Dicembre è il mese in cui spesso cade Hanukkah, la festa delle luci.
Una festa che dura otto giorni e che ti ricorda di essere fedele a te stesso, perché se non ti tradisci nulla ti fermerà e la tua luce brillerà a lungo. È la festa del calendario ebraico che sento più vicina. Quando vivevo a Roma, il primo giorno di Hannukah andavo in piazza Barberini, dove troneggiava un candelabro gigante, per assistere all’accensione della prima candela.
Il dicembre 2020 mi vede in una nuova città nel pieno di una pandemia che ha condizionato le abitudini di miliardi di persone. Mi sono trasferita a Bologna nel marzo 2020. Chiusa in una casa di una città che non conoscevo, ho visto per la prima volta l’aurora boreale. Mi ero appena svegliata e osservavo dal cellulare una telecamera fissa a Churchill, una città canadese affacciata nella baia di Hudson. Quando sono iniziati a comparire i bagliori verdi è stato sorprendente, non così magico come lo avevo immaginato; la telecamera puntava a una porzione di cielo fra due piloni, un’inquadratura sbilenca abbastanza buttata via e il verde tipico delle luci d’inverno appariva acido e ferocemente irreale. Era l’alba del primo dicembre; dopo lo stupore mi sono accorta di aver premuto un tasto inavvertitamente e di aver quindi assistito a un evento registrato avvenuto chissà quando. Gli eventi in differita non mi piacciono.
In quelle settimane smorzava la mia solitudine una serie di eventi sul ruolo delle donne nell’ebraismo condotti da Raffaella Di Castro, una mia vecchia conoscenza romana, l’avevo conosciuta durante una cena nel dicembre 2011, a casa di Nathalie, una cantante israeliana. Proprio mentre ci apprestavamo a mangiare, Nathalie si ricordò che in quei giorni ricorreva Hanukkah e cantò una bellissima canzone, che conoscevo solo in parte, senza saperne riprodurre le parole.
Nove anni dopo, quella mattina del primo dicembre 2020, iniziata con un misto di meraviglia e delusione, Raffaella intervistava Miriam Camerini, una giovane donna italo-israeliana che sta studiando per diventare rabbina. «Se si trova una porta aperta, che è sempre stata chiusa, perché non varcarla?», diceva Miriam commentando la sua decisione di intraprendere gli studi per diventare una guida spirituale, descrivendo la posizione tradizionale della donna all’interno dell’ebraismo senza recriminazioni e senza accondiscendenza. «Una donna nella religione ebraica non è tenuta a rispettare le regole che deve seguire un uomo, questo perché è considerata non pienamente padrona del proprio tempo. Tradizionalmente, infatti, il suo ruolo all’interno della famiglia mal si concilierebbe con gli innumerevoli obblighi religiosi e con uno studio intenso».
Il tempo, infatti, e la sua organizzazione costituiscono la struttura portante attorno alla quale si sviluppa l’intera esistenza ebraica. Vivere l’ebraismo richiede una forte attenzione a momenti precisi del giorno e dell’anno. Basta pensare allo Shabbat, la ricorrenza settimanale che proibisce agli ebrei ogni azione creatrice.
Miriam mi incuriosisce moltissimo, è diretta, quasi brusca, sorridente, volitiva. Lascio un messaggio come commento al video in cui esterno il desiderio di parlarle, mi risponde subito invitandomi a contattarla. Al telefono mi appare sospettosa, mi dice con chiarezza: «Non mi piacciono i titoli che recitano la prima rabbina in Italia». Durante la telefonata non riesco a presentarmi, forse da qui deriva la sua diffidenza; come si fa a definire una persona come me che non è un maschio e non è una femmina, non è un giornalista ma non è un non giornalista? Rimango quindi nel vago, in una posizione scomoda più per l’interlocutore che per me. Miriam, però, non si scompone e nonostante dopo il primo minuto io sia diventata quasi disfasica, accetta di farsi conoscere.
Mi racconta come, in realtà, non sappia dove la porterà il percorso che ha intrapreso, poiché la scuola che ha deciso di seguire rappresenta un unicum nel panorama dell’ebraismo ortodosso. Inoltre, le sinagoghe ortodosse disposte ad assumere rabbini donna sono praticamente inesistenti.
Usare l’aggettivo “ortodosso” è importante. Mentre l’ebraismo dall’esterno appare come un blocco unico, un monolite, a guardarlo da vicino, da dentro, è un insieme complesso e sfaccettato di punti di vista, scuole e orientamenti. Un po’ come il frutto di melograno, dove convivono la molteplicità dei semi con l’unicità del frutto. Nell’ebraismo riformato le rabbine donne sono ormai comuni, mentre in quello ortodosso no. La religione ebraica, come tutte le religioni e come tutti gli organi di potere, ha dato solo recentemente spazio alle donne, Miriam suggerisce di analizzare la situazione del rabbinato contestualizzandola e vedendola come lo specchio dei cambiamenti che stanno interessando la nostra società per intero. «Siamo in un’epoca in cui le donne studiano, è normale che vogliano studiare anche Torah».
Prima di terminare la chiamata, fissiamo un incontro telematico per il tre marzo, subito dopo il Purim, la festività del calendario ebraico che ti insegna che la sorte può essere rovesciata; che qualcosa di terribile si può convertire in qualcos’altro. Il giorno in cui è nata Miriam era proprio la notte del Purim.
Pochi giorni dopo le invio un’email in cui elenco gli argomenti che mi piacerebbe toccare. Mi impegno moltissimo nella stesura, ho bisogno di riscattare la telefonata incerta. Alla mia email estremamente formale, Miriam risponde con informalità ed entusiasmo, spiazzandomi.
Le settimane che precedono il nostro incontro cerco materiale su di lei in rete e scopro che ha diretto spettacoli teatrali, che collabora con il Centro culturale Primo Levi di Genova per il quale produce un video alla settimana in cui affronta temi artistici, culturali, religiosi, che scrive su un mensile delle edizioni San Paolo.
Miriam quindi è una regista che sta diventando rabbina, una ebrea ortodossa che scrive su un giornale cattolico.
