione. Il corridoio una galleria di ritratti. Il mobilio della stanza da letto è stato interamente recuperato dalla villa di Castenaso appartenuta a Isabella Colbran, celeberrima prima donna spagnola e prima moglie di Rossini: Ragni dorme nel letto in cui ella morì.
«Ho avuto la fortuna di abitare in Villa Belvedere da quando avevo quaranta giorni. Prima di vivere qui, ero in un altro appartamento di questo immobile con i miei genitori. Era ancora più grande di questo, ma ad abitarlo eravamo in tanti. C’era una camera da letto per i figli maschi e una per le femmine. Eravamo tre e tre, e io non vedevo l’ora che i miei due fratelli più grandi andassero ad abitare fuori per acquistare un po’ di spazio tutto mio. Quando questo finalmente avvenne, diedi un nuovo assetto alla mia camera trasformandola completamente con i primissimi reperti rossiniani che possedevo. In una casa monumentale come quella, la mia stanza dava già un impatto più da esposizione. Fu il principio della mia collezione su Rossini».
Gioachino Rossini
Rossini non ha mai abitato qui. Eppure il collezionista è convinto che ai suoi tempi ci sia venuto in visita. Se il nome della Villa Belvedere è spesso associato all’incantevole panorama su cui si affaccia, esso si deve in realtà dagli antichi proprietari, la famiglia Carafa di Belvedere. Nell’Ottocento usavano aprire, una volta a settimana, le porte dei giardini per permettere ai visitatori – quelli dei ceti privilegiati, s’intende – di godere della vista sul mare e dei profumi del boschetto. «Era un luogo obbligato per chiunque si trovasse a Napoli, Rossini pure deve esserci passato».
Rossini arrivò nella capitale borbonica che aveva appena 23 anni, mal visto dai grandi maestri napoletani che sopportavano poco le sperimentazioni. Non gradivano la sua musica fracassona, e sapere che gli era stata affidata la direzione musicale dei due regi teatri napoletani, fra cui il maestoso San Carlo, fu un boccone abbastanza indigesto. Napoli allora era una sorta di Hollywood nel suo periodo d’oro, l’opera lo spettacolo per eccellenza, e la scuola musicale napoletana il riferimento europeo, e quindi mondiale.
Eppure l’impresario Barbaja aveva scelto Rossini. E Barbaja non era uno sprovveduto: nato nella bassa milanese aveva lavorato alla Scala per poi capire che per fare i veri soldi nel mondo dell’opera bisognava spostarsi a Napoli. Lì investì tempo ed energie nel cercare i musicisti migliori. Sentì parlare di Rossini: un genio precoce che iniziò a cantare e a dirigere ancora bambino, un forestiero, un provocatore che nello spartito del Signor Bruschino indica ai violinisti di battere a tempo gli archetti sui leggii. Si dice che il direttore del conservatorio di Napoli vietò ai suoi studenti di leggere la sua musica. Barbaja, invece, montò in carrozza ed andò di persona a cercarlo a Firenze – il che all’epoca significava all’estero – per affidargli l’incarico napoletano.
Nonostante la fredda accoglienza, il giovane compositore non si perse d’animo: si preoccupò invece di far arrivare le sue composizioni alle orecchie giuste, portandole anche fuori dai teatri e facendole entrare nei salotti buoni della città. La strategia di autopromozione funzionò, e Rossini perseverò ad attuarla per buona parte della sua carriera, specie durante gli anni di sodalizio con la Colbran: con lei stilò un vero e proprio listino prezzi per gli eventi privati.
Aveva buon occhio per gli affari. Quando arrivò a Napoli fu il primo compositore a chiedere come compenso, oltre a dei fissi, una percentuale sui giochi d’azzardo – all’epoca i maggiori teatri d’opera avevano dei ridotti dedicati a questa funzione. Insomma al di là della musica, Rossini andrebbe apprezzato per le enormi capacità di self-marketing: fosse vivo oggi, potrebbe tenere workshop a tutta la generazione a partita iva di cui faccio parte.
Divenne presto ricco, e in sette anni passò dall’avere nomea di Signor Baccano all’essere un idolo celebrato da tutti, con donne adoranti che volevano un brandello del suo mantello o che urlavano il suo nome. Trattava coi regnanti da pari, prima con quello di Napoli poi con quello di Francia: dopo lunghe trattative arrivò a convincere quest’ultimo ad elargirgli una sorta di pensione a vita in cambio dell’opera Guillaume Tell e di quanto egli aveva fatto per la scena musicale francese.
