Se arrivi alla stazione di Bologna e chiedi dov’è il Cassero saranno poche le persone a non saperti dare le indicazioni per raggiungerlo. Tutte o quasi sanno cos’è e dove si trova. A me giuro lo spiega una vecchina con le buste della spesa. Forse ci va il figlio, forse ci va lei a ballare, chissà. Il Cassero è lo spazio storico del movimento gay bolognese, sede nazionale dellArcigay, nonché celebre discoteca della città. Per entrarci bisogna superare un ponticello che lo collega alla strada, come un fortino. Al suo interno è ospitata anche l’associazione Lesbiche Bologna, che l’anno scorso contava circa duecento socie, solo donne, non tutte lesbiche.
«Scusa se c’è poco spazio».
In una piccola stanza piena di libri, faldoni e scatoloni incontro le attiviste. Sono tutte, ciascuna a modo suo, femministe in quanto donne e in quanto lesbiche. Questa doppia definizione verrà rimarcata più volte ed è significativa per capire la loro visione della società. Parleremo anche di patriarcato, ovviamente. Un termine che fa storcere il naso a molte persone, ma che è alla base del loro pensiero e del loro vivere quotidiano. Ma soprattutto parleremo di violenza nelle relazioni, di come loro abbiano deciso di riflettere sul problema e di come affrontarlo e gestirlo.
«Noi partiamo dalla pratica. Poi chiaramente si crea tutta una sovrastruttura teorica con cui devi confrontarti, ma il nostro lavoro è nato da problemi pratici, quotidiani, cioè il fatto di sostenere le donne che hanno bisogno d’aiuto» mi spiega Anita, una delle operatrici della Linea lesbica antiviolenza. È una linea telefonica gratuita e totalmente anonima, nata per intercettare un fenomeno che tutte le lesbiche conoscevano nella loro esperienza quotidiana ma di cui si preferiva non parlare in pubblico: la violenza all’interno della coppia e più in generale nelle relazioni affettive, ad esempio in famiglia.
«Ci lavoriamo da anni, eppure è ancora oggi un tema complicato da tirare fuori. Un tema tabù» mi spiega Carla, attivista bolognese con una lunga esperienza di lotta per i diritti per le persone omosessuali. «È la parte oscura dell’identità lesbica e si preferisce parlarne poco. Noi abbiamo sempre lavorato per la visibilità con lo scopo di trasmettere all’esterno un’idea positiva dell’essere lesbiche, bisessuali o trans, ma sappiamo che nelle nostre vite quotidiane non è tutto sempre così lucido».
Una parte del movimento lesbico e femminista pensa che quello della violenza tra donne è un argomento che, se proprio non si può evitare, è meglio almeno mettere in secondo piano. La paura è che in una realtà come quella italiana, priva di reali riconoscimenti di diritti per le persone omosessuali, far emergere gli aspetti negativi del movimento possa allontanare la conquista di questi diritti. Sono in molte a pensare che l’argomento non sia così importante o che non sia ancora il momento giusto per parlarne.
Come raccontava qualche anno fa Giovanna Camertoni del Centro Antiviolenza di Trento, in un convegno dedicato al tema:
«Nessuna di noi pensava che all’interno delle nostre relazioni intime si sarebbero potute verificare delle situazioni di violenza. A dire la verità, quasi nessuna di noi stava o era stata in una relazione di intimità con un’altra donna. Eravamo quasi tutte lesbiche che si incontravano per la prima volta e che provavano a non vergognarsi per ciò che erano. [ ] Dopo un po’ di tempo ho capito che le dinamiche del potere e del controllo potevano esistere anche nelle relazioni lesbiche».
Da Trento a Roma, passando per convegni e ricerche sul tema, la questione faticosamente viene fuori, e ritorniamo a Bologna e alla Linea lesbica antiviolenza, una delle prime d’Italia. Che sia proprio Bologna non è sicuramente un caso. È storicamente una città LGBTI friendly, ha una lunga storia di lotte per i diritti e anche uno dei primi centri antiviolenza aperti in Italia.
«Molte ragazze lesbiche vengono a vivere qua perché sanno che c’è un’attenzione maggiore ai diritti civili» mi racconta Anita. «Qui vedi normalmente girare in strada coppie dello stesso sesso e ti posso confermare che quando giro con la mia ragazza io mi sento tranquillissima, mentre in un’altra città meno. Questo anche perché è una città universitaria, con un forte ricambio di persone diverse. Qua spesso si dice che i bolognesi non esistono e, in effetti, ci sono tantissime persone che vengono da altre regioni e da altri paesi, dunque è un contesto dove è più facile dare maggiore spazio alle differenze, non chiudersi nella paura».
Anche lei, come credo tutte le persone presenti durante la conversazione, non è bolognese: dopo gli studi ha scelto questa città anche per questo motivo, per la sua apertura.
Tutte, mi spiegano, conoscono amiche che hanno subito violenza o che l’hanno esercitata. Molte donne non sanno però a chi chiedere aiuto, soprattutto le lesbiche, che vivono quella doppia discriminazione (in quanto donne e in quanto lesbiche) che rende tutto più complesso. I centri antiviolenza esistono in tutta Italia, ma spesso non hanno l’esperienza o la formazione per casi così specifici che riguardano donne lesbiche, bisex o trans.
Le operatrici della Linea lesbica antiviolenza rispondono da qui, da questo stanzino del Cassero, dove svolgono buona parte delle loro attività. Le operatrici di solito sono due: aspettano che il telefono squilli e, quando capita, una delle due risponde.
«Ci presentiamo, chiediamo l’età e il nome di battesimo, ma ovviamente la persona può dare un nome di fantasia» spiega Barbara, un’altra operatrice. Ha un tono calmo ma deciso, immagino lo stesso che usa quando risponde alle telefonate. «Le chiediamo se in quel momento può parlare, se è in un luogo sicuro. E le chiediamo di spiegarci cosa c’è che non va. A volte si sentono in colpa anche solo per aver chiamato».
Mentre mi raccontano il tipo di casi che trattano, chiudono la porta della stanza, come se qualcuno potesse ascoltare. Mi ripetono varie volte la parola riservatezza. I casi che affrontano rappresentano tutte le possibili sfumature della violenza. Si va dalla ragazza che confessa ai parenti di essere lesbica e viene picchiata da tutta la famiglia, fino a donne che si accorgono di essere sotto il totale controllo della partner, alla quale devono chiedere il permesso di uscire per vedersi con un’amica o che devono scusarsi se tornano tardi a casa.
Non semplici litigi, non gelosia nel senso più innocuo del termine, ma abusi, manipolazioni, violenza psicologica, stalking, fino alla violenza fisica e a quella sessuale. Spesso il problema, per le persone, è capire qual è il confine in tutte le relazioni piuttosto labile tra il semplice conflitto e la vera e propria violenza, il controllo, il dominio, la sopraffazione. Le operatrici della linea distinguono in modo molto netto questo confine, ma il loro obiettivo è farlo capire alla donna che chiama, e arrivarci con lei.