Il tre marzo preparo la mia postazione, mi sistemo sul tavolo della sala dove solitamente lavoro, cercando un’inquadratura pulita per il mio incontro virtuale. Faccio anche una doccia. Alle due sono già davanti al computer; l’appuntamento è alle due e mezza. Mentre rileggo le mie domande e qualche appunto, Miriam mi chiama al telefono, con circa venti minuti di anticipo. È amichevole, allegra, disponibile. Il nostro incontro Skype è saltato. È a Parigi, si è attardata dall’altra parte della città e non ha fatto in tempo a raggiungere casa.
Ha appena intervistato Delphine Horvilleur, una rabbina francese della corrente progressista, e l’intervista le ha preso molto più tempo del previsto. Mi propone di optare per una telefonata. Quindi cerca un posto tranquillo da cui poter parlare e opta per i Giardini del Lussemburgo.
Servendomi di Google Street View entro nei Giardini da Boulevard Saint Michel e mi ricordo all’improvviso che anni prima proprio da quelle parti mi cadde in testa il riccio di una castagna. A Parigi ho vissuto per qualche mese e di quei giorni mi torna alla mente soprattutto una piscina Art Nouveau con una vasca di acqua calda e il desiderio di imparare a nuotare in stile libero. I miei amici francesi nuotavano tutti molto bene perché il nuoto è inserito nei programmi ministeriali come materia d’insegnamento.
Nei Giardini del Lussemburgo, però, credo di non esserci mai entrata con il mio corpo. Camminandoci, grazie a Street View, scopro un posto altezzoso, curato, con l’erba corta e i cespugli ordinati, di quei giardini dove le piante non coprono lo sguardo, ma lo sguardo spazia lontano e controlla tutto. Ecco le sedie verdi in ferro battuto. Forse Miriam è seduta su una di queste mentre parla con me, forse vicino al laghetto, o accanto a una delle tante statue, chissà se vede l’imponente palazzo che ospita il Senato o se si è invece rifugiata fra gli alberi. Spostandomi con il mouse mi accorgo che intorno al nucleo centrale ordinato ci sono file di alberi che danno al posto un’aria più selvaggia e meno compassata. Decido che Miriam mentre parlava con me doveva essere proprio tra quegli alberi.
Inizialmente discutiamo di mizvot, ossia di regole. Miriam ha lavorato con molte persone non religiose, mi chiedo come abbia fatto – soprattutto all’inizio, quando non era lei a dirigere, quando era dipendente – a rispettare tutte le regole dell’ebraismo. “Avete troppe feste” è una frase che ho sentito dire spesso ai datori di lavoro.
«Questo all’inizio mi ha preoccupata» mi confessa Miriam. «Ho temuto a lungo che osservare le regole mi avrebbe tenuto lontano dal teatro, ma non è stato così. Quando avevo ventun anni ero assistente alla regia di uno spettacolo di Cesare Lievi, all’Opera di Zurigo. Avevamo la prima in autunno e io non sapevo come dirgli che oltre lo Shabbat avevo tantissimi giorni in cui non potevo lavorare. Quando glielo dissi mi rispose: Ma io lo so benissimo, in questo periodo c’è Rosh Hashana (capodanno ebraico), Kippur, Sukkot. Ho capito che quando le persone hanno il coraggio di uscire allo scoperto e chiedere, ti viene detto di sì. È quello che è capitato alla regina Ester, prendere consapevolezza di se stessa e chiedere».
Ester è la protagonista della festa del Purim. Secondo le Scritture, era stata scelta come sposa dal re persiano Assuero, ignaro della sua appartenenza al popolo ebraico. Il più alto consigliere del re, Amman, era un uomo dominato dal culto di sé e non sopportava che gli ebrei che vivevano nel suo regno non si inchinassero al suo passaggio. Istigò così il re a pianificare un eccidio ai danni del popolo di Abramo. Ester, che fino a quel momento aveva taciuto le sue origini, decise di affrontare il marito intercedendo per la sua gente, e rischiando così la sua stessa vita. Era infatti proibito a tutti, anche alla regina, comparire davanti al re senza essere stati convocati; la punizione per una simile intrusione era la condanna a morte. Nel vedere la regina presentarsi al suo cospetto, Assuero reagì con comprensione, dandole ascolto. In questo modo il piano di Amman fu sventato e il popolo ebraico si salvò.
Ester quindi è colei che fa in modo che la sorte possa essere rovesciata a proprio vantaggio e Miriam mette l’accento sull’azione che rende questo possibile: l’uscire allo scoperto, chiedere.
Mentre parliamo, Miriam mi dice di avere un’urgenza e interrompiamo la conversazione. Mi richiama poco dopo, aveva notato una persona con qualche difficoltà motoria nel parco che le sembrava aver problemi nel maneggiare il cellulare e lei voleva assicurarsi che non ci fosse bisogno di lei.
La nostra conversazione riprende dove era rimasta, sull’importanza del prendere consapevolezza dei propri bisogni, del saper chiedere e del sapere cosa chiedere. «Proprio questa è stata l’azione che ha permesso la nascita del beit-midrash Har’El, la scuola di rabbinato che sto seguendo a Gerusalemme. C’era una persona che voleva studiare regolarmente e seriamente alachà, la normativa ebraica, l’applicazione dei precetti. Ha chiesto al rav (rabbino) Herzl Hefter di guidarlo in questo percorso, il rav ha risposto affermativamente, preferendo però creare un gruppo. A quel punto anche alcune donne si sono aggiunte e il rav ha accettato».
Miriam è nata a Gerusalemme, ha la doppia cittadinanza, italiana e israeliana. È venuta a conoscenza del Beit Midrash Har’El grazie a un amico, un ebreo ortodosso, esperto di Islam e di lingua araba, attivista per la pace, residente a Gerusalemme.
«È stato solo durante il primo anno di Università che sono entrata veramente in contatto con il mondo non ebraico, avendo frequentato le scuole dell’obbligo all’interno della comunità. Scelsi il mio percorso: Lettere e Storia del teatro e attraverso quello mi si aprì un nuovo mondo; non solo conobbi persone non ebree, ma per la prima volta ero a contatto con persone che provenivano da tutti i quartieri di Milano e non solo dal centro, dove sono cresciuta. Solo in quel momento capii che non tutti avevano un genitore medico, per esempio. Fu un passaggio fondamentale. Nello stesso tempo, in questo nuovo ambiente variegato io divenni all’improvviso l’ebrea».