Tutti lo adoravano e fra i suoi ammiratori v’erano personalità parecchio influenti: nobili, banchieri, e il generale Metternich che, dopo il periodo napoletano, lo volle in tournée in Austria. Le opere di Rossini furono fra le prime ad essere rappresentate nel nuovo continente: Rossini era un segnale di raggiunta civiltà.
Giravano dappertutto le sue litografie, le immagini, le caricature: il pubblico desiderava vedere il viso del gran Rossini e possederne sue rappresentazioni, così i ritrattisti – che spesso l’avevano visto solo in litografie, immagini, caricature – assecondavano la richiesta immaginandoselo. Ancora oggi coesistono, anche nella casa museo di Sergio Ragni, ritratti di Rossini diversissimi l’uno dall’altro: a meno di non aver avuto la possibilità di vederlo dal vivo, bisognava affidarsi all’intuito del disegnatore. Questo fino a che a Parigi non arrivò l’arte della fotografia: se prima dicevo che in casa Ragni non vedo fotografie di Sergio, ce ne sono invece svariate scattate all’ormai anziano Rossini. Infine varie erano le biografie a lui dedicate, fra le quali spicca Vie de Rossini di Stendhal: libro che Ragni ritiene irrinunciabile anche se impregnato di aneddotica romanzata.
Non solo i ritratti, i busti, le biografie affollano le case dei collezionisti, ma anche gli oggetti che ha toccato, indossato, prodotto Rossini sono feticci iconici. I suoi spartiti autografi, le lettere che mandava ai genitori o alle ammiratrici con cui si accordava per gli incontri notturni, i suoi disegni, i versi che metteva in musica – talvolta malinconici, talvolta goliardici – e che spediva agli amici. La quantità di materiale dedicato all’illustre compositore è così elevata che la collezione di Ragni – che pure si limita solo ai cimeli di un certo rilievo – è potenzialmente infinita.
Anche adesso che lo sto intervistando Sergio mi informa di essere in attesa di una miniatura dagli Stati Uniti. «C’è sempre lo stimolo a cercare qualcosa di nuovo», mi dice. «E questa è la mia salvezza, si può dire sia lo scopo che mi tiene in vita».
Sergio Ragni
L’ossessione di Ragni per “il più gran genio musicale del mondo” – come Rossini fu definito da Metternich – iniziò quando era ancora ragazzino. Rossini lo colpì subito per la sua energia fragorosa, proprio quella che inizialmente costò al compositore la diffidenza dei suoi contemporanei.
Inizialmente, avendo budget limitati, Sergio si limitava all’acquisto di libretti di opere e libri su Rossini per potersi aggiornare. Racconta però che un giorno, dall’antiquario Casella di piazza Municipio a Napoli, trovò un documento autografo del compositore. Era una lettera in cui il compositore raccomandava Camille Doucet all’amico banchiere Giuseppe Spada. Si concludeva con “Vostro apasionatissimo, G. Rossini”.
Se adesso è abituato ad entrare in possesso di qualcosa passato per le mani di Rossini, all’epoca non avrebbe mai pensato di poterlo fare. Aveva sedici anni, e non disponeva di parecchi soldi. Convinse allora sua madre a racimolare quelli che occorrevano per potersi accaparrare la lettera: si trattava di 350.000 lire (oggi, mi spiega, il confronto in euro è impossibile. «Devi pensare che adesso una lettera di Rossini costa da un minimo di 1500 euro in su»).
Quella lettera diede il vero avvio alla collezione. Iniziò a cercarne altre, poi altre ancora. Oggi è il curatore dell’edizione critica dell’epistolario rossiniano. Collabora con la Fondazione Gioachino Rossini di Pesaro, che da anni pubblica in ordine cronologico la corrispondenza del compositore trascritta e commentata da Ragni – cinque volumi sono stati già editi. «È un lavoro lunghissimo. Ogni giorno scopriamo nuove lettere che vengono alla luce. Il database del nostro epistolario necessita di continui aggiornamenti».