«In tutte le relazioni capita di litigare» dice Barbara. «Ma è violenza quando c’è la paura. Molto spesso si tratta di donne che hanno subito violenza senza rendersi conto, al momento, che fosse violenza. Noi come prima cosa le ascoltiamo e le sosteniamo, ma cerchiamo anche di usare le parole giuste, ampliare la visione che loro per prime hanno dato a certi episodi della loro vita di coppia, contestualizzarli».
Il punto fondamentale è l’asimmetria nel rapporto. «Il conflitto, le discussioni, i litigi: sono tutte cose normali nei rapporti di coppia» spiega Anita. «In una relazione normale ci sono compromessi: una volta ha ragione una, una volta l’altra, e così via. Ma nei casi che trattiamo non è così. Di solito c’è una delle due partner che sistematicamente controlla, domina, insulta, sminuisce e zittisce l’altra partner. Sistematicamente, per molto tempo. In questo caso si parla di violenza psicologica, che può sembrare meno grave di uno schiaffo, ma non è così».
«Uno schiaffo è uno schiaffo» continua Barbara. «Fa male ed è una violenza facile da riconoscere. Ma spesso nelle relazioni affettive si verificano altre forme di violenze più subdole e difficili da riconoscere. Mesi di pressione, controllo e di logorante pressione psicologica sono devastanti quanto uno schiaffo, forse di più».
Se tutto questo è già abbastanza complicato nelle relazioni etero, lo è ancora di più in quelle tra persone dello stesso sesso, in questo caso donne. Per vari motivi. Ad esempio può risultare difficoltoso per gli operatori giuridici riconoscere come violenza domestica la violenza fra donne che convivono e hanno una relazione stabile, ma che la legge non riconosce come coppia e tantomeno come famiglia. Ma influisce anche la paura e la vergogna della persona maltrattata di non essere creduta a causa dell’idea per cui la violenza è possibile solo tra uomini e donne, dato che la violenza è considerata maschile.
Inoltre molte donne hanno paura di mettere in crisi la propria identità lesbica lasciando la partner. La coppia è spesso l’unico spazio in cui si sentono bene, in cui si sentono se stesse. Ma questo spazio può diventare soffocante, generare dipendenza e controllo. Capita anche che l’accusa sia quella di non essere abbastanza lesbica o di non esserlo nel modo giusto.
«Ci sono capitati casi di attiviste femministe che subivano violenza all’interno della coppia» spiega Anita. «Una magari pensa di essere vaccinata, di avere l’antidoto, ma non è così: anche le attiviste subiscono violenza. Ma c’è un forte tabù nel parlarne, soprattutto da parte di chi fa parte della comunità. Vergogna di sicuro, ma anche paura di screditare il movimento».
«Così come può succedere che nella coppia c’è una delle due che ha fatto coming out e l’altra no» racconta Carla, «e allora può dire: se tu mi lasci io ti rovino, dico a tutti che sei lesbica e per te può essere un problema al lavoro, in famiglia. Questo può essere un ricatto sia nella relazione… ma anche in un gruppo politico».
«Si fa molta fatica a denunciare una violenza subita in un contesto di attivismo perché non vuoi rovinarne la reputazione» spiega Anita. «Ma questo accade in tutte le cerchie sociali. All’interno di una cerchia si fa fatica a denunciare, prima di tutto perché ti senti in colpa quando subisci violenza, ci si sente quasi complici in quello che accade, quindi sembra quasi una punizione eccessiva denunciarla, diffamarla… E poi c’è l’idea che dobbiamo difenderci dal mondo esterno, non da quello interno» aggiunge indicando un punto generico.
Questo è uno dei motivi per cui alcune lesbiche femministe non vedono di buon occhio l’idea di gettare una luce su un fenomeno normalmente tenuto all’ombra. In sostanza, per motivi politici, ideologici, e di immagine pubblica.
«Molte lesbiche contestano il nostro lavoro perché dicono: il problema non sono le lesbiche, sono i maschi» continua Anita. «Hanno paura che noi finiamo per parificare e appiattire la gravità della violenza maschile sulle donne perché, in sostanza, il nostro discorso è che anche le lesbiche agiscono violenza. Ma affrontare la violenza nelle relazioni lesbiche non vuole in nessun modo erodere il problema della violenza maschile sulle donne, ampiamente più diffuso. Ed è schifoso utilizzare questa argomentazione per appiattire tutto il discorso sulla violenza».
Come ammette Carla, fino a qualche anno fa anche lei avrebbe preferito evitare l’argomento: «Per un certo periodo pensavo che non si dovessero tirare fuori queste questioni, ti parlo degli anni Novanta, degli anni Duemila. All’epoca era giusto lavorare per venir fuori, per rafforzarsi, per essere felici di essere lesbiche e per far capire agli altri fuori che eravamo lesbiche e che stavamo bene e che non volevamo che nessuno ci impedisse questa libertà. Quindi è ovvio che in quel periodo parlare della violenza nelle relazioni non aveva senso, era più importante sconfiggere la violenza maschile. Ma un conto è non voler affrontare la questione, rimuoverla. Un conto è cercare di ragionare su quello che si vedeva e sul fatto che obiettivamente anche tra donne la violenza esiste. E di capire perché, da dove viene, e cosa fare».
«Se in una coppia lesbica c’è della violenza molte dicono che sono solo due lesbiche che litigano, perché il problema è solo l’uomo, la violenza è solo quella maschile» aggiunge Anita.
E dunque ecco la domanda: la violenza è maschile? Se tra due donne si instaura un rapporto di violenza e controllo la spiegazione è che hanno interiorizzato il modello maschile? Secondo molte attiviste sì: il modello patriarcale è tanto invadente da essere assunto anche da coloro che vivono relazioni omosessuali.
«Le radici possono essere le stesse» spiega Carla, «ma è ovvio che per una lesbica c’è tutta una questione dell’essere lesbica, da come vive la propria identità, all’accettazione di sé, all’accettazione sociale, alla relazione con l’altra collegata anche a come nella coppia si vive il fatto di accettarsi come lesbica socialmente. Insomma ci sono tante questioni che sicuramente non riguardano le relazione eterosessuali tra uomini e donne».
L’errore più frequente e immediato è mettere sullo stesso piano i fenomeni di violenza all’interno delle relazioni eterosessuali e quelli all’interno di relazioni omosessuali, cioè pensare che siano la stessa cosa, che la violenza sia ovunque e ovunque si manifesti allo stesso modo. Un’equazione semplice e scontata. Ma è corretta? La risposta di Carla è netta: «Assolutamente no» mi secca con un tono che non ammette repliche. «Non sono la stessa cosa. Questo è ridurre, banalizzare, ignorare che la nostra società è impostata in un certo modo, che è basata sul predominio maschile sulle donne a tutti i livelli. Diamo i nomi alle cose: il patriarcato».