Proprio in quegli anni Miriam porta sia la sua ebraicità all’università, sia la “sua università” nella sua comunità, organizzando uno spettacolo teatrale con i suoi compagni di corso che sarà poi finanziato proprio dalla comunità ebraica. Mettere in contatto mondi diversi è un tratto costitutivo del modo di essere ebrea di Miriam. Decisivo nel suo percorso è stato l’autunno del 2017, quando in una settimana si è trovata per ben tre volte a parlare di ebraismo a platee ogni volta diverse: ai cattolici gesuiti nel centro culturale San Fedele, nel centro di Milano; ai musulmani, in un incontro con l’Imam Tchina proprio nei mesi bui in cui l’amministrazione voleva negare la moschea alla comunità islamica; a un’amica ebrea, ex compagna di scuola, che le aveva chiesto aiuto per la stesura di una lezione di Torah.
È in quella settimana che Miriam matura il desiderio di approfondire ulteriormente i suoi studi religiosi, di avere maggiore legittimazione. Nel dicembre di quell’anno è a Gerusalemme per chiedere di essere ammessa nel Beit Midrash Har’El.
La chiacchierata tra noi è intensa, i discorsi si sovrappongono, si intrecciano, ma non si perdono mai. Parliamo della diffidenza che si genera quando si fanno scelte fuori dal comune, della difficoltà che ha avuto in quanto donna a trovare un rabbino che volesse prepararla per l’esame di ammissione alla scuola rabbinica, di classi sociali.
Alcune comunità italiane, pochissime in realtà, l’hanno bandita dalle loro sinagoghe, «È una situazione che ha vissuto anche Delphine Horviller, lei aveva contro soprattutto le donne ortodosse. È difficile uscire dalla situazione di schiavitù, Moshe uscendo dall’Egitto ha dovuto a un certo punto fronteggiare la rabbia degli ebrei stessi». Alla schiavitù purtroppo ci si abitua e una costrizione, spesso, è sentita come una protezione e chi rompe le regole spesso viene vissuto come minaccioso, Miriam però non sembra avere paura. Parliamo di coppie e di amore e finiamo poi per parlare ancora di regole e prassi.
«La prassi la studio e la vivo con libertà. La adatto a me, poi cambia nell’arco degli anni. Le halachot (leggi) sono un’opportunità, forse non importa ad Hashem (D-o) se trasporto di sabato, ma importa a me. Le halachot sono la scala che io creo con D-o».
Dopo due ore di conversazione, durante le quali faccio fatica a prendere gli appunti, Miriam mi dice di essere stanca e mi chiede se possiamo sentirci in un’altra occasione. Il nostro scambio termina su un punto interessante che non riprenderemo più: l’identità di genere. Le chiedo cosa significhi e come vada interpretata secondo lei la legge ebraica: Non sia arnese da uomo indosso a donna, né vesta un uomo abito da donna.
Terminata la conversazione, spengo il telefono per un po’ e resto in camera a guardare le travi del soffitto.
Mi chiedo se Miriam sia o no una voce fuori dal coro, ma mi ha risposto proprio lei qualche ora prima «Tutti ci sentiamo Faust rispetto a qualcosa, per altri invece siamo completamente in un sistema».
L’appuntamento successivo ce lo diamo per il mese di aprile. Per il 19 esattamente, non ci diamo però un orario preciso. Alle otto di sera del 19 di aprile mi dice che è disponibile a parlare.
Preparo la mia postazione velocemente.
Mi sono trasferita da poco e la mia camera da letto è piena di scatoloni, sistemo un cuscino sul pavimento e pongo il computer sul letto, accendo la telecamera per controllare che si veda solo la parete bianca; nel frattempo inizia a diluviare, abito in un sottotetto e temo che la pioggia diventi una colonna sonora invadente. Siamo in primavera, ma a Bologna l’aria è autunnale.
Quando inizia la conversazione di Miriam sento solo la voce profonda e importante, lo schermo resta nero per un po’, poi iniziano ad apparire alternandosi ora un occhio, ora una mano, l’amaca blu sulla quale è sdraiata, una macchia gialla che forse è la sua camicia. È ad Arad, una cittadina nelle zone desertiche del sud di Israele, non lontano dal mar Morto, ospite dei suoi cugini per qualche giorno.
Il contrasto è forte, io sono chiusa in una stanza con un maglione spesso, lei è all’aperto in maniche corte, nel mezzo del nulla, avvolta dalla notte afosa e da un silenzio totale; solo per un attimo, sullo sfondo, mi sembra di intravedere una casa bianca di quelle basse a tetto piano
«Amos Oz ha abitato a lungo qui» mi dice. Di Amos Oz ricordo soprattutto una affermazione: “Scrivo perché le persone che amavo sono già morte. Scrivo perché da bambino avevo molto potere di amare e ora il mio potere di amare sta per morire. Io non voglio morire”.
Sarà il deserto, sarà la notte, ma la conversazione è diversa rispetto a quella parigina, ha tutta un’altra temperatura.
«In Israele mi sento un po’ padrona di casa e sento che non devo sempre volergli bene. I miei hanno avuto entrambi un rapporto intenso con Israele anche se profondamente diverso. Entrambi furono portati qui da un sogno. Mio padre inseguiva l’ideale religioso, per cui Israele era la terra dei precetti; mia madre il sogno socialista dei kibbutz in piena rottura con la borghesia. Si sono sposati nel 1979, nel 1983 sono nata io. Erano gli anni della guerra del Libano. Un trauma. Israele era diventato l’aggressore. Così è cambiato tutto dentro di loro e sono tornati in Italia. La terra promessa per loro doveva essere altro. Io l’ho sentita quella delusione. Non si può vivere di un ideale che ci si è fatti, qualunque realtà sarà sempre meno esaltante di un’idea». Quello di Miriam non è un discorso politico, non è una dissertazione storica, non ha la pretesa della verità, è solo biografia.
Il discorso è mangiato da Israele che come Miriam mi ricorda «è la terra che divora i suoi abitanti» e solo alla fine accenniamo alla sua scuola che finalmente ha ripreso le lezioni de visu dopo la massiccia campagna vaccinale. La sua scuola che sta facendo una rivoluzione senza gridarlo, dove lo studio rabbinico è affrontato tradizionalmente tramite lezioni frontali, ma anche usando il metodo havruta che prevede che i testi vengano affrontati da due studenti insieme. Discutendo, approfondendo e negoziando. Il suo compagno di studi è un cantore che viene dagli Stati Uniti.