Ma le lettere sono solo una parte dei cimeli che affollano la sua casa museo. Se inizialmente la fonte primaria per la sua collezione erano mercati e negozi di antiquariato, oggi frequenta soprattutto aste, come quella d’interesse musicale che tiene un paio di volte l’anno la casa Sotheby’s. Ad alcune partecipa tramite incaricati; per altre, quelle dove gli sembra che ci possa essere qualcosa di particolarmente pregevole, decide di andare di persona. «Non ho mai fatto il conto di quanto ho speso per Rossini perché se no starei male», scherza.
Gli chiedo se qualche ospite in casa sua abbia mai rotto un pezzo della sua collezione. Ride, non riuscendo però a nascondere una certa apprensione. Mi dice che per fortuna nessuno ha mai rotto né rubato niente. È come se chiunque entrasse in questa casa, attanagliato dalla sacralità del posto, prestasse automaticamente un estremo riguardo nel non combinare guai.
Si potrebbe supporre che una casa così ferma nel tempo sia frequentata da fantasmi. Ma credo che la questione sia leggermente più sofisticata. Sarà forse la lieve presenza di ponderata modernità, la Nespresso o il telefono discreto accanto al letto, ma i numerosi oggetti d’epoca non mi danno la sensazione di essere posti in un luogo abitato da presenze spettrali venute dal passato, quanto da persone ancora in carne ed ossa – la Colbran, Stendhal, lo stesso Rossini – che accidentalmente, nel momento in cui sono venuto a intervistare Sergio, sono fuori casa per commissioni.
«Nonostante le scomodità dell’abitare in una casa museo, io ho sempre cercato di viverla», mi spiega d’altra parte Sergio. «Io sto bene nella mia casa. Ho bisogno di vedere i miei cimeli, non è solo un fatto visivo ma proprio affettivo».
Dopo tutti questi anni Sergio è genuinamente affascinato da Rossini: parla addensando in poche frasi un’enorme quantità di preziose informazioni che faccio fatica ad appuntarmi.
«La mia vita è legata alla storia di questo posto, con tutti gli addentellati molte volte anche ridicoli», racconta. Mi parla di quando telefonò a una a una tutte le persone residenti a Bitonto che per cognome facevano Devanna, come il proprietario di un manufatto di cui Sergio voleva ardentemente entrare in possesso. Di quando fu fermato dalla polizia doganale italiana mentre tornava da un viaggio a Parigi e rimase col patema d’animo perché temeva controllassero nel bagagliaio: lì aveva piazzato alla buona un pesantissimo busto di marmo appena acquistato. «Ero terrorizzato che questi pensassero a chi sa quale spaccio, ma per fortuna andò tutto liscio».
Mi parla infine di quando, mentre teneva una conferenza a Pesaro durante il Festival Rossini, ha riconosciuto fra il pubblico un professore che possedeva una tabacchiera con l’effige della Colbran. «Dopo un’ora di conferenza questo si alza e se ne va. Mi dico Oddio! Come lo acchiappo più a questo?». Ragni batte le mani con trasporto, sottolineando teatralmente lo struggimento del momento. «Pur essendo l’unico conferenziere non mi peritai di alzarmi e di avvisare il pubblico che dovevo interrompere la conferenza». Al ricordo ha un accesso di un riso gioviale, fanciullesco. «Chiesi al moderatore di intrattenere un poco l’assemblea in mia assenza», continua. «Il pubblico dovette credere che necessitavo del bagno, ma io dovevo rincorrere questo personaggio». Alla fine l’affare si concluse, e ora la tabacchiera è nella vetrinetta accanto alla tazza in porcellana di Meissen.
Prima di salutarlo gli chiedo se gli è mai passato per la testa di abitare altrove.
Risponde: «Io sono dei Gemelli e i Gemelli sono un segno duplice. Questa mia casa mi obbliga a rispettare solo una parte della mia personalità. Forse ormai l’altra l’ho messa a tacere, ma nei vagheggiamenti, nelle fantasticherie che uno fa, mi piacerebbe una casa alternativa. Sono un grande appassionato di piante, una casa con un giardino mi avrebbe affascinato molto. Ma sono anche una persona concreta, a qualcosa bisogna rinunciare e io sono consapevole e felice che le cose siano andate così. E poi, se pure fosse, secondo te in una casa alternativa che faccio, un’immagine di Rossini da qualche parte non ce la metto lo stesso?».
