Gli elettrosensibili

Testo di Giacomo Alberto Vieri, Fotografie di Claudia Gori

Chi era lui? Era Edmond Dantès, Ed era mio padre. E mia madre, mio fratello, un mio amico. Era lei, ero io, era tutti noi.”

Mi ricordo che quando vidi per la prima volta, al cinema, V per Vendetta e sul finale – mentre esplodono torri e cattedrali – sentii pronunciare le parole di cui sopra, pensai due cose, un po’ sconnesse fra loro: che dovevo fermare la mia amica Susi – che pesava più di me e sapeva sempre di naftalina – da quell’idea che le era venuta in mente Mi raserò i capelli a zero tanto se ci sta bene quella tipa nel film ci sto bene pure io; e che il mondo iniziava a farmi paura. Sinapsi un po’ sconnesse.
Era il 2006, ci stava che Natalie Portman fosse ancora “quella tipa”. Non so.

Una dozzina di anni dopo, tra il 2017 e il 2019, ho seguito l’amica e collega Claudia Gori in un lungo caparbio viaggio dentro al tema dell’elettrosensibilità.
Chilometri e chilometri in giro per l’Italia, cercare su internet l’indirizzo mail del Ministero della Salute, intervistare una persona schermata dietro un paravento di protezioni e pannelli, tenere la modalità aereo sempre On, lasciare il pc e altri device in auto, conoscere persone che vivono senza telefono cellulare.

La questione dell’elettrosensibilità, ad oggi, risulta spinosa per moltissimi aspetti: definita come “reazione organica ai campi elettromagnetici” (non si tratta soltanto di basse frequenza, generate principalmente da elettrodomestici e linee elettriche, ma anche di campi ad alta frequenza, prodotti soprattutto dalle tecnologie wireless e dai ripetitori radiotelevisivi), la partita dell’EHS (Electromagnetic Hypersensitivity Syndrome) si gioca sugli effetti non-termici dell’inquinamento da onde ad alta frequenza, che avvengono senza un apprezzabile riscaldamento cellulare, laddove la materia vivente reagisce non alla potenza del segnale ma al segnale stesso.

Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico. Più specificamente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel workshop sull’elettrosensibilità che si tenne a Praga nel 2004, indicò che il 2/3% della popolazione mondiale si attribuiva disturbi sanitari in esposizione a radiazioni elettromagnetiche sia di alta che di bassa frequenza. Molto suggestiva al riguardo fu una lettera all’editore della rivista di settore Bioelettromagnetics, da parte di due ricercatori europei, Örjan Hallberg e Gerd Oberfeld, dal titolo: “Will we all become electrosensitive?” (Diventeremo tutti elettrosensibili?). Se cercate online, la trovate con un clic e potrete mettervi lì, con della pazienza e il translator, a leggerla.

Fin qui, spero, tutto chiaro.

A me perlomeno – quando uscivo, col taccuino rosso e delle registrazioni vocali da 68 minuti l’una, da alcuni studi medici romani, e poi dalla sede del CNR di Bologna, gagliardo e consapevole – tutto questo era diventato chiaro, appunto, lapalissiano.

Eppure…

Era la fine di un’estate torrida, io e Claudia ci muovevamo spediti fra diverse regioni d’Italia in pochi giorni, ascoltavamo playlist indie in macchina, il cruscotto era pieno di cavetti, adattatori, cuffie, i-pod, ci sentivamo appesi ai fili, forse un po’ in colpa, forse un po’ schiavi, forse un po’ inermi, e ricordo i panorami boschivi del Trentino, un pomeriggio di un cielo scaraventato d’azzurro e la voce di Tommaso Paradiso quando era ancora nei The giornalisti che cantava un refrain di cui sbaglio sempre le parole.

Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.

Un bilocale asettico appena fuori dal centro abitato di un paesino pedemontano, arredato da una cavillosa serie di pannelli fai-da-te, appiccicatialle persiane della finestra di camera che si affaccia su un giardinetto ben curato. Tute scure fatte con tessuto schermante, cavi isolanti di 6 metri per il telefono fisso, scarpe avvolte nel cellofan, prototipi di apparecchi per l’isolamento di laptop e schermi tv, letti imbottiti, pareti oscurate, prese elettriche coperte.