Ci salutiamo dopo circa un’ora e mezza di conversazione, ad Arad la notte è ancora più scura e a Bologna ancora piove.
A fine maggio ci sentiamo ancora una volta, siamo su Skype, ma senza telecamera a causa della scarsa connessione. La camera l’accendiamo alla fine velocemente, il tempo di commentare che i suoi capelli sono cambiati, sono molto più chiari e molto belli. Stemperiamo così una telefonata difficile, ma molto emotiva.
Si trovava a Meron durante il pellegrinaggio in cui sono morti 45 Haredim (i cosiddetti ebrei ultra ortodossi) e porta ancora con sé la sensazione di claustrofobia di quella notte. È a Gerusalemme mentre parliamo. C’è la guerra. Questa volta la parola Israele è l’elefante nella stanza. Finiamo, però, per parlarne velocemente e con tristezza, la guerra fa male a tutti. «Non mi definisco una sionista», dice Miriam. Poche parole, che dicono molto. E si finisce a parlare di bundismo, un movimento operaio nato a fine ‘800 in Europa orientale, che incoraggiava gli ebrei a combattere per i propri diritti lì dov’erano, senza spostarsi. «Certo è strano, parlare della Polonia e della Lituania di fine Ottocento; pensarli da qui, dal sogno sionista», commenta Miriam. Parliamo di quello che poteva essere e non è stato, ma anche di quello che non poteva essere e invece fortunatamente è.
Dicembre 2021. È il settimo giorno di Hanukkah quando mi metto alla guida di un’auto che mi è stata prestata per raggiungere di persona Miriam, con la speranza di accendere l’ottavo lume dell’hanukkia (il candelabro a otto braccia che si usa durante questa festività) insieme.
Miriam è nel monastero di Camaldoli, un paesino arroccato tra colline e montagne a est di Arezzo, dove da più di quarant’anni si tengono “I colloqui ebraico-cristiani”, un evento che promuove il dibattito interculturale e consta di laboratori, convegni, spazi di riflessione e di preghiera.
Arrivo poco dopo mezzogiorno e riusciamo a incontrarci solamente verso l’una. Trascorro il tempo nella caffetteria del monastero, un locale spazioso e silenzioso , con tavoli ampi di legno massello scuro; nel tavolo accanto al mio un sacerdote e un ragazzo parlano dell’ultima cena, gli presto un orecchio fingendo distrazione.
L’arrivo di Miriam ha qualcosa che mi ricorda un cartone animato di Myazaki, apre la porta a vetro del bar, ci infila dentro la testa e mi guarda con due occhi giganti, uno sguardo un po’ complice e un sorriso larghissimo che non mi aspettavo.
Nel refettorio servono il pranzo, così mi invita a unirmi a loro.
Vicino e lontana. Da quando l’ho conosciuta Miriam l’ho avvertita in alcuni momenti vicinissima e in altri lontanissima e anche nel momento in cui prendo posto accanto a lei a tavola continuo a sentirla così e proprio così siamo anche posizionate, sono immediatamente alla sua destra ma non così prossima, a causa dei distanziamenti imposti dalla pandemia.
Nel tavolo con noi siedono fra gli altri un ragazzo che ho avuto già occasione di sentire in alcune dirette dell’UCEI (unione delle comunità ebraiche italiane) e un sacerdote.
Si parla di Talmud, di scritture. «Forse ciò che è più importante nell’ebraismo è proprio la continua indagine, il perenne mettere tutto in discussione, ogni trattato del Talmud finisce con il sintagma hadran alakh, di nuovo a te, che dà proprio indicazione chiara di questo spirito ebraico, in cui si è disposti a ritornare su tutto. In cui niente è scritto nella pietra», osserva Miriam. «Dici che si riaprirà la Ghemarà?» scherza il sacerdote. L’atmosfera è rilassata, i discorsi scorrono velocemente, sento di perdere dei passaggi perché non conosco molte delle cose di cui si sta parlando; ma i commensali sono inclusivi, soprattutto la coppia che siede alla mia destra. Finito il pranzo, Miriam mi invita a raggiungere l’eremo passeggiando, ma inizia a piovere e temo il ritorno in auto con il buio e la pioggia. Rinuncio così all’idea di accendere le candele insieme. Prendiamo un caffè al bar e mentre lo sorseggiamo Miriam mi dice «L’Hanukkah è proprio questo, avere un’identità forte da mettere però in contatto con gli altri. È la luce interna che porti fuori. Non è un caso che l’hannukkia vada posta proprio davanti alla finestra. Deve essere vista da tutti. Il contatto non deve far paura, non è una minaccia. Per questo amo trascorrere l’Hanukkah in questo posto. L’Hanukkah è la festa dell’identità e per ironia della sorte è la festa più contaminata. Negli Stati Uniti sono state create parole che la fondono con il natale, Crismukka per esempio. Non ha senso chiudersi, la contaminazione è normale e non costituisce minaccia. Il teatro inizialmente nel Talmud era condannato, era un elemento appartenente ai greci e percepito come completamente estraneo. Invece poi c’è stato modo di riempirlo di altri significati, di appropriarci di questo contenitore, ed è diventato un altro modo per vivere e mostrare l’identità ebraica. Basta pensare che, in Israele, la frase che si dice quando si vuol chiedere un bis al termine di uno spettacolo teatrale o di un concerto è la stessa che abbiamo evocato a pranzo, quella con cui terminano i trattati del Talmud, hadran alakh, ritorneremo». La vita sembra non essere mai estranea ai rovesciamenti.
Miriam paga anche per me mentre ci raggiunge la coppia simpatica dei commensali; sono pronti per la scarpinata verso l’eremo. Io invece sono pronta a rimettermi in viaggio mentre la pioggia si sta trasformando in neve.
Dicembre è il mese in cui spesso cade Hanukkah, la festa delle luci.
Una festa che dura otto giorni e che ti ricorda di essere fedele a te stesso, perché se non ti tradisci nulla ti fermerà e la tua luce brillerà a lungo. È la festa del calendario ebraico che sento più vicina. Quando vivevo a Roma, il primo giorno di Hannukah andavo in piazza Barberini, dove troneggiava un candelabro gigante, per assistere all’accensione della prima candela.