Sergio Ragni è stato il protagonista del cortometraggio Caro Gioachino, diretto da Stefano Gargiulo e presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2018.
Il corto, sceneggiato da Angelo Mozzillo (autore di questo reportage) e la cui principale location è la casa museo di Villa Belvedere, è stato prodotto da Kaos Produzioni per il Teatro San Carlo di Napoli in occasione dei 150 anni dalla morte di Rossini.
Ad indicare che il caffè è pronto non è il borbottare della moka o della cuccumella, ma il lampeggio di un led: il caffè in capsule ha fatto il suo ingresso anche in una casa del genere. Si tratta di una notevole costruzione seicentesca che guarda il golfo di Napoli dalla collina del Vomero, ed è la prima fondamentale protagonista di questa storia.
Prima ancora che la Nespresso abbia terminato le sue commissioni mi viene portato un bicchiere d’acqua. «Va bene frizzante?», mi chiede Sergio Ragni, svestendo per un attimo la carica autorevole per cui sono venuto a intervistarlo. Lui, di questa storia, è il secondo eminente protagonista.«Ti faccio vedere una cosa», aggiunge poi.
Da una vetrinetta tira fuori una tazza di fine Ottocento in porcellana di Meissen. Sulla superficie il ceramista dell’epoca ha raffigurato un profilo diventato ormai iconico. È quello di Gioachino Rossini; l’ultimo, e al contempo il principale protagonista di questa faccenda.
Villa Belvedere
Se fino alle porte di Villa Belvedere ero accompagnato da forte curiosità, salendo i gradoni in pietra che conducono ai piani alti questa ha fatto spazio a un senso di inadeguatezza. Infine, varcato l’uscio, è prevalsa la meraviglia. Sergio Ragni vive in una casa museo.
Dire che ospita in casa cimeli rossiniani sarebbe riduttivo: entrando nel suo appartamento pare che sia Rossini a dargli un posto dove dormire. «Finirà per buttarmi fuori di casa», commenta spesso.
Sergio mi accoglie con cordiale vivacità, stringendomi la mano, indicandomi un divano dove poter poggiare le mie cose, e iniziando subito a parlare con trasporto della sua collezione. La prima parte dell’intervista la faccio indossando ancora il giubbotto: non ho avuto tempo di liberarmene, e però non voglio perdere una sola parola del collezionista.
Dall’ampia sala d’ingresso lo seguo per il corridoio, su cui affaccia anche la camera da letto. Finiremo nel vasto salone con vista sul mare, ma ci arriveremo poco per volta: per ogni centimetro c’è un pezzo della collezione, quindi un pezzo di storia.
Ogni angolo del suo appartamento è occupato da busti d’epoca del celebrato compositore pesarese; ogni bianca parete è invasa da una sua litografia, da un suo dipinto. Di fotografie di Sergio non ne vedo; ci sono pochissimi elementi a testimonianza che in questa casa ci abiti lui e non Rossini: la Nespresso, dicevo, o un misurato televisore che adopera la sera per guardare il tg. Persino il telefono accanto al letto è semi trasparente, quasi a voler limitare al massimo l’ingerenza contemporanea in una casa il cui vero padrone pare vivere nell’Ottocento.
Lì noto una sedia dove Rossini sedette, qui le statuine caricaturali del compositore, là una scatoletta che contiene i suoi occhiali da presbite, i suoi occhiali da sole, il bocchino per il sigaro, il portamine e addirittura un ciuffo dei suoi capelli. Di ogni cimelio Sergio conosce vita morte e miracoli; sa quando è stato prodotto e in quale occasione, con che materiale e soprattutto da chi: «Li conosco bene, so le vicende di ognuno, questi che vedo alle pareti li considero parenti. Mi affascina molto la storia legata a ogni pezzo di questa casa», mi dice.
Mi spiega ad esempio che la tazza, quella in ceramica di Meissen nella vetrinetta, fu regalata a Rossini da un mercante di vino che si sentì gratificato dal fatto che questo nume disceso sulla terra, fra l’altro grande buongustaio, avesse elogiato i suoi vini.