Sapevo che prima o poi questa parola sarebbe venuta fuori. Chiedo ad Anita di darmi la sua definizione di patriarcato immaginando di doverla spiegare a chi non ne ha mai sentito parlare. Sorride, mi dice «sì, ci provo».
Sorride perché sono concetti su cui ha riflettuto a lungo e che fanno parte della sua esperienza quotidiana, ma sa che non è così per tutti. Ad esempio non è così per me.
Un punto che non va sottovalutato è proprio questo: per quanto ci si possa sentire distanti dalle posizioni delle lesbiche femministe, non si può negare che ogni singola questione loro l’hanno prima vissuta, poi analizzata, studiata, discussa. Questo perché nella loro vita personale, perfino nella loro vita intima, il piano individuale e quello sociale sono continuamente sovrapposti.
Per dirla semplicemente: un cittadino eterosessuale, a meno che non se ne occupi per lavoro o per studio, può fare a meno di riflettere su certi temi, cioè su quanto la sua vita relazionale, intima, affettiva sia influenzata dalla società. Per una lesbica questa riflessione obbligata o auto-formazione continua come la chiamano è quasi quotidiana.
Da qui anche l’uso di un linguaggio complesso, e alle mie orecchie poco allenate quasi indecifrabile, che utilizza termini provenienti da ambienti accademici, soprattutto dalla sociologia, ma anche dalla psicologia e dagli studi culturali. Un linguaggio che può allontanare o spiazzare chi normalmente non si interessa a certi temi. Qualche esempio? Etero-normato, etero-normativo, omo-normatività, binarietà, soggettività, complementarietà, subordinazione tra i generi, omolesbotransfobia, lesbofobia interiorizzata, eterosessualità obbligatoria interiorizzata, intersessualità, empowerment, monogamia inerziale… e patriarcato, appunto.
«Dunque» riprende Anita, «cos’è il patriarcato. Si tratta di una struttura della società in cui esistono delle forti gerarchie che prevedono che esista una categoria predominante che possiamo identificare nell’uomo bianco etero benestante o ricco, abile e – volendo fare l’occhiolino all’eco-femminismo – diciamo anche carnivoro». Sorride. Poi riprende: «Quindi il patriarcato è una struttura verticistica al cui apice c’è questa figura maschile e sotto vengono tutta una serie di categorie che valgono sempre meno, che hanno sempre meno potere. Ad esempio un gay nero vale meno di un gay bianco, ma una donna vale meno di un gay, e la donna lesbica vale meno della donna etero».
Si ferma, ci pensa un attimo, mi espone un concetto e poi me lo ripete in altro modo. Da questo deduco che riflette molto accuratamente mentre parla, ma anche che sono discorsi che ha fatto molte volte e che forse teme che io non stia capendo.
«Il patriarcato è un modello che si applica a tutte le società o quasi, e a tutti i contesti: nel lavoro, nella politica, nella famiglia, nell’economia. Ma anche contesti come lo sport. Pensa al calcio. Gli uomini sono professionisti, hanno gli stipendi, mentre le donne sono tutte dilettanti. Anche nella serie A non hanno contratti professionistici, è considerato uno sport dilettantistico».
Le propongo un esperimento. Identificando nel prototipo dell’uomo al vertice Donald Trump, bianco, etero, ricco e potente, chiedo ad Anita quale sia la figura più lontana da lui, la persona più lontana dall’attuale presidente degli U.S.A. Ci riflette un attimo, poi risponde: «Forse l’entità più lontana è una donna nera lesbica disabile. Anzi, una donna nera trans lesbica con disabilità, ecco. Forse questa entità è proprio la cosa più lontana da Trump».
Dal punto di vista di Anita, se il patriarcato è il problema, il femminismo è la soluzione. «Anzi, i femminismi» dice. «Ma questo non significa che le donne debbano scalzare questa figura all’apice e occuparne il posto. Dovrebbe significare invece una equità tra tutte le persone. Che non vuol dire una eliminazione delle peculiarità individuali, ma una parità di opportunità. Non ci dovrebbero essere differenze che ti garantiscono immediato successo perché sei bianco, maschio, etero e ricco. Ovviamente questo riguarda anche gli uomini: un uomo povero, magari particolarmente non macho, non brillante, non forte, è comunque svantaggiato in un certo mondo economico competitivo. Certo, è comunque un uomo, quindi ha maggiori privilegi rispetto a una donna».
Chiedo ad Anita se al posto di patriarcato, così, per gioco, potremmo mettere la parola capitalismo. La risposta è no. «Perché il capitale non fa differenza tra uomini e donne» spiega, «è una differenza tra ricchi e poveri, tra sistemi economici. Il capitale è come la morte: non gliene frega niente di chi ha davanti. Se un elemento è produttivo, anche se disabile e donna, non fa differenza. Invece il patriarcato considera queste differenze. Il capitale ha altri criteri di valutazione, quello dei soldi. Produttivo o non produttivo. Io direi che il patriarcato è capitalista, ma non che sono la stessa cosa».
A questo punto mi chiedo: e se invece il problema fosse la coppia? Se fosse la coppia l’ambiente fertile per i comportamenti violenti? «Non penso che la coppia sia il problema» risponde Anita. «Il problema forse è che la coppia è considerata l’unico modello relazionale, l’unico giusto che le persone possono e devono mettere in pratica».
Insomma, la coppia come modello migliore ma solo perché gli altri sono peggiori, come la democrazia secondo la definizione di Churchill?
«Esistono tanti modelli relazionali» continua Anita. «Questo il movimento LGBTI lo sa perché lo mette in pratica e quindi fa un po’ da contraltare alla cosiddetta famiglia tradizionale. Ma il punto non è andare contro qualcuno, non è quella la battaglia. Se una persona vuole sposarsi e avere cento bambini per me deve poterlo fare. Ma le persone vivono tante relazioni diverse, e questo lo sappiamo dalla pratica, non dalla teoria. E in una società che ti dice tu maschio sei blu, tu donna sei rosa, il vostro ruolo è sposarvi e fare figli, io sono già fuori, che lo voglia o no: perché sono una rosa che sta con una rosa. Il problema si pone quando io dico: ma perché dev’essere obbligatorio che blu debba stare con rosa? In quel senso metti in crisi la famiglia tradizionale, ma lo scopo non è impedire alle persone che vogliono quello di farlo. Lo scopo è dire: a me capita una cosa diversa».