Il dicembre 2020 mi vede in una nuova città nel pieno di una pandemia che ha condizionato le abitudini di miliardi di persone. Mi sono trasferita a Bologna nel marzo 2020. Chiusa in una casa di una città che non conoscevo, ho visto per la prima volta l’aurora boreale. Mi ero appena svegliata e osservavo dal cellulare una telecamera fissa a Churchill, una città canadese affacciata nella baia di Hudson. Quando sono iniziati a comparire i bagliori verdi è stato sorprendente, non così magico come lo avevo immaginato; la telecamera puntava a una porzione di cielo fra due piloni, un’inquadratura sbilenca abbastanza buttata via e il verde tipico delle luci d’inverno appariva acido e ferocemente irreale. Era l’alba del primo dicembre; dopo lo stupore mi sono accorta di aver premuto un tasto inavvertitamente e di aver quindi assistito a un evento registrato avvenuto chissà quando. Gli eventi in differita non mi piacciono.
In quelle settimane smorzava la mia solitudine una serie di eventi sul ruolo delle donne nell’ebraismo condotti da Raffaella Di Castro, una mia vecchia conoscenza romana, l’avevo conosciuta durante una cena nel dicembre 2011, a casa di Nathalie, una cantante israeliana. Proprio mentre ci apprestavamo a mangiare, Nathalie si ricordò che in quei giorni ricorreva Hanukkah e cantò una bellissima canzone, che conoscevo solo in parte, senza saperne riprodurre le parole.
Nove anni dopo, quella mattina del primo dicembre 2020, iniziata con un misto di meraviglia e delusione, Raffaella intervistava Miriam Camerini, una giovane donna italo-israeliana che sta studiando per diventare rabbina. «Se si trova una porta aperta, che è sempre stata chiusa, perché non varcarla?», diceva Miriam commentando la sua decisione di intraprendere gli studi per diventare una guida spirituale, descrivendo la posizione tradizionale della donna all’interno dell’ebraismo senza recriminazioni e senza accondiscendenza. «Una donna nella religione ebraica non è tenuta a rispettare le regole che deve seguire un uomo, questo perché è considerata non pienamente padrona del proprio tempo. Tradizionalmente, infatti, il suo ruolo all’interno della famiglia mal si concilierebbe con gli innumerevoli obblighi religiosi e con uno studio intenso».
Il tempo, infatti, e la sua organizzazione costituiscono la struttura portante attorno alla quale si sviluppa l’intera esistenza ebraica. Vivere l’ebraismo richiede una forte attenzione a momenti precisi del giorno e dell’anno. Basta pensare allo Shabbat, la ricorrenza settimanale che proibisce agli ebrei ogni azione creatrice.
«Se si trova una porta aperta, che è sempre stata chiusa, perché non varcarla?»
Miriam mi incuriosisce moltissimo, è diretta, quasi brusca, sorridente, volitiva. Lascio un messaggio come commento al video in cui esterno il desiderio di parlarle, mi risponde subito invitandomi a contattarla. Al telefono mi appare sospettosa, mi dice con chiarezza: «Non mi piacciono i titoli che recitano la prima rabbina in Italia». Durante la telefonata non riesco a presentarmi, forse da qui deriva la sua diffidenza; come si fa a definire una persona come me che non è un maschio e non è una femmina, non è un giornalista ma non è un non giornalista? Rimango quindi nel vago, in una posizione scomoda più per l’interlocutore che per me. Miriam, però, non si scompone e nonostante dopo il primo minuto io sia diventata quasi disfasica, accetta di farsi conoscere.
Mi racconta come, in realtà, non sappia dove la porterà il percorso che ha intrapreso, poiché la scuola che ha deciso di seguire rappresenta un unicum nel panorama dell’ebraismo ortodosso. Inoltre, le sinagoghe ortodosse disposte ad assumere rabbini donna sono praticamente inesistenti.
Usare l’aggettivo “ortodosso” è importante. Mentre l’ebraismo dall’esterno appare come un blocco unico, un monolite, a guardarlo da vicino, da dentro, è un insieme complesso e sfaccettato di punti di vista, scuole e orientamenti. Un po’ come il frutto di melograno, dove convivono la molteplicità dei semi con l’unicità del frutto. Nell’ebraismo riformato le rabbine donne sono ormai comuni, mentre in quello ortodosso no. La religione ebraica, come tutte le religioni e come tutti gli organi di potere, ha dato solo recentemente spazio alle donne, Miriam suggerisce di analizzare la situazione del rabbinato contestualizzandola e vedendola come lo specchio dei cambiamenti che stanno interessando la nostra società per intero. «Siamo in un’epoca in cui le donne studiano, è normale che vogliano studiare anche Torah».
Prima di terminare la chiamata, fissiamo un incontro telematico per il tre marzo, subito dopo il Purim, la festività del calendario ebraico che ti insegna che la sorte può essere rovesciata; che qualcosa di terribile si può convertire in qualcos’altro. Il giorno in cui è nata Miriam era proprio la notte del Purim.
Pochi giorni dopo le invio un’email in cui elenco gli argomenti che mi piacerebbe toccare. Mi impegno moltissimo nella stesura, ho bisogno di riscattare la telefonata incerta. Alla mia email estremamente formale, Miriam risponde con informalità ed entusiasmo, spiazzandomi.
Le settimane che precedono il nostro incontro cerco materiale su di lei in rete e scopro che ha diretto spettacoli teatrali, che collabora con il Centro culturale Primo Levi di Genova per il quale produce un video alla settimana in cui affronta temi artistici, culturali, religiosi, che scrive su un mensile delle edizioni San Paolo.
Miriam quindi è una regista che sta diventando rabbina, una ebrea ortodossa che scrive su un giornale cattolico.
Il tre marzo preparo la mia postazione, mi sistemo sul tavolo della sala dove solitamente lavoro, cercando un’inquadratura pulita per il mio incontro virtuale. Faccio anche una doccia. Alle due sono già davanti al computer; l’appuntamento è alle due e mezza. Mentre rileggo le mie domande e qualche appunto, Miriam mi chiama al telefono, con circa venti minuti di anticipo. È amichevole, allegra, disponibile. Il nostro incontro Skype è saltato. È a Parigi, si è attardata dall’altra parte della città e non ha fatto in tempo a raggiungere casa.