«Io ho dato tutto il mio spazio a lui. La mia cucina è un buco. Se voglio ospitare qualcheduno devo aprire un divano letto perché non ho spazio per una stanza degli ospiti»
Mi correggo: per ogni elemento non c’è una sola storia, ma almeno due: quella dell’epoca rossiniana e quella altrettanto fascinosa di come Sergio sia riuscito ad ottenerlo. La scatoletta contenente gli occhiali, il bocchino e i capelli del compositore, per dire, fu battuta all’asta da Sotheby’s. «C’era a Londra una mia corrispondente, una grande antiquaria che mi fece offrire una cifra che riteneva consona a vincere il lotto. E invece fui poi superato», mi racconta, e il ricordo pare angosciarlo ancora. «Io ero disperato, dove l’andavo a trovare più una cosa del genere? Mi misi alla ricerca dell’acquirente. Tanto feci che riuscii a individuarlo e a fare mia la scatoletta».
Approfitto della pausa caffè per spogliarmi del giubbotto. Lui beve all’impiedi, e per tutto il tempo dell’intervista non siederà mai.
«Il mondo dell’opera è un mondo di chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere», mi dice. «I veri appassionati d’opera sono dei pettegoli, e io stesso conosco tutti i retroscena dei vari cantanti». L’atmosfera è rilassata, e allora mi faccio prendere anch’io da una curiosità un po’ impicciona: Ci sono collezionisti rossiniani che hanno un assortimento di cimeli più grande del tuo?, gli domando. Sergio non è tipo da offendersi per queste cose. Pur continuando a definirsi vecchio, ha una giovinezza che esplode costantemente dagli allegri occhi a mandorla e dalla sua ironia partenopea. Sorride giocoso, sfregandosi le mani mi risponde «Me li fumo tutti quanti!».
In un disimpegno, piazzato su un piedistallo, scopro un paio di scarpe della Callas, altro mito di Sergio. «Io con la Callas mi trovo sfasato. Ha riportato un po’ di modernità in un periodo in cui l’opera era invecchiata». Sergio mi spiega che ha avuto pochi e ben definiti idoli in musica, sin da quando, giovanissimo, si accucciava sotto le gambe della madre ascoltandola suonare al pianoforte Liszt e Chopin. Quegli idoli se li porta dietro ancora oggi e, oltre alla Callas, mi dice di essere stato «un fanatico ammiratore di Mina»: la cantante andava spesso a Ischia, dove la famiglia Ragni passava i giorni di villeggiatura. Ci fu un’estate in cui Sergio venne a sapere che, dopo un concerto su quell’isola, Mina ne doveva tenere uno a Capri. «Persi la testa. Presi anch’io lo stesso aliscafo e feci questo viaggio inutile per stare vicino a lei. Che potevo fare?».
Ma sopra tutti i miti che si porta dietro dalla gioventù svetta Rossini, e la sua vita è stata finora una sorta di enorme tributo alla grandezza del compositore, con tutto quel che comporta in termini di praticità.
«Rossini è una presenza ingombrante in questa casa», ironizza. «Io ho dato tutto il mio spazio a lui. La mia cucina è un buco. In una casa così grande, se voglio ospitare qualcheduno devo aprire un divano letto perché non ho spazio per una stanza degli ospiti. Ogni tanto faccio un repulisti per gettare via le mie cose superflue. Ho dovuto allungare la mia libreria in altezza per non occupare più spazio del necessario: ho uno scaletto altissimo!». L’unica stanza “borghese”, come la definisce, è grande meno di dieci metri quadri. All’interno campeggia un guardaroba di legno, un moderno divano letto e delle scaffalature piene di suoi cd – gran parte dei quali di musica classica. Il salone è ormai una sala d’esposizione. Il corridoio una galleria di ritratti. Il mobilio della stanza da letto è stato interamente recuperato dalla villa di Castenaso appartenuta a Isabella Colbran, celeberrima prima donna spagnola e prima moglie di Rossini: Ragni dorme nel letto in cui ella morì.
«Ho avuto la fortuna di abitare in Villa Belvedere da quando avevo quaranta giorni. Prima di vivere qui, ero in un altro appartamento di questo immobile con i miei genitori. Era ancora più grande di questo, ma ad abitarlo eravamo in tanti. C’era una camera da letto per i figli maschi e una per le femmine. Eravamo tre e tre, e io non vedevo l’ora che i miei due fratelli più grandi andassero ad abitare fuori per acquistare un po’ di spazio tutto mio. Quando questo finalmente avvenne, diedi un nuovo assetto alla mia camera trasformandola completamente con i primissimi reperti rossiniani che possedevo. In una casa monumentale come quella, la mia stanza dava già un impatto più da esposizione. Fu il principio della mia collezione su Rossini».