Ricordo, fra il malessere e il silenzio del suo appartamento al piano-terra in zona Garbatella, a Roma, chiusa nell’ombra delle monumentali costruzioni da working-class del rione popolare sulla via Ostiense, la storia di una donna che non dormiva da nove anni: dieci piani di palazzo fra antenne, onde, flussi invisibili che la lasciavano ad occhi aperti, in veglia, con interminabili cefalee.
Diceva che per trovare pace doveva rifugiarsi, ogni week-end, nella casa del suo compagno, in Umbria: pensavo al suo esodo del venerdì sera, me la immaginavo calcolare minuziosamente i tempi per stare in auto il minor tempo possibile, arrivare in quel luogo ameno nel verde, abbracciare l’uomo e sdraiarsi finalmente in silenzio, massaggiandosi le tempie.

Ricordo la storia di un’anziana coppia dell’alto Veneto, lei premurosa e tenace nel supportare quell’apparente incomprensibile disagio del marito, e gli anni passati a dormire in macchina, quando l’uomo, dopo cena, scappava in preda ad una morsa implacabile fra le tempie e la nuca. Il forno a micro-onde, il router che la ragazza del piano di sotto accendeva per scrivere la tesi a tarda notte: ogni dispositivo gli era nocivo. Ascoltavamo in silenzio la storia di lei che d’inverno lo rincorreva sul pianerottolo raccomandandosi di prendere almeno il cappotto. Poi tornava in casa e si metteva a pregare.

Individui, sentinelle, che si tenevano in contatto tra loro alla bell’e meglio, scambiandosi rimedi fai-da-te, elargendosi consigli, dandosi conforto, organizzando gruppi e riunioni.
Una solidarietà fra vite stravolte nelle abitudini, catapultate altrove: ciò che in precedenza era la normalità – un cinema, il teatro, un ristorante, i mezzi pubblici, le scuole – a loro, era diventato alieno, faticoso, straziante.

Si confonde in me l’allora e il presente, ne perdo i confini e prima di continuare a scrivere, guardo le inferriate del mio terratetto nella campagna fiorentina, zona rossa, prendo un respiro, tocco una parete, mi reimmergo in questa storia.

In molti avevano dovuto lasciare il lavoro, o chiedere permessi; altri avevano trovato sollievo solo nell’abbandonare le proprie abitazioni per trasferirsi in luoghi solitari, boschivi, più riparati dalle onde di antenne e ripetitori.
Scelte radicali, economicamente non accessibili a tutti, complicate da un punto di vista relazionale e affettivo.

Ricordo bene soprattutto la storia di Mattia, che in realtà non si chiama Mattia ma lui preferisce mantenere l’anonimato perché è giovane, ha una brillante carriera davanti, nel ramo dell’ingegneria, e vuole tenere il suo volto e le generalità lontane da un disagio che è, comunque, sociale.

Già, perché il problema ora è come calare l’elettrosensibilità all’interno della società tutta, che è come riflettere sul valore e sull’essenza di una malattia, su quando la si può definire come tale, e cosa succede in seguito.

Con una Risoluzione del 2009 (art.28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità, al pari di quanto avvenuto in Svezia, per garantire adeguata protezione e pari opportunità. Al contrario, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha riconosciuto l’EHS come entità nosologica (leggi: malattia): e questo impedisce la realizzazione di percorsi diagnostico/terapeutici declinabili dai sistemi sanitari degli stati afferenti. Di conseguenza, c’è una certa fascia nascosta della popolazione – la stessa del forno e dell’antenna dietro al capanno dello zio Luciano per intendersi – che può sentirsi priva di assistenza sanitaria adeguata e il cui malessere ricade sotto la parola ombrello di effetto nocebo, al cui sviluppo concorrono caratteristiche individuali ed influenze esterne, o alla generica definizione di “intolleranza ambientale idiopatica” attribuita ai campi elettromagnetici e caratterizzata da sintomi aspecifici, non riconducibili ad alterazioni organiche, ovvero non spiegati dal punto di vista medico.