Ha appena intervistato Delphine Horvilleur, una rabbina francese della corrente progressista, e l’intervista le ha preso molto più tempo del previsto. Mi propone di optare per una telefonata. Quindi cerca un posto tranquillo da cui poter parlare e opta per i Giardini del Lussemburgo.
Servendomi di Google Street View entro nei Giardini da Boulevard Saint Michel e mi ricordo all’improvviso che anni prima proprio da quelle parti mi cadde in testa il riccio di una castagna. A Parigi ho vissuto per qualche mese e di quei giorni mi torna alla mente soprattutto una piscina Art Nouveau con una vasca di acqua calda e il desiderio di imparare a nuotare in stile libero. I miei amici francesi nuotavano tutti molto bene perché il nuoto è inserito nei programmi ministeriali come materia d’insegnamento.
Nei Giardini del Lussemburgo, però, credo di non esserci mai entrata con il mio corpo. Camminandoci, grazie a Street View, scopro un posto altezzoso, curato, con l’erba corta e i cespugli ordinati, di quei giardini dove le piante non coprono lo sguardo, ma lo sguardo spazia lontano e controlla tutto. Ecco le sedie verdi in ferro battuto. Forse Miriam è seduta su una di queste mentre parla con me, forse vicino al laghetto, o accanto a una delle tante statue, chissà se vede l’imponente palazzo che ospita il Senato o se si è invece rifugiata fra gli alberi. Spostandomi con il mouse mi accorgo che intorno al nucleo centrale ordinato ci sono file di alberi che danno al posto un’aria più selvaggia e meno compassata. Decido che Miriam mentre parlava con me doveva essere proprio tra quegli alberi.
Inizialmente discutiamo di mizvot, ossia di regole. Miriam ha lavorato con molte persone non religiose, mi chiedo come abbia fatto – soprattutto all’inizio, quando non era lei a dirigere, quando era dipendente – a rispettare tutte le regole dell’ebraismo. “Avete troppe feste” è una frase che ho sentito dire spesso ai datori di lavoro.
«Questo all’inizio mi ha preoccupata» mi confessa Miriam. «Ho temuto a lungo che osservare le regole mi avrebbe tenuto lontano dal teatro, ma non è stato così. Quando avevo ventun anni ero assistente alla regia di uno spettacolo di Cesare Lievi, all’Opera di Zurigo. Avevamo la prima in autunno e io non sapevo come dirgli che oltre lo Shabbat avevo tantissimi giorni in cui non potevo lavorare. Quando glielo dissi mi rispose: Ma io lo so benissimo, in questo periodo c’è Rosh Hashana (capodanno ebraico), Kippur, Sukkot. Ho capito che quando le persone hanno il coraggio di uscire allo scoperto e chiedere, ti viene detto di sì. È quello che è capitato alla regina Ester, prendere consapevolezza di se stessa e chiedere».
«Una donna nella religione ebraica non è tenuta a rispettare le regole che deve seguire un uomo, questo perché è considerata non pienamente padrona del proprio tempo»
Ester è la protagonista della festa del Purim. Secondo le Scritture, era stata scelta come sposa dal re persiano Assuero, ignaro della sua appartenenza al popolo ebraico. Il più alto consigliere del re, Amman, era un uomo dominato dal culto di sé e non sopportava che gli ebrei che vivevano nel suo regno non si inchinassero al suo passaggio. Istigò così il re a pianificare un eccidio ai danni del popolo di Abramo. Ester, che fino a quel momento aveva taciuto le sue origini, decise di affrontare il marito intercedendo per la sua gente, e rischiando così la sua stessa vita. Era infatti proibito a tutti, anche alla regina, comparire davanti al re senza essere stati convocati; la punizione per una simile intrusione era la condanna a morte. Nel vedere la regina presentarsi al suo cospetto, Assuero reagì con comprensione, dandole ascolto. In questo modo il piano di Amman fu sventato e il popolo ebraico si salvò.
Ester quindi è colei che fa in modo che la sorte possa essere rovesciata a proprio vantaggio e Miriam mette l’accento sull’azione che rende questo possibile: l’uscire allo scoperto, chiedere.
Mentre parliamo, Miriam mi dice di avere un’urgenza e interrompiamo la conversazione. Mi richiama poco dopo, aveva notato una persona con qualche difficoltà motoria nel parco che le sembrava aver problemi nel maneggiare il cellulare e lei voleva assicurarsi che non ci fosse bisogno di lei.
«Non mi piacciono i titoli che recitano la prima rabbina in Italia»
La nostra conversazione riprende dove era rimasta, sull’importanza del prendere consapevolezza dei propri bisogni, del saper chiedere e del sapere cosa chiedere. «Proprio questa è stata l’azione che ha permesso la nascita del beit-midrash Har’El, la scuola di rabbinato che sto seguendo a Gerusalemme. C’era una persona che voleva studiare regolarmente e seriamente alachà, la normativa ebraica, l’applicazione dei precetti. Ha chiesto al rav (rabbino) Herzl Hefter di guidarlo in questo percorso, il rav ha risposto affermativamente, preferendo però creare un gruppo. A quel punto anche alcune donne si sono aggiunte e il rav ha accettato».
Miriam è nata a Gerusalemme, ha la doppia cittadinanza, italiana e israeliana. È venuta a conoscenza del Beit Midrash Har’El grazie a un amico, un ebreo ortodosso, esperto di Islam e di lingua araba, attivista per la pace, residente a Gerusalemme.
«È stato solo durante il primo anno di Università che sono entrata veramente in contatto con il mondo non ebraico, avendo frequentato le scuole dell’obbligo all’interno della comunità. Scelsi il mio percorso: Lettere e Storia del teatro e attraverso quello mi si aprì un nuovo mondo; non solo conobbi persone non ebree, ma per la prima volta ero a contatto con persone che provenivano da tutti i quartieri di Milano e non solo dal centro, dove sono cresciuta. Solo in quel momento capii che non tutti avevano un genitore medico, per esempio. Fu un passaggio fondamentale. Nello stesso tempo, in questo nuovo ambiente variegato io divenni all’improvviso l’ebrea».