Gioachino Rossini
Rossini non ha mai abitato qui. Eppure il collezionista è convinto che ai suoi tempi ci sia venuto in visita. Se il nome della Villa Belvedere è spesso associato all’incantevole panorama su cui si affaccia, esso si deve in realtà dagli antichi proprietari, la famiglia Carafa di Belvedere. Nell’Ottocento usavano aprire, una volta a settimana, le porte dei giardini per permettere ai visitatori – quelli dei ceti privilegiati, s’intende – di godere della vista sul mare e dei profumi del boschetto. «Era un luogo obbligato per chiunque si trovasse a Napoli, Rossini pure deve esserci passato».
Rossini arrivò nella capitale borbonica che aveva appena 23 anni, mal visto dai grandi maestri napoletani che sopportavano poco le sperimentazioni. Non gradivano la sua musica fracassona, e sapere che gli era stata affidata la direzione musicale dei due regi teatri napoletani, fra cui il maestoso San Carlo, fu un boccone abbastanza indigesto. Napoli allora era una sorta di Hollywood nel suo periodo d’oro, l’opera lo spettacolo per eccellenza, e la scuola musicale napoletana il riferimento europeo, e quindi mondiale.
Al di là della musica, Rossini andrebbe apprezzato per le enormi capacità di self-marketing: fosse vivo oggi, potrebbe tenere workshop a tutta la generazione a partita iva
Eppure l’impresario Barbaja aveva scelto Rossini. E Barbaja non era uno sprovveduto: nato nella bassa milanese aveva lavorato alla Scala per poi capire che per fare i veri soldi nel mondo dell’opera bisognava spostarsi a Napoli. Lì investì tempo ed energie nel cercare i musicisti migliori. Sentì parlare di Rossini: un genio precoce che iniziò a cantare e a dirigere ancora bambino, un forestiero, un provocatore che nello spartito del Signor Bruschino indica ai violinisti di battere a tempo gli archetti sui leggii. Si dice che il direttore del conservatorio di Napoli vietò ai suoi studenti di leggere la sua musica. Barbaja, invece, montò in carrozza ed andò di persona a cercarlo a Firenze – il che all’epoca significava all’estero – per affidargli l’incarico napoletano.
Nonostante la fredda accoglienza, il giovane compositore non si perse d’animo: si preoccupò invece di far arrivare le sue composizioni alle orecchie giuste, portandole anche fuori dai teatri e facendole entrare nei salotti buoni della città. La strategia di autopromozione funzionò, e Rossini perseverò ad attuarla per buona parte della sua carriera, specie durante gli anni di sodalizio con la Colbran: con lei stilò un vero e proprio listino prezzi per gli eventi privati.
Aveva buon occhio per gli affari. Quando arrivò a Napoli fu il primo compositore a chiedere come compenso, oltre a dei fissi, una percentuale sui giochi d’azzardo – all’epoca i maggiori teatri d’opera avevano dei ridotti dedicati a questa funzione. Insomma al di là della musica, Rossini andrebbe apprezzato per le enormi capacità di self-marketing: fosse vivo oggi, potrebbe tenere workshop a tutta la generazione a partita iva di cui faccio parte.
Divenne presto ricco, e in sette anni passò dall’avere nomea di Signor Baccano all’essere un idolo celebrato da tutti, con donne adoranti che volevano un brandello del suo mantello o che urlavano il suo nome. Trattava coi regnanti da pari, prima con quello di Napoli poi con quello di Francia: dopo lunghe trattative arrivò a convincere quest’ultimo ad elargirgli una sorta di pensione a vita in cambio dell’opera Guillaume Tell e di quanto egli aveva fatto per la scena musicale francese.
L’ossessione di Ragni per “il più gran genio musicale del mondo” iniziò quando era ancora ragazzino.
Tutti lo adoravano e fra i suoi ammiratori v’erano personalità parecchio influenti: nobili, banchieri, e il generale Metternich che, dopo il periodo napoletano, lo volle in tournée in Austria. Le opere di Rossini furono fra le prime ad essere rappresentate nel nuovo continente: Rossini era un segnale di raggiunta civiltà.