Secondo Paolo Orio, Presidente dell’Associazione Italiana Elettrosensibili: «Bisognerebbe attuare dei corsi di aggiornamento in accordo con il Ministero della Salute per tutti gli ordini dei medici, con particolare attenzione per i medici di base, i pediatri, gli otorini, i neurologi, gli allergologi. Solo in questo modo riusciremo a fornire informazioni preziose finalizzate alla formazione della classe medica per affrontare con tutti gli strumenti possibili questa malattia ambientale. Bisogna ripartire dall’ABC. Cos’è una radiazione elettromagnetica, come interagisce con la materia vivente, che tipo di ricadute biologico/sanitarie a breve e lungo termine possono verificarsi, come posso diagnosticare ed approcciare dei percorsi di cura e prevenzione? È un lavoro enorme ma non più differibile».

Le malattie ambientali, dunque, come necessaria fonte da indagare, oggi più che mai. Attraverso, ad esempio, l’istituzione di almeno una struttura sull’intero territorio nazionale dove fare ricerca e accogliere chi soffre, come auspicava il professor Giuseppe Genovesi, pioniere della “questione elettrosensibile”, vero e proprio punto di riferimento per moltissimi pazienti, quando, prima della sua scomparsa, nel gennaio 2018, nel suo studio di Roma lo intervistai per un’ora intera e alla fine, da sprovveduto e curioso, gli domandai «Che cosa servirebbe ora, secondo lei?». «Più studi, e più attenzione» disse.
Genovesi mi parlava delle sue ricerche, provava a spiegarmi in maniera chiara ma approfondita la correlazione tra flussi di calcio e campi elettromagnetici noti, come il WiFi, prendevo appunti, registravo note audio. I sintomi delle persone affette da Elettrosensibilità possono coinvolgere, a differenti livelli e gravità, il sistema nervoso, quello cardiovascolare, respiratorio, l’apparato scheletrico, il sistema visivo, acustico, olfattivo o digestivo, mi diceva.

Sapevo che già negli anni ’60 del secolo scorso, in alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica fu introdotta come patologia la “malattia da onde radio”, e che nel 2011, anche sulla base degli studi del Dott. Lennart Hardell, lo IARC (Agenzia internazionale di ricerca sul cancro), facente parte dell’OMS, ha classificato i campi elettromagnetici da radiofrequenza come “possibili cancerogeni” per l’uomo; ma la situazione generale degli studi, oltre i confini del nostro paese, risulta comunque piuttosto vaga. Nel maggio del 2017 una mozione del senato belga promuoveva un celere riconoscimento dell’elettrosensibilità, il governo svedese e canadese hanno riconosciuto il disturbo come causa di invalidità funzionale, garantendo una serie di tutele e diritti, inerenti soprattutto all’ambito lavorativo, che permettono a chi ne soffre di svolgere in autonomia le proprie funzioni mantenendo uno stile di vita salubre e operativo.
Per il resto, poco altro.

Mattia mi è venuto incontro con un piumino nero lungo fino ai piedi. Ci siamo dati appuntamento in un bar del centro di Bergamo.

Lui ha scelto di convivere pacatamente con l’elettrosensibilità, guardando negli occhi la diffidenza altrui, persino quella degli amici, spesso restii a credergli. In mezzo a un concerto di tazzine e bicchieri tintinnanti, mi ha raccontato di quando per la prima volta si rese conto di avere un problema: aveva da poco dato un esame all’università, e una volta rientrato a casa fu colpito da una violenta serie di vertigini. Conosceva i sintomi dell’EHS perché dello stesso disturbo, in maniera molto aggressiva, soffriva da tempo anche la madre.

