Il più piccolo borgo d’Italia spunta lungo la costiera che Amalfi (con un sospetto di strapotere) rinomina integralmente, e ne occupa meno anzi molto meno di un chilometro. Se vedete una mezza luna di case bianche sopra un mare che trascolora dal blu al verde; se vedete qualcosa di simile a portico ad archi che regge la strada principale e sotto sotto affonda nella spiaggia, quella è Atrani.
Gli abitanti – quasi novecento – vivono in case addossate l’una all’altra in una stupefacente geografia della risalita. D’altronde, i campi terrazzati – gli scalini sui monti – sono una trovata ingegnosa dell’intera costiera, realizzati quando si rese necessario sostenere le economie legate alla pesca con qualche forma di agricoltura, comunque difficile in una terra che tutta digrada dai monti al mare. Il breve territorio di Atrani è incassato fra i monti Lattari e il golfo di Salerno. Un borgo di pescatori, le cui lampare a sera ancora fanno luce a mare. C’è poi un fiume, il Dragone, una volta perenne e poi ridotto in regime torrentizio, che fa un brontolio sommesso e ogni tanto stanca e spossa la terra. È del 2010 l’ultima terribile onda di fango che trascinò verso il mare tutto quel che trovò.
Oggi il villaggio – come lo definì Escher nel 1931 – ha riparato la sua ferita, anche grazie alle dedizione con cui ciascuno degli abitanti si occupa del piccolo posto in cui è nato. La sua è una tessitura in cui gli uomini e le cose convivono in un’unica scena e il tempo, qui scandito a lungo, più a lungo che altrove, non corre, incede e qualche volta si ferma. Come sul muro di via Dogi, dove sono stati riportati i versi che Alfonso Gatto dedicò a questa minuscola e sorprendente città bianca.
Raggiungiamo la piazza del paese una mattina assolata di gennaio. Ad attenderci ci sono il vicesindaco Michele Siravo, l’archeologo Francesco Corvino, gli storici Colette Manciero e Salvatore Corniola (hanno tutti meno di quarant’anni) e, soprattutto, Antonio Corvino, il postino ormai in pensione che poco più di un anno fa ha dato la carica al grande orologio del campanile, per l’ultima volta.
È proprio l’orologio pubblico la ragione della visita al borgo. Per centocinquant’anni, infatti, ne ha scandito i ritmi con rintocchi continui. E più ancora, ha regolato le veglie dei pescatori, quando di notte dovevano prendere il mare. Quasi un compagno di bevute, che ha sempre avuto bisogno di un regolatore delle ore (“oraiuolo”). Il 31 dicembre 2015 Antonio lo ha fatto per l’ultima volta.
“Nella mia vita ho fatto il ceramista, il pescatore e poi il postino, fino alla pensione” racconta, mentre ripariamo in uno dei tre bar della piazza. Fuori c’è il freddo delle grandi occasioni, ma il cielo non ha una nuvola, è del colore del mare e chissà quale dei due imita l’altro. “Atrani è sempre stato un paese di pescatori” continua “Fino a quindici anni fa avevamo sette o otto lampare per le alici”.
Quando gli chiedo dell’orologio sembra immalinconirsi. “Ho alzato i pesi del meccanismo per tanti anni e prima di me lo hanno fatto mio padre, mio nonno e il padre di mio nonno. È un bell’orologio, una specie di orgoglio di tutta la costiera, ma non era destinato a Atrani. Doveva andare a Pontone, qui vicino, ma poi cambiarono idea perché batteva prima i quarti d’ora e poi le ore, e quelli di Pontone volevano un orologio che battesse prima le ore”. La grande pendola ha quindi 150 anni ed è uno dei primi orologi dell’Italia unita. È detto del Birecto perché è parte del campanile dell’antica cappella palatina – oggi chiesa del S. Salvatore de’ Birecto – dove al tempo del Ducato d’Amalfi aveva luogo la cerimonia dell’investitura del Duca, con l’imposizione della ‘berretta’.