Giravano dappertutto le sue litografie, le immagini, le caricature: il pubblico desiderava vedere il viso del gran Rossini e possederne sue rappresentazioni, così i ritrattisti – che spesso l’avevano visto solo in litografie, immagini, caricature – assecondavano la richiesta immaginandoselo. Ancora oggi coesistono, anche nella casa museo di Sergio Ragni, ritratti di Rossini diversissimi l’uno dall’altro: a meno di non aver avuto la possibilità di vederlo dal vivo, bisognava affidarsi all’intuito del disegnatore. Questo fino a che a Parigi non arrivò l’arte della fotografia: se prima dicevo che in casa Ragni non vedo fotografie di Sergio, ce ne sono invece svariate scattate all’ormai anziano Rossini. Infine varie erano le biografie a lui dedicate, fra le quali spicca Vie de Rossini di Stendhal: libro che Ragni ritiene irrinunciabile anche se impregnato di aneddotica romanzata.
Non solo i ritratti, i busti, le biografie affollano le case dei collezionisti, ma anche gli oggetti che ha toccato, indossato, prodotto Rossini sono feticci iconici. I suoi spartiti autografi, le lettere che mandava ai genitori o alle ammiratrici con cui si accordava per gli incontri notturni, i suoi disegni, i versi che metteva in musica – talvolta malinconici, talvolta goliardici – e che spediva agli amici. La quantità di materiale dedicato all’illustre compositore è così elevata che la collezione di Ragni – che pure si limita solo ai cimeli di un certo rilievo – è potenzialmente infinita.
Anche adesso che lo sto intervistando Sergio mi informa di essere in attesa di una miniatura dagli Stati Uniti. «C’è sempre lo stimolo a cercare qualcosa di nuovo», mi dice. «E questa è la mia salvezza, si può dire sia lo scopo che mi tiene in vita».
Sergio Ragni
L’ossessione di Ragni per “il più gran genio musicale del mondo” – come Rossini fu definito da Metternich – iniziò quando era ancora ragazzino. Rossini lo colpì subito per la sua energia fragorosa, proprio quella che inizialmente costò al compositore la diffidenza dei suoi contemporanei.
Inizialmente, avendo budget limitati, Sergio si limitava all’acquisto di libretti di opere e libri su Rossini per potersi aggiornare. Racconta però che un giorno, dall’antiquario Casella di piazza Municipio a Napoli, trovò un documento autografo del compositore. Era una lettera in cui il compositore raccomandava Camille Doucet all’amico banchiere Giuseppe Spada. Si concludeva con “Vostro apasionatissimo, G. Rossini”.
Se adesso è abituato ad entrare in possesso di qualcosa passato per le mani di Rossini, all’epoca non avrebbe mai pensato di poterlo fare. Aveva sedici anni, e non disponeva di parecchi soldi. Convinse allora sua madre a racimolare quelli che occorrevano per potersi accaparrare la lettera: si trattava di 350.000 lire (oggi, mi spiega, il confronto in euro è impossibile. «Devi pensare che adesso una lettera di Rossini costa da un minimo di 1500 euro in su»).
Quella lettera diede il vero avvio alla collezione. Iniziò a cercarne altre, poi altre ancora. Oggi è il curatore dell’edizione critica dell’epistolario rossiniano. Collabora con la Fondazione Gioachino Rossini di Pesaro, che da anni pubblica in ordine cronologico la corrispondenza del compositore trascritta e commentata da Ragni – cinque volumi sono stati già editi. «È un lavoro lunghissimo. Ogni giorno scopriamo nuove lettere che vengono alla luce. Il database del nostro epistolario necessita di continui aggiornamenti».
Ma le lettere sono solo una parte dei cimeli che affollano la sua casa museo. Se inizialmente la fonte primaria per la sua collezione erano mercati e negozi di antiquariato, oggi frequenta soprattutto aste, come quella d’interesse musicale che tiene un paio di volte l’anno la casa Sotheby’s. Ad alcune partecipa tramite incaricati; per altre, quelle dove gli sembra che ci possa essere qualcosa di particolarmente pregevole, decide di andare di persona. «Non ho mai fatto il conto di quanto ho speso per Rossini perché se no starei male», scherza.