Dopo aver compiuto una serie di accertamenti clinici, seppe che il suo stato fisico non era affatto e in nulla compromesso: fu un coinquilino a chiedergli, nei discorsi che si fanno quando ci si incrocia fra la cucina e la camera, se si era accorto dei ripetitori che avevano da poco installato dietro i giardinetti del loro palazzo.

Mattia ebbe un sussulto. Da quel giorno cambiarono molte cose nella sua vita: certe notti metteva il materasso in salotto per allontanarsi il più possibile dalle onde, quando cercava nuove case in affitto, guardava più che altro quelle nei centri storici, con mura vecchie, spesse, come quella in cui abita oggi, con la fidanzata – comprensiva e supportante fin dal principio – , nella Città Alta di Bergamo, ebbe la fortuna di essere assunto in una grande azienda che usa la connessione via cavo e non il WiFi.

«Una benedizione…finché durerà». Sorrideva Mattia, mentre annotavo la sua storia. La stesse due parole che avevano suggellato un altro saluto, questa volta sulle scale di una bifamiliare nel vicentino: una ragazza dai capelli lunghi, color mogano, che sorrideva mentre le auguravo il meglio e mi ricordava di leggere tanti articoli che durante l’intervista aveva citato. Finché durerà.

Allo stesso modo – da dietro una ringhiera appena riverniciata di una villetta anni ’70 della bassa veronese – un’anziana signora che ci lasciava dei dolcetti fatti in casa, sospirava per la salute del marito, si affidava alle preghiere e in dialetto sussurrava, appunto, finché la dura.

La vita di Mattia, oggi, è un groviglio di accortezze, giorni buoni e altri meno, in compagnia di leggeri cerchi alla testa, sporadicamente riesce anche a usare WhatsApp. Come immagine del profilo ha una foto in primo piano davanti a un lago immerso nel verde. Indossa un cappello natalizio, lo sguardo consapevole dietro gli occhiali da vista quadrati e un sorriso coriaceo.

Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene. Un pensiero pericoloso. E scivoloso, se mai dovessi trovarti a chiedere allo zio Luciano di spegnere cortesemente i dati o di farla finita di giocare a ruzzle perché si, insomma, sul serio… mi fa soffrire. Anche se non si vede.

…Comunque, in grazia ai santi, la mia amica Susi alla fine i capelli non se li rasò mai.
Io avevo trovato il coraggio di dirle quello che pensavo, senza filtri, perché le volevo bene. Poi a diciassette anni ci perdemmo di vista e – secondo le ultime notizie che ho di lei – vive a Marsiglia, ha un pavone domestico e un sacco di tatuaggi sulle dita.

Le prime cose sull’elettrosensibilità le ho scritte direttamente in auto, sulle note del mio smartphone, mentre Claudia guidava. Era la fine dell’estate e noi attraversavamo il nostro paese contraddittorio, si ascoltava Tommaso Paradiso, forse era meglio non farsi un’opinione troppo in fretta, non parteggiare, e insomma si esorcizzava un po’ la solitudine e la disperazione di quei racconti.

Braccialetto antistatico che consente di scaricare a terra l’energia elettrostatica del proprio corpo durante l’utilizzo di dispositivi elettronici.
Cristina, affetta da ES e MCS, indossa i tessuti schermanti per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.
Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico.
Erika, 53 anni, indossa gli abiti schermanti che usa per uscire.
Le persone elettrosensibili sono spesso costrette a proteggere le loro case con pannelli di alluminio attaccati alle persiane.
Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.
Telefono fisso dotato di un cavo di 6 m per consentire a una persona elettrosensibile di stare al telefono.
Luisa, 50 anni, ritratta nel suo bagno dove ha costruito una sauna fai-da-te per ripulirsi dalle tossine.
Con una Risoluzione del 2009 (art. 28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità.
Scarpe avvolte nella pellicola per coprire l’odore della pelle. Le tracce di agenti chimici sugli oggetti possono essere molto fastidiose per le persone affette da Sensibilità Chimica Multipla.
Alessandro, ingegnere di 28 anni, davanti al muro della sua camera da letto coperto da alluminio per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.
Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene.
Un’antenna di Roma costruita con le sembianze di un albero.