“Il meccanismo andava regolato alla stessa ora, per tutto l’anno. Il compenso era di un euro al giorno” prosegue Antonio “Il punto era la forza fisica che ci voleva e la costanza che non ero più in grado di assicurare. Due anni fa sono andato una settimana a Ischia, ma mi richiamarono perché nessuno riusciva a dare la carica. Un’altra volta stavo poco bene e ho dovuto mandare mia moglie a tirare i pesi. Il 31 dicembre 2015 l’ho fatto per l’ultima volta”. Il figlio di Antonio ha interrotto la consuetudine di famiglia, lui fa l’ingegnere a Napoli. E non si è trovato nessuno disposto a farsi carico dell’orologio, non per quella cifra simbolica… È finita così una tradizione che a lungo ha sbalzato il passato nel tempo presente, dando alle giornate un movimento di pendolo.
Per saperne di più rivolgo qualche domanda a Francesco Corvino (nipote di Antonio) che ne ha ricostruito la storia attingendo dal fondo dell’archivio comunale. Cita fonti con estrema precisione, mostra documenti, slide, si è molto applicato. Dice che per lui recuperare la storia del proprio paese significa dare un fondamento al suo presente, per non doversene andare, perché vuole restare (Quanti sono i giovani del sud che decidono di rimanere dove sono nati? A volte non possono restare. Altre volte contano di tornare, facendo il giro del tornio. Chi nasce in un paesino del sud mette in conto di doversene andare).
“Da un verbale del 1865 sappiamo che l’orologio, molto antico, spesso si fermava ed era un problema soprattutto per i marinai e, visto che ogni accomodo era inutile, si pensò di acquistarne uno nuovo. Si trovò un’occasione a Napoli al prezzo di 850 lire (200 ducati). Dopo un anno gli amministratori preferirono un nuovo congegno, con la sfera e il quadrante in marmo più grandi. Per l’occasione fu realizzato un campanile di gusto neoclassico, proprio per contenerlo. Il quadrante dell’orologio a numeri romani riporta la data del 1865, ma i lavori si conclusero in seguito”. Mi spiega poi che il meccanismo alla francese, che faceva suonare le campane di dodici ore in dodici ore e di quarto d’ora in quarto d’ora, fu installato vent’anni dopo ed è rimasto in funzione sino al 2015.
A quel punto decidiamo di andare al cuore stesso dell’orologio. Attraversiamo la piazza e dopo qualche scalino siamo nell’atrio della chiesa del Birecto. Al meccanismo dell’orologio si accede tramite un vano scale sulla destra e, dopo altre scale, si passa per l’uscio ricavato nel campanile, una porticina di legno che sarebbe piaciuta a Lewis Carroll. Ecco l’orologio che guarda il mare. A quell’altezza tutto è incredibilmente vicino: il mare e il cielo sono un unico impasto di blu, mentre la luce del sole sfreccia alla cieca sul bianco delle case.
Dall’entro della costa all’ampia svolta verde di casa rosa Atrani bianca, città d’un tempo e d’ogni giorno è colta dalla sorpresa d’essere. (Questi sono i versi di Alfonso Gatto trascritti lungo la via contigua alla piazza).
Il marchingegno dell’orologio è incassato in un armadio realizzato nel 1920 dalla famiglia Corvino e riporta le firme dei “mettenti”, gli addetti alla carica. Ha ruote di bronzo con denti imbruniti e tre cilindri di ghisa torniti. Lo scappamento è ad ‘ancora’ con le brocche di acciaio temperato, mentre il pendolo che pesa dodici chili è sorretto da una molla di acciaio. Il meccanismo si carica con le manovelle e, in origine, aveva una durata di 30 ore, poi diminuita in seguito alla riduzione dell’altezza dei contrappesi.