Dai dati però emerge che la violenza è soprattutto domestica, cioè avviene all’interno delle coppie, delle famiglie, delle case. «Perché nella nostra cultura la coppia etero è il modello predominante a cui tutti devono adeguarsi. Dunque certo, se andiamo a vedere i dati dei centri antiviolenza, la maggior parte delle violenze sono violenze domestiche. Questo perché la maggior parte delle coppie sono coppie monogame sposate».
Dunque, domande su domande, in un ipotetico pianeta fatto solo di donne, o di altre soggettività che vivono relazioni di ogni tipo, non ci sarebbe la violenza? Si vivrebbe finalmente in pace, senza violenza, senza dominio e senza controllo?
«Io non so se vivessimo in una società in cui le relazioni fossero tantissime e diverse, quali percentuali di violenza ci sarebbero. Non lo possiamo sapere» continua Anita. «Di sicuro non è la coppia in sé che porta la violenza, ma la coppia come unico modello di relazione e, soprattutto, con i ruoli così rigidamente strutturati. E gli stereotipi favoriscono la violenza, perché restringono la persona-maschio in un’idea di tutto dovuto: vita pubblica, sicurezza, forza, determinazione. Le cosiddette caratteristiche maschili».
E queste dinamiche si riflettono anche nelle coppie lesbiche, dove il maschio è assente fisicamente ma presente come fantasma? «Sì. Per molti anni all’interno della comunità lesbica, e tuttora forse, c’è stata questa divisione in butch e femme. La butch è questa figura della lesbica rappresentata come una donna grossa con la camicia di flanella, un po’ uomo, e ricalca quel ruolo nella coppia e nella società, mentre la femme è truccata, ben vestita, e assume il ruolo femminile. Oggi non è più tanto così, lo noti anche a livello estetico».
In effetti una delle rivendicazioni che alcune ragazze e attiviste fanno durante i pride e che si leggono spesso sui cartelli è sono lesbica e ho i capelli lunghi. In un certo senso è una critica verso la comunità LGBTI stessa, a quella parte che non vuole le lesbiche troppo femminili, ma anche una provocazione all’immaginario collettivo.
«Nell’immaginario le lesbiche, basta guardare i porno, o sono delle porcone o delle stupide cesse e antipatiche» continua Anita. «Le donne trans ad esempio nell’immaginario collettivo sono le prostitute, e ovviamente non è così. Le lesbiche vengono rappresentate come antipatiche, un po’ come si faceva con le suffragiste (suffragette è un modo dispregiativo di chiamarle) che venivano rappresentate nei cartelloni satirici come delle stregacce orrende con i nei pelosi. Ma è quello che si fa sempre: la categoria predominante quando si sente minacciata utilizza la denigrazione, quindi la femminista diventa una zitella acida frigida, la lesbica è incazzata e antipatica perché nessun maschio se la vuole scopare e via dicendo. Anche la retorica per cui le lesbiche e le femministe odiano i maschi è ben pensata. Perché è un modo per impedire anche la comunicazione. Le lesbiche femministe che conosco io non vogliono evirare nessun maschio, né odiano i maschi in quanto maschi. La critica è a una struttura, o al singolo uomo violento se vuoi entrare nel personale, ma nessuna ragazza che conosco pensa che sia una colpa avere un pene».
Questo dell’identità e dell’immaginario collettivo è un altro di quei problemi sui quali a Bologna sembrano averci riflettuto non poco: «Il problema è che viviamo in un mondo in cui hai due modelli, maschile e femminile. O hai la fortuna di nascere e aderire a uno o l’altro senza pensarci troppo, oppure senti che non appartieni a uno dei due. Una lesbica non sente necessariamente di appartenere a uno dei due» spiega Anita.
«Però per molto tempo la cosa che più si avvicinava al loro modo di essere era il modello maschile. Perché non si riconoscevano nel modello femminile più diffuso e stereotipato. Sai la donna con i capelli lunghi, sempre a dieta, con le unghie laccate? È la cosa più lontana da me che esista. Preferivo i jeans e la camicia. E chi dei due li porta? L’uomo, bene: allora mi sento più vicino all’uomo. In un contesto in cui non si ha modo di riflettere su questo, un contesto di isolamento dove non si conoscono altre persone lesbiche, che fai? C’è il rischio di acquisire uno dei due modelli per essere accettata, di omologarti: è comprensibile, è sopravvivenza. E i modelli a cui adeguarsi sono quelli».
A questo punto, una domanda ancora: questa riflessione sulla violenza all’interno delle relazioni omosessuali viene portata avanti, al momento, dalle donne. E invece nel mondo maschile gay?
«In effetti, che io sappia, non è una tematica che il movimento gay porta avanti e sulla quale riflette. E sicuramente anche nelle coppie di maschi gay c’è della violenza. Perché non se ne occupano? Non lo so. Credo che le ragioni siano le stesse per cui anche noi ce ne siamo occupate dopo molto tempo, perché bisogna portare avanti un’idea positiva della persona LGBTI. Poi va detto che le lesbiche sono una specie di bolla intermedia tra il movimento femminista e il movimento omosessuale. Condividendo queste due caratteristiche, cioè in quanto donne e in quanto lesbiche, hanno avuto questa possibilità di intersezione tra queste due realtà. Il tema della violenza è un tema che è sempre stato affrontato dalle femministe. Quindi non è strano che la parte LGBTI che più ha recepito questi temi sia proprio quella delle donne lesbiche».
Dunque un ritardo nella riflessione da parte degli uomini omosessuali si può spiegare anche così, e questo forse rispecchia anche quello che è la nostra società. Forse anche per loro non è ancora il momento giusto?
«Probabilmente gli uomini fanno più fatica a riflettere su argomenti come il patriarcato e la differenza di potere» dice Anita, «perché da un lato è una categoria che detiene maggiore privilegio, e quindi dovrebbero fare autocritica. Per le donne è una liberazione. Io ad esempio faccio attivismo perché vivo sulla mia pelle delle discriminazioni in quanto donna, quindi mi incazzo e porto avanti riflessioni che si traducono in pratica politica. Gli uomini, invece, da una parte hanno dei privilegi sociali e dall’altra anche delle pressioni, il machismo, la vergogna dell’emotività… Quindi è chiaro che anche gli uomini subiscono il patriarcato, ma fanno più fatica a sentirlo come un problema. Gli uomini gay sono comunque uomini».
*Le fotografie ritraggono momenti delle manifestazioni del movimento LGBTI bolognese tra il 2015 e il 2018.