Proprio in quegli anni Miriam porta sia la sua ebraicità all’università, sia la “sua università” nella sua comunità, organizzando uno spettacolo teatrale con i suoi compagni di corso che sarà poi finanziato proprio dalla comunità ebraica. Mettere in contatto mondi diversi è un tratto costitutivo del modo di essere ebrea di Miriam. Decisivo nel suo percorso è stato l’autunno del 2017, quando in una settimana si è trovata per ben tre volte a parlare di ebraismo a platee ogni volta diverse: ai cattolici gesuiti nel centro culturale San Fedele, nel centro di Milano; ai musulmani, in un incontro con l’Imam Tchina proprio nei mesi bui in cui l’amministrazione voleva negare la moschea alla comunità islamica; a un’amica ebrea, ex compagna di scuola, che le aveva chiesto aiuto per la stesura di una lezione di Torah.
È in quella settimana che Miriam matura il desiderio di approfondire ulteriormente i suoi studi religiosi, di avere maggiore legittimazione. Nel dicembre di quell’anno è a Gerusalemme per chiedere di essere ammessa nel Beit Midrash Har’El.
La chiacchierata tra noi è intensa, i discorsi si sovrappongono, si intrecciano, ma non si perdono mai. Parliamo della diffidenza che si genera quando si fanno scelte fuori dal comune, della difficoltà che ha avuto in quanto donna a trovare un rabbino che volesse prepararla per l’esame di ammissione alla scuola rabbinica, di classi sociali.
Alcune comunità italiane, pochissime in realtà, l’hanno bandita dalle loro sinagoghe, «È una situazione che ha vissuto anche Delphine Horviller, lei aveva contro soprattutto le donne ortodosse. È difficile uscire dalla situazione di schiavitù, Moshe uscendo dall’Egitto ha dovuto a un certo punto fronteggiare la rabbia degli ebrei stessi». Alla schiavitù purtroppo ci si abitua e una costrizione, spesso, è sentita come una protezione e chi rompe le regole spesso viene vissuto come minaccioso, Miriam però non sembra avere paura. Parliamo di coppie e di amore e finiamo poi per parlare ancora di regole e prassi.
«La prassi la studio e la vivo con libertà. La adatto a me, poi cambia nell’arco degli anni. Le halachot (leggi) sono un’opportunità, forse non importa ad Hashem (D-o) se trasporto di sabato, ma importa a me. Le halachot sono la scala che io creo con D-o».
«È difficile uscire dalla situazione di schiavitù, Moshe uscendo dall’Egitto ha dovuto a un certo punto fronteggiare la rabbia degli ebrei stessi»
Dopo due ore di conversazione, durante le quali faccio fatica a prendere gli appunti, Miriam mi dice di essere stanca e mi chiede se possiamo sentirci in un’altra occasione. Il nostro scambio termina su un punto interessante che non riprenderemo più: l’identità di genere. Le chiedo cosa significhi e come vada interpretata secondo lei la legge ebraica: Non sia arnese da uomo indosso a donna, né vesta un uomo abito da donna.
Terminata la conversazione, spengo il telefono per un po’ e resto in camera a guardare le travi del soffitto.
Mi chiedo se Miriam sia o no una voce fuori dal coro, ma mi ha risposto proprio lei qualche ora prima «Tutti ci sentiamo Faust rispetto a qualcosa, per altri invece siamo completamente in un sistema».
L’appuntamento successivo ce lo diamo per il mese di aprile. Per il 19 esattamente, non ci diamo però un orario preciso. Alle otto di sera del 19 di aprile mi dice che è disponibile a parlare.
Preparo la mia postazione velocemente.
Mi sono trasferita da poco e la mia camera da letto è piena di scatoloni, sistemo un cuscino sul pavimento e pongo il computer sul letto, accendo la telecamera per controllare che si veda solo la parete bianca; nel frattempo inizia a diluviare, abito in un sottotetto e temo che la pioggia diventi una colonna sonora invadente. Siamo in primavera, ma a Bologna l’aria è autunnale.
Quando inizia la conversazione di Miriam sento solo la voce profonda e importante, lo schermo resta nero per un po’, poi iniziano ad apparire alternandosi ora un occhio, ora una mano, l’amaca blu sulla quale è sdraiata, una macchia gialla che forse è la sua camicia. È ad Arad, una cittadina nelle zone desertiche del sud di Israele, non lontano dal mar Morto, ospite dei suoi cugini per qualche giorno.
Il contrasto è forte, io sono chiusa in una stanza con un maglione spesso, lei è all’aperto in maniche corte, nel mezzo del nulla, avvolta dalla notte afosa e da un silenzio totale; solo per un attimo, sullo sfondo, mi sembra di intravedere una casa bianca di quelle basse a tetto piano
«Amos Oz ha abitato a lungo qui» mi dice. Di Amos Oz ricordo soprattutto una affermazione: “Scrivo perché le persone che amavo sono già morte. Scrivo perché da bambino avevo molto potere di amare e ora il mio potere di amare sta per morire. Io non voglio morire”.
Sarà il deserto, sarà la notte, ma la conversazione è diversa rispetto a quella parigina, ha tutta un’altra temperatura.
«In Israele mi sento un po’ padrona di casa e sento che non devo sempre volergli bene. I miei hanno avuto entrambi un rapporto intenso con Israele anche se profondamente diverso. Entrambi furono portati qui da un sogno. Mio padre inseguiva l’ideale religioso, per cui Israele era la terra dei precetti; mia madre il sogno socialista dei kibbutz in piena rottura con la borghesia. Si sono sposati nel 1979, nel 1983 sono nata io. Erano gli anni della guerra del Libano. Un trauma. Israele era diventato l’aggressore. Così è cambiato tutto dentro di loro e sono tornati in Italia. La terra promessa per loro doveva essere altro. Io l’ho sentita quella delusione. Non si può vivere di un ideale che ci si è fatti, qualunque realtà sarà sempre meno esaltante di un’idea». Quello di Miriam non è un discorso politico, non è una dissertazione storica, non ha la pretesa della verità, è solo biografia.