Chi era lui? Era Edmond Dantès, Ed era mio padre. E mia madre, mio fratello, un mio amico. Era lei, ero io, era tutti noi.”

Mi ricordo che quando vidi per la prima volta, al cinema, V per Vendetta e sul finale – mentre esplodono torri e cattedrali – sentii pronunciare le parole di cui sopra, pensai due cose, un po’ sconnesse fra loro: che dovevo fermare la mia amica Susi – che pesava più di me e sapeva sempre di naftalina – da quell’idea che le era venuta in mente Mi raserò i capelli a zero tanto se ci sta bene quella tipa nel film ci sto bene pure io; e che il mondo iniziava a farmi paura. Sinapsi un po’ sconnesse.
Era il 2006, ci stava che Natalie Portman fosse ancora “quella tipa”. Non so.

Una dozzina di anni dopo, tra il 2017 e il 2019, ho seguito l’amica e collega Claudia Gori in un lungo caparbio viaggio dentro al tema dell’elettrosensibilità.
Chilometri e chilometri in giro per l’Italia, cercare su internet l’indirizzo mail del Ministero della Salute, intervistare una persona schermata dietro un paravento di protezioni e pannelli, tenere la modalità aereo sempre On, lasciare il pc e altri device in auto, conoscere persone che vivono senza telefono cellulare.

Braccialetto antistatico che consente di scaricare a terra l’energia elettrostatica del proprio corpo durante l’utilizzo di dispositivi elettronici.

La questione dell’elettrosensibilità, ad oggi, risulta spinosa per moltissimi aspetti: definita come “reazione organica ai campi elettromagnetici” (non si tratta soltanto di basse frequenza, generate principalmente da elettrodomestici e linee elettriche, ma anche di campi ad alta frequenza, prodotti soprattutto dalle tecnologie wireless e dai ripetitori radiotelevisivi), la partita dell’EHS (Electromagnetic Hypersensitivity Syndrome) si gioca sugli effetti non-termici dell’inquinamento da onde ad alta frequenza, che avvengono senza un apprezzabile riscaldamento cellulare, laddove la materia vivente reagisce non alla potenza del segnale ma al segnale stesso.

Cristina, affetta da ES e MCS, indossa i tessuti schermanti per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.

Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico. Più specificamente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel workshop sull’elettrosensibilità che si tenne a Praga nel 2004, indicò che il 2/3% della popolazione mondiale si attribuiva disturbi sanitari in esposizione a radiazioni elettromagnetiche sia di alta che di bassa frequenza. Molto suggestiva al riguardo fu una lettera all’editore della rivista di settore Bioelettromagnetics, da parte di due ricercatori europei, Örjan Hallberg e Gerd Oberfeld, dal titolo: “Will we all become electrosensitive?” (Diventeremo tutti elettrosensibili?). Se cercate online, la trovate con un clic e potrete mettervi lì, con della pazienza e il translator, a leggerla.

Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico.

Fin qui, spero, tutto chiaro.

A me perlomeno – quando uscivo, col taccuino rosso e delle registrazioni vocali da 68 minuti l’una, da alcuni studi medici romani, e poi dalla sede del CNR di Bologna, gagliardo e consapevole – tutto questo era diventato chiaro, appunto, lapalissiano.

Eppure…

Era la fine di un’estate torrida, io e Claudia ci muovevamo spediti fra diverse regioni d’Italia in pochi giorni, ascoltavamo playlist indie in macchina, il cruscotto era pieno di cavetti, adattatori, cuffie, i-pod, ci sentivamo appesi ai fili, forse un po’ in colpa, forse un po’ schiavi, forse un po’ inermi, e ricordo i panorami boschivi del Trentino, un pomeriggio di un cielo scaraventato d’azzurro e la voce di Tommaso Paradiso quando era ancora nei The giornalisti che cantava un refrain di cui sbaglio sempre le parole.

Erika, 53 anni, indossa gli abiti schermanti che usa per uscire.

Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.