Questo il numero della Linea Lesbica Antiviolenza: 3913333405
Se arrivi alla stazione di Bologna e chiedi dov’è il Cassero saranno poche le persone a non saperti dare le indicazioni per raggiungerlo. Tutte o quasi sanno cos’è e dove si trova. A me giuro lo spiega una vecchina con le buste della spesa. Forse ci va il figlio, forse ci va lei a ballare, chissà. Il Cassero è lo spazio storico del movimento gay bolognese, sede nazionale dellArcigay, nonché celebre discoteca della città. Per entrarci bisogna superare un ponticello che lo collega alla strada, come un fortino. Al suo interno è ospitata anche l’associazione Lesbiche Bologna, che l’anno scorso contava circa duecento socie, solo donne, non tutte lesbiche.
«Scusa se c’è poco spazio».
In una piccola stanza piena di libri, faldoni e scatoloni incontro le attiviste. Sono tutte, ciascuna a modo suo, femministe in quanto donne e in quanto lesbiche. Questa doppia definizione verrà rimarcata più volte ed è significativa per capire la loro visione della società. Parleremo anche di patriarcato, ovviamente. Un termine che fa storcere il naso a molte persone, ma che è alla base del loro pensiero e del loro vivere quotidiano. Ma soprattutto parleremo di violenza nelle relazioni, di come loro abbiano deciso di riflettere sul problema e di come affrontarlo e gestirlo.
Un fenomeno che tutte le lesbiche conoscevano nella loro esperienza quotidiana ma di cui si preferiva non parlare in pubblico: la violenza all’interno della coppia e più in generale nelle relazioni affettive.
«Noi partiamo dalla pratica. Poi chiaramente si crea tutta una sovrastruttura teorica con cui devi confrontarti, ma il nostro lavoro è nato da problemi pratici, quotidiani, cioè il fatto di sostenere le donne che hanno bisogno d’aiuto» mi spiega Anita, una delle operatrici della Linea lesbica antiviolenza. È una linea telefonica gratuita e totalmente anonima, nata per intercettare un fenomeno che tutte le lesbiche conoscevano nella loro esperienza quotidiana ma di cui si preferiva non parlare in pubblico: la violenza all’interno della coppia e più in generale nelle relazioni affettive, ad esempio in famiglia.
«Ci lavoriamo da anni, eppure è ancora oggi un tema complicato da tirare fuori. Un tema tabù» mi spiega Carla, attivista bolognese con una lunga esperienza di lotta per i diritti per le persone omosessuali. «È la parte oscura dell’identità lesbica e si preferisce parlarne poco. Noi abbiamo sempre lavorato per la visibilità con lo scopo di trasmettere all’esterno un’idea positiva dell’essere lesbiche, bisessuali o trans, ma sappiamo che nelle nostre vite quotidiane non è tutto sempre così lucido».
Una parte del movimento lesbico e femminista pensa che quello della violenza tra donne è un argomento che, se proprio non si può evitare, è meglio almeno mettere in secondo piano. La paura è che in una realtà come quella italiana, priva di reali riconoscimenti di diritti per le persone omosessuali, far emergere gli aspetti negativi del movimento possa allontanare la conquista di questi diritti. Sono in molte a pensare che l’argomento non sia così importante o che non sia ancora il momento giusto per parlarne.
Come raccontava qualche anno fa Giovanna Camertoni del Centro Antiviolenza di Trento, in un convegno dedicato al tema:
«Nessuna di noi pensava che all’interno delle nostre relazioni intime si sarebbero potute verificare delle situazioni di violenza. A dire la verità, quasi nessuna di noi stava o era stata in una relazione di intimità con un’altra donna. Eravamo quasi tutte lesbiche che si incontravano per la prima volta e che provavano a non vergognarsi per ciò che erano. [ ] Dopo un po’ di tempo ho capito che le dinamiche del potere e del controllo potevano esistere anche nelle relazioni lesbiche».
Da Trento a Roma, passando per convegni e ricerche sul tema, la questione faticosamente viene fuori, e ritorniamo a Bologna e alla Linea lesbica antiviolenza, una delle prime d’Italia. Che sia proprio Bologna non è sicuramente un caso. È storicamente una città LGBTI friendly, ha una lunga storia di lotte per i diritti e anche uno dei primi centri antiviolenza aperti in Italia.
«Molte ragazze lesbiche vengono a vivere qua perché sanno che c’è un’attenzione maggiore ai diritti civili» mi racconta Anita. «Qui vedi normalmente girare in strada coppie dello stesso sesso e ti posso confermare che quando giro con la mia ragazza io mi sento tranquillissima, mentre in un’altra città meno. Questo anche perché è una città universitaria, con un forte ricambio di persone diverse. Qua spesso si dice che i bolognesi non esistono e, in effetti, ci sono tantissime persone che vengono da altre regioni e da altri paesi, dunque è un contesto dove è più facile dare maggiore spazio alle differenze, non chiudersi nella paura».
La paura è che in una realtà come quella italiana, priva di reali riconoscimenti di diritti per le persone omosessuali, far emergere gli aspetti negativi del movimento possa allontanare la conquista di questi diritti.
Anche lei, come credo tutte le persone presenti durante la conversazione, non è bolognese: dopo gli studi ha scelto questa città anche per questo motivo, per la sua apertura.
Tutte, mi spiegano, conoscono amiche che hanno subito violenza o che l’hanno esercitata. Molte donne non sanno però a chi chiedere aiuto, soprattutto le lesbiche, che vivono quella doppia discriminazione (in quanto donne e in quanto lesbiche) che rende tutto più complesso. I centri antiviolenza esistono in tutta Italia, ma spesso non hanno l’esperienza o la formazione per casi così specifici che riguardano donne lesbiche, bisex o trans.
Le operatrici della Linea lesbica antiviolenza rispondono da qui, da questo stanzino del Cassero, dove svolgono buona parte delle loro attività. Le operatrici di solito sono due: aspettano che il telefono squilli e, quando capita, una delle due risponde.
«Ci presentiamo, chiediamo l’età e il nome di battesimo, ma ovviamente la persona può dare un nome di fantasia» spiega Barbara, un’altra operatrice. Ha un tono calmo ma deciso, immagino lo stesso che usa quando risponde alle telefonate. «Le chiediamo se in quel momento può parlare, se è in un luogo sicuro. E le chiediamo di spiegarci cosa c’è che non va. A volte si sentono in colpa anche solo per aver chiamato».
Mentre mi raccontano il tipo di casi che trattano, chiudono la porta della stanza, come se qualcuno potesse ascoltare. Mi ripetono varie volte la parola riservatezza. I casi che affrontano rappresentano tutte le possibili sfumature della violenza. Si va dalla ragazza che confessa ai parenti di essere lesbica e viene picchiata da tutta la famiglia, fino a donne che si accorgono di essere sotto il totale controllo della partner, alla quale devono chiedere il permesso di uscire per vedersi con un’amica o che devono scusarsi se tornano tardi a casa.