Quando Antonio Corvino rinunciò al suo incarico e l’orologio si fermò, gli abitanti furono presi da una specie di agitazione. Non riuscivano più a orientarsi. Il tempo, tutto d’un tratto, fuggiva: sugli orologi da polso, sugli schermi degli smartphone, sui computer era un’unica inarrestabile corsa. D’improvviso, i giorni e le notti andavano per conto proprio, mettendo in imbarazzo gli atranesi che non riuscivano a stargli dietro. Cos’era quell’urgenza che saltava fuori da ogni aggeggio, cos’era quel lampeggiare continuo sui display in una sequenza di tempo cominciato e già scaduto? Ai primi del 2016 l’amministrazione comunale corse ai ripari con un meccanismo elettronico, ma dopo un mese le lancette dell’orologio si fermarono alle 13.10, senza più volerne sapere.
Nessun tecnico fu in grado di riparare il guasto. Qualcuno sospettò che vi fosse dietro la mano mancina di qualcuno interessato a non disturbare i turisti, i quali a dire il vero protestavano spesso contro lo scampanio che si ripeteva ogni quarto d’ora (un rintocco per il primo quarto, due per la mezz’ora, tre per i tre quarti, quattro per l’ora compiuta, in aggiunta al rintocco specifico dell’ora; così, per esempio, i dodici rintocchi del mezzogiorno e della mezzanotte si ripetevano ogni quindici minuti seguiti da quelli dei quarti d’ora. Insomma, una faccenda davvero intricata). A settembre i nativi cominciarono il dissenso: volevano indietro il tempo che conoscevano bene, quel tempo che potevano anche perdere perché il loro orologio gentile lo avrebbe riacciuffato al quarto d’ora successivo. Non stava né in cielo né in terra ‘sta cosa del tempo elettrificato e da polso.
Fu definitivamente installato un meccanismo automatico, ma con una correzione sui rintocchi: da quel momento le ore sarebbero state scandite solo allo scoccare della stessa e non più ogni quarto d’ora. A dirla tutta un po’ di malumore restò. Il suono noto era tornato, certo, ma non era come quando la carica veniva data a mano e si sentiva il segnale allegro e inopportuno di tutta la sacra ruota delle ore… “Il meccanismo elettronico è il solo possibile – spiega il vicesindaco – visto che non si è trovato nessuno disposto a continuare la tradizione dei Corvino per un euro al giorno. A volte la gente si lamenta senza sapere le cose”.
Ci spostiamo per le vie strette del borgo, è ormai pomeriggio. Ci aspettano i vicoli stretti che bisogna percorre in fila indiana, sono le strettoie (o strettole) di tanta parte dell’Italia più nascosta, quella dei piccoli posti. E poi gli ottocento scalini che conducono alla parte alta del paese, con le sue chiesette rupestri e l’antico cimitero, dove c’è la botola in cui venivano gettati i corpi degli appestati e dove, talvolta, gli appestati ancora in vita sedevano in attesa di morire (il corpo morto e pesante sarebbe andato giù, fra gli altri corpi morti, di giovani, di vecchi e di bambini).
Michele Siravo mi parla di Escher, che raffigurò Atrani nelle sue Metamorfosi e in due opere poco note: Dilapidated houses (case in rovina) in Atrani e Covered alley (vicolo coperto) in Atrani, entrambi del 1931. Alle Metamorfosi si ispira l’installazione che ogni anno, da fine novembre, illumina la piazza del borgo. “Tornate il prossimo Natale, vedrete che bello” dice Siravo, mentre la comunità vestita a festa come fosse domenica si raccoglie nella piazzetta. Stanno per togliere le luci all’albero, è il 18 gennaio, qui gli addobbi restano a lungo, più a lungo che altrove (ma questo ormai lo sappiamo).