Un bilocale asettico appena fuori dal centro abitato di un paesino pedemontano, arredato da una cavillosa serie di pannelli fai-da-te, appiccicatialle persiane della finestra di camera che si affaccia su un giardinetto ben curato. Tute scure fatte con tessuto schermante, cavi isolanti di 6 metri per il telefono fisso, scarpe avvolte nel cellofan, prototipi di apparecchi per l’isolamento di laptop e schermi tv, letti imbottiti, pareti oscurate, prese elettriche coperte.

Ricordo, fra il malessere e il silenzio del suo appartamento al piano-terra in zona Garbatella, a Roma, chiusa nell’ombra delle monumentali costruzioni da working-class del rione popolare sulla via Ostiense, la storia di una donna che non dormiva da nove anni: dieci piani di palazzo fra antenne, onde, flussi invisibili che la lasciavano ad occhi aperti, in veglia, con interminabili cefalee.
Diceva che per trovare pace doveva rifugiarsi, ogni week-end, nella casa del suo compagno, in Umbria: pensavo al suo esodo del venerdì sera, me la immaginavo calcolare minuziosamente i tempi per stare in auto il minor tempo possibile, arrivare in quel luogo ameno nel verde, abbracciare l’uomo e sdraiarsi finalmente in silenzio, massaggiandosi le tempie.

Le persone elettrosensibili sono spesso costrette a proteggere le loro case con pannelli di alluminio attaccati alle persiane.

Ricordo la storia di un’anziana coppia dell’alto Veneto, lei premurosa e tenace nel supportare quell’apparente incomprensibile disagio del marito, e gli anni passati a dormire in macchina, quando l’uomo, dopo cena, scappava in preda ad una morsa implacabile fra le tempie e la nuca. Il forno a micro-onde, il router che la ragazza del piano di sotto accendeva per scrivere la tesi a tarda notte: ogni dispositivo gli era nocivo. Ascoltavamo in silenzio la storia di lei che d’inverno lo rincorreva sul pianerottolo raccomandandosi di prendere almeno il cappotto. Poi tornava in casa e si metteva a pregare.

Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.

Individui, sentinelle, che si tenevano in contatto tra loro alla bell’e meglio, scambiandosi rimedi fai-da-te, elargendosi consigli, dandosi conforto, organizzando gruppi e riunioni.
Una solidarietà fra vite stravolte nelle abitudini, catapultate altrove: ciò che in precedenza era la normalità – un cinema, il teatro, un ristorante, i mezzi pubblici, le scuole – a loro, era diventato alieno, faticoso, straziante.

Si confonde in me l’allora e il presente, ne perdo i confini e prima di continuare a scrivere, guardo le inferriate del mio terratetto nella campagna fiorentina, zona rossa, prendo un respiro, tocco una parete, mi reimmergo in questa storia.

Telefono fisso dotato di un cavo di 6 m per consentire a una persona elettrosensibile di stare al telefono.

In molti avevano dovuto lasciare il lavoro, o chiedere permessi; altri avevano trovato sollievo solo nell’abbandonare le proprie abitazioni per trasferirsi in luoghi solitari, boschivi, più riparati dalle onde di antenne e ripetitori.
Scelte radicali, economicamente non accessibili a tutti, complicate da un punto di vista relazionale e affettivo.

Ricordo bene soprattutto la storia di Mattia, che in realtà non si chiama Mattia ma lui preferisce mantenere l’anonimato perché è giovane, ha una brillante carriera davanti, nel ramo dell’ingegneria, e vuole tenere il suo volto e le generalità lontane da un disagio che è, comunque, sociale.

Già, perché il problema ora è come calare l’elettrosensibilità all’interno della società tutta, che è come riflettere sul valore e sull’essenza di una malattia, su quando la si può definire come tale, e cosa succede in seguito.

Luisa, 50 anni, ritratta nel suo bagno dove ha costruito una sauna fai-da-te per ripulirsi dalle tossine.