Non semplici litigi, non gelosia nel senso più innocuo del termine, ma abusi, manipolazioni, violenza psicologica, stalking, fino alla violenza fisica e a quella sessuale. Spesso il problema, per le persone, è capire qual è il confine in tutte le relazioni piuttosto labile tra il semplice conflitto e la vera e propria violenza, il controllo, il dominio, la sopraffazione. Le operatrici della linea distinguono in modo molto netto questo confine, ma il loro obiettivo è farlo capire alla donna che chiama, e arrivarci con lei.
«In tutte le relazioni capita di litigare» dice Barbara. «Ma è violenza quando c’è la paura. Molto spesso si tratta di donne che hanno subito violenza senza rendersi conto, al momento, che fosse violenza. Noi come prima cosa le ascoltiamo e le sosteniamo, ma cerchiamo anche di usare le parole giuste, ampliare la visione che loro per prime hanno dato a certi episodi della loro vita di coppia, contestualizzarli».
Il punto fondamentale è l’asimmetria nel rapporto. «Il conflitto, le discussioni, i litigi: sono tutte cose normali nei rapporti di coppia» spiega Anita. «In una relazione normale ci sono compromessi: una volta ha ragione una, una volta l’altra, e così via. Ma nei casi che trattiamo non è così. Di solito c’è una delle due partner che sistematicamente controlla, domina, insulta, sminuisce e zittisce l’altra partner. Sistematicamente, per molto tempo. In questo caso si parla di violenza psicologica, che può sembrare meno grave di uno schiaffo, ma non è così».
«Uno schiaffo è uno schiaffo» continua Barbara. «Fa male ed è una violenza facile da riconoscere. Ma spesso nelle relazioni affettive si verificano altre forme di violenze più subdole e difficili da riconoscere. Mesi di pressione, controllo e di logorante pressione psicologica sono devastanti quanto uno schiaffo, forse di più».
Se tutto questo è già abbastanza complicato nelle relazioni etero, lo è ancora di più in quelle tra persone dello stesso sesso, in questo caso donne. Per vari motivi. Ad esempio può risultare difficoltoso per gli operatori giuridici riconoscere come violenza domestica la violenza fra donne che convivono e hanno una relazione stabile, ma che la legge non riconosce come coppia e tantomeno come famiglia. Ma influisce anche la paura e la vergogna della persona maltrattata di non essere creduta a causa dell’idea per cui la violenza è possibile solo tra uomini e donne, dato che la violenza è considerata maschile.
Inoltre molte donne hanno paura di mettere in crisi la propria identità lesbica lasciando la partner. La coppia è spesso l’unico spazio in cui si sentono bene, in cui si sentono se stesse. Ma questo spazio può diventare soffocante, generare dipendenza e controllo. Capita anche che l’accusa sia quella di non essere abbastanza lesbica o di non esserlo nel modo giusto.
«Ci sono capitati casi di attiviste femministe che subivano violenza all’interno della coppia» spiega Anita. «Una magari pensa di essere vaccinata, di avere l’antidoto, ma non è così: anche le attiviste subiscono violenza. Ma c’è un forte tabù nel parlarne, soprattutto da parte di chi fa parte della comunità. Vergogna di sicuro, ma anche paura di screditare il movimento».
«Così come può succedere che nella coppia c’è una delle due che ha fatto coming out e l’altra no» racconta Carla, «e allora può dire: se tu mi lasci io ti rovino, dico a tutti che sei lesbica e per te può essere un problema al lavoro, in famiglia. Questo può essere un ricatto sia nella relazione… ma anche in un gruppo politico».
«Si fa molta fatica a denunciare una violenza subita in un contesto di attivismo perché non vuoi rovinarne la reputazione» spiega Anita. «Ma questo accade in tutte le cerchie sociali. All’interno di una cerchia si fa fatica a denunciare, prima di tutto perché ti senti in colpa quando subisci violenza, ci si sente quasi complici in quello che accade, quindi sembra quasi una punizione eccessiva denunciarla, diffamarla… E poi c’è l’idea che dobbiamo difenderci dal mondo esterno, non da quello interno» aggiunge indicando un punto generico.
«E poi c’è l’idea che dobbiamo difenderci dal mondo esterno, non da quello interno».
Questo è uno dei motivi per cui alcune lesbiche femministe non vedono di buon occhio l’idea di gettare una luce su un fenomeno normalmente tenuto all’ombra. In sostanza, per motivi politici, ideologici, e di immagine pubblica.
«Molte lesbiche contestano il nostro lavoro perché dicono: il problema non sono le lesbiche, sono i maschi» continua Anita. «Hanno paura che noi finiamo per parificare e appiattire la gravità della violenza maschile sulle donne perché, in sostanza, il nostro discorso è che anche le lesbiche agiscono violenza. Ma affrontare la violenza nelle relazioni lesbiche non vuole in nessun modo erodere il problema della violenza maschile sulle donne, ampiamente più diffuso. Ed è schifoso utilizzare questa argomentazione per appiattire tutto il discorso sulla violenza».
Come ammette Carla, fino a qualche anno fa anche lei avrebbe preferito evitare l’argomento: «Per un certo periodo pensavo che non si dovessero tirare fuori queste questioni, ti parlo degli anni Novanta, degli anni Duemila. All’epoca era giusto lavorare per venir fuori, per rafforzarsi, per essere felici di essere lesbiche e per far capire agli altri fuori che eravamo lesbiche e che stavamo bene e che non volevamo che nessuno ci impedisse questa libertà. Quindi è ovvio che in quel periodo parlare della violenza nelle relazioni non aveva senso, era più importante sconfiggere la violenza maschile. Ma un conto è non voler affrontare la questione, rimuoverla. Un conto è cercare di ragionare su quello che si vedeva e sul fatto che obiettivamente anche tra donne la violenza esiste. E di capire perché, da dove viene, e cosa fare».
«Se in una coppia lesbica c’è della violenza molte dicono che sono solo due lesbiche che litigano, perché il problema è solo l’uomo, la violenza è solo quella maschile» aggiunge Anita.
E dunque ecco la domanda: la violenza è maschile? Se tra due donne si instaura un rapporto di violenza e controllo la spiegazione è che hanno interiorizzato il modello maschile? Secondo molte attiviste sì: il modello patriarcale è tanto invadente da essere assunto anche da coloro che vivono relazioni omosessuali.
«Le radici possono essere le stesse» spiega Carla, «ma è ovvio che per una lesbica c’è tutta una questione dell’essere lesbica, da come vive la propria identità, all’accettazione di sé, all’accettazione sociale, alla relazione con l’altra collegata anche a come nella coppia si vive il fatto di accettarsi come lesbica socialmente. Insomma ci sono tante questioni che sicuramente non riguardano le relazione eterosessuali tra uomini e donne».