Gli chiedo se qualche ospite in casa sua abbia mai rotto un pezzo della sua collezione. Ride, non riuscendo però a nascondere una certa apprensione. Mi dice che per fortuna nessuno ha mai rotto né rubato niente. È come se chiunque entrasse in questa casa, attanagliato dalla sacralità del posto, prestasse automaticamente un estremo riguardo nel non combinare guai.
Si potrebbe supporre che una casa così ferma nel tempo sia frequentata da fantasmi. Ma credo che la questione sia leggermente più sofisticata. Sarà forse la lieve presenza di ponderata modernità, la Nespresso o il telefono discreto accanto al letto, ma i numerosi oggetti d’epoca non mi danno la sensazione di essere posti in un luogo abitato da presenze spettrali venute dal passato, quanto da persone ancora in carne ed ossa – la Colbran, Stendhal, lo stesso Rossini – che accidentalmente, nel momento in cui sono venuto a intervistare Sergio, sono fuori casa per commissioni.
«Nonostante le scomodità dell’abitare in una casa museo, io ho sempre cercato di viverla», mi spiega d’altra parte Sergio. «Io sto bene nella mia casa. Ho bisogno di vedere i miei cimeli, non è solo un fatto visivo ma proprio affettivo».
«Io sono dei Gemelli e i Gemelli sono un segno duplice»
Dopo tutti questi anni Sergio è genuinamente affascinato da Rossini: parla addensando in poche frasi un’enorme quantità di preziose informazioni che faccio fatica ad appuntarmi.
«La mia vita è legata alla storia di questo posto, con tutti gli addentellati molte volte anche ridicoli», racconta. Mi parla di quando telefonò a una a una tutte le persone residenti a Bitonto che per cognome facevano Devanna, come il proprietario di un manufatto di cui Sergio voleva ardentemente entrare in possesso. Di quando fu fermato dalla polizia doganale italiana mentre tornava da un viaggio a Parigi e rimase col patema d’animo perché temeva controllassero nel bagagliaio: lì aveva piazzato alla buona un pesantissimo busto di marmo appena acquistato. «Ero terrorizzato che questi pensassero a chi sa quale spaccio, ma per fortuna andò tutto liscio».
Mi parla infine di quando, mentre teneva una conferenza a Pesaro durante il Festival Rossini, ha riconosciuto fra il pubblico un professore che possedeva una tabacchiera con l’effige della Colbran. «Dopo un’ora di conferenza questo si alza e se ne va. Mi dico Oddio! Come lo acchiappo più a questo?». Ragni batte le mani con trasporto, sottolineando teatralmente lo struggimento del momento. «Pur essendo l’unico conferenziere non mi peritai di alzarmi e di avvisare il pubblico che dovevo interrompere la conferenza». Al ricordo ha un accesso di un riso gioviale, fanciullesco. «Chiesi al moderatore di intrattenere un poco l’assemblea in mia assenza», continua. «Il pubblico dovette credere che necessitavo del bagno, ma io dovevo rincorrere questo personaggio». Alla fine l’affare si concluse, e ora la tabacchiera è nella vetrinetta accanto alla tazza in porcellana di Meissen.
Prima di salutarlo gli chiedo se gli è mai passato per la testa di abitare altrove.
Risponde: «Io sono dei Gemelli e i Gemelli sono un segno duplice. Questa mia casa mi obbliga a rispettare solo una parte della mia personalità. Forse ormai l’altra l’ho messa a tacere, ma nei vagheggiamenti, nelle fantasticherie che uno fa, mi piacerebbe una casa alternativa. Sono un grande appassionato di piante, una casa con un giardino mi avrebbe affascinato molto. Ma sono anche una persona concreta, a qualcosa bisogna rinunciare e io sono consapevole e felice che le cose siano andate così. E poi, se pure fosse, secondo te in una casa alternativa che faccio, un’immagine di Rossini da qualche parte non ce la metto lo stesso?».
Sergio Ragni è stato il protagonista del cortometraggio Caro Gioachino, diretto da Stefano Gargiulo e presentato alle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia 2018.
Il corto, sceneggiato da Angelo Mozzillo (autore di questo reportage) e la cui principale location è la casa museo di Villa Belvedere, è stato prodotto da Kaos Produzioni per il Teatro San Carlo di Napoli in occasione dei 150 anni dalla morte di Rossini.