Il discorso è mangiato da Israele che come Miriam mi ricorda «è la terra che divora i suoi abitanti» e solo alla fine accenniamo alla sua scuola che finalmente ha ripreso le lezioni de visu dopo la massiccia campagna vaccinale. La sua scuola che sta facendo una rivoluzione senza gridarlo, dove lo studio rabbinico è affrontato tradizionalmente tramite lezioni frontali, ma anche usando il metodo havruta che prevede che i testi vengano affrontati da due studenti insieme. Discutendo, approfondendo e negoziando. Il suo compagno di studi è un cantore che viene dagli Stati Uniti.
Ci salutiamo dopo circa un’ora e mezza di conversazione, ad Arad la notte è ancora più scura e a Bologna ancora piove.
A fine maggio ci sentiamo ancora una volta, siamo su Skype, ma senza telecamera a causa della scarsa connessione. La camera l’accendiamo alla fine velocemente, il tempo di commentare che i suoi capelli sono cambiati, sono molto più chiari e molto belli. Stemperiamo così una telefonata difficile, ma molto emotiva.
Si trovava a Meron durante il pellegrinaggio in cui sono morti 45 Haredim (i cosiddetti ebrei ultra ortodossi) e porta ancora con sé la sensazione di claustrofobia di quella notte. È a Gerusalemme mentre parliamo. C’è la guerra. Questa volta la parola Israele è l’elefante nella stanza. Finiamo, però, per parlarne velocemente e con tristezza, la guerra fa male a tutti. «Non mi definisco una sionista», dice Miriam. Poche parole, che dicono molto. E si finisce a parlare di bundismo, un movimento operaio nato a fine ‘800 in Europa orientale, che incoraggiava gli ebrei a combattere per i propri diritti lì dov’erano, senza spostarsi. «Certo è strano, parlare della Polonia e della Lituania di fine Ottocento; pensarli da qui, dal sogno sionista», commenta Miriam. Parliamo di quello che poteva essere e non è stato, ma anche di quello che non poteva essere e invece fortunatamente è.
Dicembre 2021. È il settimo giorno di Hanukkah quando mi metto alla guida di un’auto che mi è stata prestata per raggiungere di persona Miriam, con la speranza di accendere l’ottavo lume dell’hanukkia (il candelabro a otto braccia che si usa durante questa festività) insieme.
Miriam è nel monastero di Camaldoli, un paesino arroccato tra colline e montagne a est di Arezzo, dove da più di quarant’anni si tengono “I colloqui ebraico-cristiani”, un evento che promuove il dibattito interculturale e consta di laboratori, convegni, spazi di riflessione e di preghiera.
«I miei hanno avuto entrambi un rapporto intenso con Israele anche se profondamente diverso. Entrambi furono portati qui da un sogno»
Arrivo poco dopo mezzogiorno e riusciamo a incontrarci solamente verso l’una. Trascorro il tempo nella caffetteria del monastero, un locale spazioso e silenzioso , con tavoli ampi di legno massello scuro; nel tavolo accanto al mio un sacerdote e un ragazzo parlano dell’ultima cena, gli presto un orecchio fingendo distrazione.
L’arrivo di Miriam ha qualcosa che mi ricorda un cartone animato di Myazaki, apre la porta a vetro del bar, ci infila dentro la testa e mi guarda con due occhi giganti, uno sguardo un po’ complice e un sorriso larghissimo che non mi aspettavo.
Nel refettorio servono il pranzo, così mi invita a unirmi a loro.
Vicino e lontana. Da quando l’ho conosciuta Miriam l’ho avvertita in alcuni momenti vicinissima e in altri lontanissima e anche nel momento in cui prendo posto accanto a lei a tavola continuo a sentirla così e proprio così siamo anche posizionate, sono immediatamente alla sua destra ma non così prossima, a causa dei distanziamenti imposti dalla pandemia.
Nel tavolo con noi siedono fra gli altri un ragazzo che ho avuto già occasione di sentire in alcune dirette dell’UCEI (unione delle comunità ebraiche italiane) e un sacerdote.
Si parla di Talmud, di scritture. «Forse ciò che è più importante nell’ebraismo è proprio la continua indagine, il perenne mettere tutto in discussione, ogni trattato del Talmud finisce con il sintagma hadran alakh, di nuovo a te, che dà proprio indicazione chiara di questo spirito ebraico, in cui si è disposti a ritornare su tutto. In cui niente è scritto nella pietra», osserva Miriam. «Dici che si riaprirà la Ghemarà?» scherza il sacerdote. L’atmosfera è rilassata, i discorsi scorrono velocemente, sento di perdere dei passaggi perché non conosco molte delle cose di cui si sta parlando; ma i commensali sono inclusivi, soprattutto la coppia che siede alla mia destra. Finito il pranzo, Miriam mi invita a raggiungere l’eremo passeggiando, ma inizia a piovere e temo il ritorno in auto con il buio e la pioggia. Rinuncio così all’idea di accendere le candele insieme. Prendiamo un caffè al bar e mentre lo sorseggiamo Miriam mi dice «L’Hanukkah è proprio questo, avere un’identità forte da mettere però in contatto con gli altri. È la luce interna che porti fuori. Non è un caso che l’hannukkia vada posta proprio davanti alla finestra. Deve essere vista da tutti. Il contatto non deve far paura, non è una minaccia. Per questo amo trascorrere l’Hanukkah in questo posto. L’Hanukkah è la festa dell’identità e per ironia della sorte è la festa più contaminata. Negli Stati Uniti sono state create parole che la fondono con il natale, Crismukka per esempio. Non ha senso chiudersi, la contaminazione è normale e non costituisce minaccia. Il teatro inizialmente nel Talmud era condannato, era un elemento appartenente ai greci e percepito come completamente estraneo. Invece poi c’è stato modo di riempirlo di altri significati, di appropriarci di questo contenitore, ed è diventato un altro modo per vivere e mostrare l’identità ebraica. Basta pensare che, in Israele, la frase che si dice quando si vuol chiedere un bis al termine di uno spettacolo teatrale o di un concerto è la stessa che abbiamo evocato a pranzo, quella con cui terminano i trattati del Talmud, hadran alakh, ritorneremo». La vita sembra non essere mai estranea ai rovesciamenti.
Miriam paga anche per me mentre ci raggiunge la coppia simpatica dei commensali; sono pronti per la scarpinata verso l’eremo. Io invece sono pronta a rimettermi in viaggio mentre la pioggia si sta trasformando in neve.