L’errore più frequente e immediato è mettere sullo stesso piano i fenomeni di violenza all’interno delle relazioni eterosessuali e quelli all’interno di relazioni omosessuali, cioè pensare che siano la stessa cosa, che la violenza sia ovunque e ovunque si manifesti allo stesso modo. Un’equazione semplice e scontata. Ma è corretta? La risposta di Carla è netta: «Assolutamente no» mi secca con un tono che non ammette repliche. «Non sono la stessa cosa. Questo è ridurre, banalizzare, ignorare che la nostra società è impostata in un certo modo, che è basata sul predominio maschile sulle donne a tutti i livelli. Diamo i nomi alle cose: il patriarcato».
Sapevo che prima o poi questa parola sarebbe venuta fuori. Chiedo ad Anita di darmi la sua definizione di patriarcato immaginando di doverla spiegare a chi non ne ha mai sentito parlare. Sorride, mi dice «sì, ci provo».
Sorride perché sono concetti su cui ha riflettuto a lungo e che fanno parte della sua esperienza quotidiana, ma sa che non è così per tutti. Ad esempio non è così per me.
Un punto che non va sottovalutato è proprio questo: per quanto ci si possa sentire distanti dalle posizioni delle lesbiche femministe, non si può negare che ogni singola questione loro l’hanno prima vissuta, poi analizzata, studiata, discussa. Questo perché nella loro vita personale, perfino nella loro vita intima, il piano individuale e quello sociale sono continuamente sovrapposti.
Per dirla semplicemente: un cittadino eterosessuale, a meno che non se ne occupi per lavoro o per studio, può fare a meno di riflettere su certi temi, cioè su quanto la sua vita relazionale, intima, affettiva sia influenzata dalla società. Per una lesbica questa riflessione obbligata o auto-formazione continua come la chiamano è quasi quotidiana.
Da qui anche l’uso di un linguaggio complesso, e alle mie orecchie poco allenate quasi indecifrabile, che utilizza termini provenienti da ambienti accademici, soprattutto dalla sociologia, ma anche dalla psicologia e dagli studi culturali. Un linguaggio che può allontanare o spiazzare chi normalmente non si interessa a certi temi. Qualche esempio? Etero-normato, etero-normativo, omo-normatività, binarietà, soggettività, complementarietà, subordinazione tra i generi, omolesbotransfobia, lesbofobia interiorizzata, eterosessualità obbligatoria interiorizzata, intersessualità, empowerment, monogamia inerziale… e patriarcato, appunto.
«Dunque» riprende Anita, «cos’è il patriarcato. Si tratta di una struttura della società in cui esistono delle forti gerarchie che prevedono che esista una categoria predominante che possiamo identificare nell’uomo bianco etero benestante o ricco, abile e – volendo fare l’occhiolino all’eco-femminismo – diciamo anche carnivoro». Sorride. Poi riprende: «Quindi il patriarcato è una struttura verticistica al cui apice c’è questa figura maschile e sotto vengono tutta una serie di categorie che valgono sempre meno, che hanno sempre meno potere. Ad esempio un gay nero vale meno di un gay bianco, ma una donna vale meno di un gay, e la donna lesbica vale meno della donna etero».
Si ferma, ci pensa un attimo, mi espone un concetto e poi me lo ripete in altro modo. Da questo deduco che riflette molto accuratamente mentre parla, ma anche che sono discorsi che ha fatto molte volte e che forse teme che io non stia capendo.
«Il patriarcato è un modello che si applica a tutte le società o quasi, e a tutti i contesti: nel lavoro, nella politica, nella famiglia, nell’economia. Ma anche contesti come lo sport. Pensa al calcio. Gli uomini sono professionisti, hanno gli stipendi, mentre le donne sono tutte dilettanti. Anche nella serie A non hanno contratti professionistici, è considerato uno sport dilettantistico».
Le propongo un esperimento. Identificando nel prototipo dell’uomo al vertice Donald Trump, bianco, etero, ricco e potente, chiedo ad Anita quale sia la figura più lontana da lui, la persona più lontana dall’attuale presidente degli U.S.A. Ci riflette un attimo, poi risponde: «Forse l’entità più lontana è una donna nera lesbica disabile. Anzi, una donna nera trans lesbica con disabilità, ecco. Forse questa entità è proprio la cosa più lontana da Trump».
Dal punto di vista di Anita, se il patriarcato è il problema, il femminismo è la soluzione. «Anzi, i femminismi» dice. «Ma questo non significa che le donne debbano scalzare questa figura all’apice e occuparne il posto. Dovrebbe significare invece una equità tra tutte le persone. Che non vuol dire una eliminazione delle peculiarità individuali, ma una parità di opportunità. Non ci dovrebbero essere differenze che ti garantiscono immediato successo perché sei bianco, maschio, etero e ricco. Ovviamente questo riguarda anche gli uomini: un uomo povero, magari particolarmente non macho, non brillante, non forte, è comunque svantaggiato in un certo mondo economico competitivo. Certo, è comunque un uomo, quindi ha maggiori privilegi rispetto a una donna».
Chiedo ad Anita se al posto di patriarcato, così, per gioco, potremmo mettere la parola capitalismo. La risposta è no. «Perché il capitale non fa differenza tra uomini e donne» spiega, «è una differenza tra ricchi e poveri, tra sistemi economici. Il capitale è come la morte: non gliene frega niente di chi ha davanti. Se un elemento è produttivo, anche se disabile e donna, non fa differenza. Invece il patriarcato considera queste differenze. Il capitale ha altri criteri di valutazione, quello dei soldi. Produttivo o non produttivo. Io direi che il patriarcato è capitalista, ma non che sono la stessa cosa».
A questo punto mi chiedo: e se invece il problema fosse la coppia? Se fosse la coppia l’ambiente fertile per i comportamenti violenti? «Non penso che la coppia sia il problema» risponde Anita. «Il problema forse è che la coppia è considerata l’unico modello relazionale, l’unico giusto che le persone possono e devono mettere in pratica».
Insomma, la coppia come modello migliore ma solo perché gli altri sono peggiori, come la democrazia secondo la definizione di Churchill?
«Esistono tanti modelli relazionali» continua Anita. «Questo il movimento LGBTI lo sa perché lo mette in pratica e quindi fa un po’ da contraltare alla cosiddetta famiglia tradizionale. Ma il punto non è andare contro qualcuno, non è quella la battaglia. Se una persona vuole sposarsi e avere cento bambini per me deve poterlo fare. Ma le persone vivono tante relazioni diverse, e questo lo sappiamo dalla pratica, non dalla teoria. E in una società che ti dice tu maschio sei blu, tu donna sei rosa, il vostro ruolo è sposarvi e fare figli, io sono già fuori, che lo voglia o no: perché sono una rosa che sta con una rosa. Il problema si pone quando io dico: ma perché dev’essere obbligatorio che blu debba stare con rosa? In quel senso metti in crisi la famiglia tradizionale, ma lo scopo non è impedire alle persone che vogliono quello di farlo. Lo scopo è dire: a me capita una cosa diversa».