Con una Risoluzione del 2009 (art.28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità, al pari di quanto avvenuto in Svezia, per garantire adeguata protezione e pari opportunità. Al contrario, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha riconosciuto l’EHS come entità nosologica (leggi: malattia): e questo impedisce la realizzazione di percorsi diagnostico/terapeutici declinabili dai sistemi sanitari degli stati afferenti. Di conseguenza, c’è una certa fascia nascosta della popolazione – la stessa del forno e dell’antenna dietro al capanno dello zio Luciano per intendersi – che può sentirsi priva di assistenza sanitaria adeguata e il cui malessere ricade sotto la parola ombrello di effetto nocebo, al cui sviluppo concorrono caratteristiche individuali ed influenze esterne, o alla generica definizione di “intolleranza ambientale idiopatica” attribuita ai campi elettromagnetici e caratterizzata da sintomi aspecifici, non riconducibili ad alterazioni organiche, ovvero non spiegati dal punto di vista medico.

Secondo Paolo Orio, Presidente dell’Associazione Italiana Elettrosensibili: «Bisognerebbe attuare dei corsi di aggiornamento in accordo con il Ministero della Salute per tutti gli ordini dei medici, con particolare attenzione per i medici di base, i pediatri, gli otorini, i neurologi, gli allergologi. Solo in questo modo riusciremo a fornire informazioni preziose finalizzate alla formazione della classe medica per affrontare con tutti gli strumenti possibili questa malattia ambientale. Bisogna ripartire dall’ABC. Cos’è una radiazione elettromagnetica, come interagisce con la materia vivente, che tipo di ricadute biologico/sanitarie a breve e lungo termine possono verificarsi, come posso diagnosticare ed approcciare dei percorsi di cura e prevenzione? È un lavoro enorme ma non più differibile».

Con una Risoluzione del 2009 (art. 28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità.

Le malattie ambientali, dunque, come necessaria fonte da indagare, oggi più che mai. Attraverso, ad esempio, l’istituzione di almeno una struttura sull’intero territorio nazionale dove fare ricerca e accogliere chi soffre, come auspicava il professor Giuseppe Genovesi, pioniere della “questione elettrosensibile”, vero e proprio punto di riferimento per moltissimi pazienti, quando, prima della sua scomparsa, nel gennaio 2018, nel suo studio di Roma lo intervistai per un’ora intera e alla fine, da sprovveduto e curioso, gli domandai «Che cosa servirebbe ora, secondo lei?». «Più studi, e più attenzione» disse.
Genovesi mi parlava delle sue ricerche, provava a spiegarmi in maniera chiara ma approfondita la correlazione tra flussi di calcio e campi elettromagnetici noti, come il WiFi, prendevo appunti, registravo note audio. I sintomi delle persone affette da Elettrosensibilità possono coinvolgere, a differenti livelli e gravità, il sistema nervoso, quello cardiovascolare, respiratorio, l’apparato scheletrico, il sistema visivo, acustico, olfattivo o digestivo, mi diceva.

Scarpe avvolte nella pellicola per coprire l’odore della pelle. Le tracce di agenti chimici sugli oggetti possono essere molto fastidiose per le persone affette da Sensibilità Chimica Multipla.

Sapevo che già negli anni ’60 del secolo scorso, in alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica fu introdotta come patologia la “malattia da onde radio”, e che nel 2011, anche sulla base degli studi del Dott. Lennart Hardell, lo IARC (Agenzia internazionale di ricerca sul cancro), facente parte dell’OMS, ha classificato i campi elettromagnetici da radiofrequenza come “possibili cancerogeni” per l’uomo; ma la situazione generale degli studi, oltre i confini del nostro paese, risulta comunque piuttosto vaga. Nel maggio del 2017 una mozione del senato belga promuoveva un celere riconoscimento dell’elettrosensibilità, il governo svedese e canadese hanno riconosciuto il disturbo come causa di invalidità funzionale, garantendo una serie di tutele e diritti, inerenti soprattutto all’ambito lavorativo, che permettono a chi ne soffre di svolgere in autonomia le proprie funzioni mantenendo uno stile di vita salubre e operativo.
Per il resto, poco altro.