Dai dati però emerge che la violenza è soprattutto domestica, cioè avviene all’interno delle coppie, delle famiglie, delle case. «Perché nella nostra cultura la coppia etero è il modello predominante a cui tutti devono adeguarsi. Dunque certo, se andiamo a vedere i dati dei centri antiviolenza, la maggior parte delle violenze sono violenze domestiche. Questo perché la maggior parte delle coppie sono coppie monogame sposate».
Dunque, domande su domande, in un ipotetico pianeta fatto solo di donne, o di altre soggettività che vivono relazioni di ogni tipo, non ci sarebbe la violenza? Si vivrebbe finalmente in pace, senza violenza, senza dominio e senza controllo?
«Io non so se vivessimo in una società in cui le relazioni fossero tantissime e diverse, quali percentuali di violenza ci sarebbero. Non lo possiamo sapere» continua Anita. «Di sicuro non è la coppia in sé che porta la violenza, ma la coppia come unico modello di relazione e, soprattutto, con i ruoli così rigidamente strutturati. E gli stereotipi favoriscono la violenza, perché restringono la persona-maschio in un’idea di tutto dovuto: vita pubblica, sicurezza, forza, determinazione. Le cosiddette caratteristiche maschili».
E queste dinamiche si riflettono anche nelle coppie lesbiche, dove il maschio è assente fisicamente ma presente come fantasma? «Sì. Per molti anni all’interno della comunità lesbica, e tuttora forse, c’è stata questa divisione in butch e femme. La butch è questa figura della lesbica rappresentata come una donna grossa con la camicia di flanella, un po’ uomo, e ricalca quel ruolo nella coppia e nella società, mentre la femme è truccata, ben vestita, e assume il ruolo femminile. Oggi non è più tanto così, lo noti anche a livello estetico».
In effetti una delle rivendicazioni che alcune ragazze e attiviste fanno durante i pride e che si leggono spesso sui cartelli è sono lesbica e ho i capelli lunghi. In un certo senso è una critica verso la comunità LGBTI stessa, a quella parte che non vuole le lesbiche troppo femminili, ma anche una provocazione all’immaginario collettivo.
«Nell’immaginario le lesbiche, basta guardare i porno, o sono delle porcone o delle stupide cesse e antipatiche» continua Anita. «Le donne trans ad esempio nell’immaginario collettivo sono le prostitute, e ovviamente non è così. Le lesbiche vengono rappresentate come antipatiche, un po’ come si faceva con le suffragiste (suffragette è un modo dispregiativo di chiamarle) che venivano rappresentate nei cartelloni satirici come delle stregacce orrende con i nei pelosi. Ma è quello che si fa sempre: la categoria predominante quando si sente minacciata utilizza la denigrazione, quindi la femminista diventa una zitella acida frigida, la lesbica è incazzata e antipatica perché nessun maschio se la vuole scopare e via dicendo. Anche la retorica per cui le lesbiche e le femministe odiano i maschi è ben pensata. Perché è un modo per impedire anche la comunicazione. Le lesbiche femministe che conosco io non vogliono evirare nessun maschio, né odiano i maschi in quanto maschi. La critica è a una struttura, o al singolo uomo violento se vuoi entrare nel personale, ma nessuna ragazza che conosco pensa che sia una colpa avere un pene».
Questo dell’identità e dell’immaginario collettivo è un altro di quei problemi sui quali a Bologna sembrano averci riflettuto non poco: «Il problema è che viviamo in un mondo in cui hai due modelli, maschile e femminile. O hai la fortuna di nascere e aderire a uno o l’altro senza pensarci troppo, oppure senti che non appartieni a uno dei due. Una lesbica non sente necessariamente di appartenere a uno dei due» spiega Anita.
«Però per molto tempo la cosa che più si avvicinava al loro modo di essere era il modello maschile. Perché non si riconoscevano nel modello femminile più diffuso e stereotipato. Sai la donna con i capelli lunghi, sempre a dieta, con le unghie laccate? È la cosa più lontana da me che esista. Preferivo i jeans e la camicia. E chi dei due li porta? L’uomo, bene: allora mi sento più vicino all’uomo. In un contesto in cui non si ha modo di riflettere su questo, un contesto di isolamento dove non si conoscono altre persone lesbiche, che fai? C’è il rischio di acquisire uno dei due modelli per essere accettata, di omologarti: è comprensibile, è sopravvivenza. E i modelli a cui adeguarsi sono quelli».
«Gli uomini gay sono comunque uomini».
A questo punto, una domanda ancora: questa riflessione sulla violenza all’interno delle relazioni omosessuali viene portata avanti, al momento, dalle donne. E invece nel mondo maschile gay?
«In effetti, che io sappia, non è una tematica che il movimento gay porta avanti e sulla quale riflette. E sicuramente anche nelle coppie di maschi gay c’è della violenza. Perché non se ne occupano? Non lo so. Credo che le ragioni siano le stesse per cui anche noi ce ne siamo occupate dopo molto tempo, perché bisogna portare avanti un’idea positiva della persona LGBTI. Poi va detto che le lesbiche sono una specie di bolla intermedia tra il movimento femminista e il movimento omosessuale. Condividendo queste due caratteristiche, cioè in quanto donne e in quanto lesbiche, hanno avuto questa possibilità di intersezione tra queste due realtà. Il tema della violenza è un tema che è sempre stato affrontato dalle femministe. Quindi non è strano che la parte LGBTI che più ha recepito questi temi sia proprio quella delle donne lesbiche».
Dunque un ritardo nella riflessione da parte degli uomini omosessuali si può spiegare anche così, e questo forse rispecchia anche quello che è la nostra società. Forse anche per loro non è ancora il momento giusto?
«Probabilmente gli uomini fanno più fatica a riflettere su argomenti come il patriarcato e la differenza di potere» dice Anita, «perché da un lato è una categoria che detiene maggiore privilegio, e quindi dovrebbero fare autocritica. Per le donne è una liberazione. Io ad esempio faccio attivismo perché vivo sulla mia pelle delle discriminazioni in quanto donna, quindi mi incazzo e porto avanti riflessioni che si traducono in pratica politica. Gli uomini, invece, da una parte hanno dei privilegi sociali e dall’altra anche delle pressioni, il machismo, la vergogna dell’emotività… Quindi è chiaro che anche gli uomini subiscono il patriarcato, ma fanno più fatica a sentirlo come un problema. Gli uomini gay sono comunque uomini».
*Le fotografie ritraggono momenti delle manifestazioni del movimento LGBTI bolognese tra il 2015 e il 2018.
Questo il numero della Linea Lesbica Antiviolenza: 3913333405