Mattia mi è venuto incontro con un piumino nero lungo fino ai piedi. Ci siamo dati appuntamento in un bar del centro di Bergamo.

Lui ha scelto di convivere pacatamente con l’elettrosensibilità, guardando negli occhi la diffidenza altrui, persino quella degli amici, spesso restii a credergli. In mezzo a un concerto di tazzine e bicchieri tintinnanti, mi ha raccontato di quando per la prima volta si rese conto di avere un problema: aveva da poco dato un esame all’università, e una volta rientrato a casa fu colpito da una violenta serie di vertigini. Conosceva i sintomi dell’EHS perché dello stesso disturbo, in maniera molto aggressiva, soffriva da tempo anche la madre.

Alessandro, ingegnere di 28 anni, davanti al muro della sua camera da letto coperto da alluminio per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.

Dopo aver compiuto una serie di accertamenti clinici, seppe che il suo stato fisico non era affatto e in nulla compromesso: fu un coinquilino a chiedergli, nei discorsi che si fanno quando ci si incrocia fra la cucina e la camera, se si era accorto dei ripetitori che avevano da poco installato dietro i giardinetti del loro palazzo.

Mattia ebbe un sussulto. Da quel giorno cambiarono molte cose nella sua vita: certe notti metteva il materasso in salotto per allontanarsi il più possibile dalle onde, quando cercava nuove case in affitto, guardava più che altro quelle nei centri storici, con mura vecchie, spesse, come quella in cui abita oggi, con la fidanzata – comprensiva e supportante fin dal principio – , nella Città Alta di Bergamo, ebbe la fortuna di essere assunto in una grande azienda che usa la connessione via cavo e non il WiFi.

Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene.

«Una benedizione…finché durerà». Sorrideva Mattia, mentre annotavo la sua storia. La stesse due parole che avevano suggellato un altro saluto, questa volta sulle scale di una bifamiliare nel vicentino: una ragazza dai capelli lunghi, color mogano, che sorrideva mentre le auguravo il meglio e mi ricordava di leggere tanti articoli che durante l’intervista aveva citato. Finché durerà.

Allo stesso modo – da dietro una ringhiera appena riverniciata di una villetta anni ’70 della bassa veronese – un’anziana signora che ci lasciava dei dolcetti fatti in casa, sospirava per la salute del marito, si affidava alle preghiere e in dialetto sussurrava, appunto, finché la dura.

La vita di Mattia, oggi, è un groviglio di accortezze, giorni buoni e altri meno, in compagnia di leggeri cerchi alla testa, sporadicamente riesce anche a usare WhatsApp. Come immagine del profilo ha una foto in primo piano davanti a un lago immerso nel verde. Indossa un cappello natalizio, lo sguardo consapevole dietro gli occhiali da vista quadrati e un sorriso coriaceo.

Un’antenna di Roma costruita con le sembianze di un albero.

Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene. Un pensiero pericoloso. E scivoloso, se mai dovessi trovarti a chiedere allo zio Luciano di spegnere cortesemente i dati o di farla finita di giocare a ruzzle perché si, insomma, sul serio… mi fa soffrire. Anche se non si vede.

…Comunque, in grazia ai santi, la mia amica Susi alla fine i capelli non se li rasò mai.
Io avevo trovato il coraggio di dirle quello che pensavo, senza filtri, perché le volevo bene. Poi a diciassette anni ci perdemmo di vista e – secondo le ultime notizie che ho di lei – vive a Marsiglia, ha un pavone domestico e un sacco di tatuaggi sulle dita.

Le prime cose sull’elettrosensibilità le ho scritte direttamente in auto, sulle note del mio smartphone, mentre Claudia guidava. Era la fine dell’estate e noi attraversavamo il nostro paese contraddittorio, si ascoltava Tommaso Paradiso, forse era meglio non farsi un’opinione troppo in fretta, non parteggiare, e insomma si esorcizzava un po’ la solitudine e la disperazione di quei racconti.