Nelle retrovie desuete di Atrani c’è aria di cose semplici, di cose buone: è il lato più autentico del mondo, quello opposto ai luoghi frodati, privati della loro anima, dove ogni cosa cambia in fretta perché il nuovo avanza all’infinito. Entrare in un luogo senza intuirne l’anima segreta, talvolta clandestina, è come entrare in un centro commerciale: se ne è esce più tristi e poveri di prima. Se il luogo non è abitato, saranno le pietre a svelare qualcosa, ma occorre silenzio e una certa insensatezza: bisogna lasciare che la fantasia si cristallizzi. Se il luogo invece è abitato, alle cose si sovrappongono le voci degli uomini. Per la mia esperienza, meglio fare poche domande e restare a guardare. Se si aspetta con pazienza può accadere che qualcosa si riveli e quasi sempre sbaraglia ciò che gli uomini raccontano con sollecitudine.
Nel mio tempo ad Atrani, l’anima del luogo l’ho vista negli occhi dei suoi giovani che hanno deciso di restare, anche se faticano a mantenersi e devono appoggiarsi ai genitori – il peggio è d’inverno, quando non si vede un turista. Bisognerebbe raccontare al turista, e più ancora al viaggiatore che non conosce questo soggiorno tranquillo, l’effetto del bianco sul blu, dei muri con dentro i limoni, dello scoppio della magnolia al tramonto. E poi bisognerebbe dirgli di tornare quando gli altri se ne andranno, perché la città bianca lo reclama.
I due giovani storici, Colette e Salvatore, hanno imparato forma, consistenza, storia di ogni pietra e grotta, di ogni arco e navata delle chiese del paese, sono cinque. Hanno la loro epica, le piccole epopee da raccontare. La madre di Masaniello è nata qui, tengono a farmi sapere. Forse ci passò Masaniello in persona, in una notte di fuga. È tutto ciò che abbiamo, dicono in coro. E in quel momento sembrano evocare una solitudine che li precede e li opprime teneramente. Un filo molto sottile di tristezza… sì lo vedo. Come si fa, sembrano dire, come si fa a vivere in una terra – il sud, l’Italia tutta – che ti trattiene e allo stesso tempo ti riscaccia, mentre ancora si attende la bella aurora? Senza accorgercene, animiamo un sistema di specchi rotatori.
Racconto loro che sono nata in un paese, fra certe montagne a strapiombo, su per le balze a picco dell’Appennino meridionale. La mia terra non ha monumenti di tempi antichi, i resti di una qualche grandezza, non ha neppure il mare, e si sta spopolando. Per sempre sarò parte di quel mondo a parte. Tuttavia, a me è mancato ciò che loro mostrano di avere in abbondanza, qualcosa che ha a che fare con il coraggio di restare. Ci sarà da qualche parte un pozzo dove finiscono i ritorni mancati? O un museo, sì forse un museo, come quello degli amori finiti.
Andiamo verso la fontana che occupa una risicata penombra nella piazza. La indicano come se non desse acqua ma un nettare dolcissimo, una qualche meraviglia. “Il problema sono gli inverni – spiega Siravo- quando mancano i turisti. D’estate invece i nostri trenta b&b sono sempre al completo”. Lui s’ingegna: anima associazioni, studia, raduna intorno a sé i giovani, che lo seguono, ne apprezzano lo spirito d’iniziativa. “Vorrei che restassero” dice. “Io resterò. Ho portato qui la mia fidanzata che è nata a San Paolo”.
Dal Brasile a Atrani, da quella vastità di superficie a uno dei paesi più piccoli al mondo. C’è qualcosa di impalpabile nell’aria: quando tutte le cose si toccano, quando la calma diventa quiete, qualcosa trattiene il viaggiatore, che vorrebbe non andarsene più. Noi però dobbiamo andare, dopo aver salutato per prima fra tutti la grande pendola al campanile, perfettamente funzionante. Alessio, il bravo fotografo che mi accompagna, cattura gli istanti in immagini che sono già fuori del tempo (dagherrotipi, lo si crederebbe mai?).
Walter Benjamin scrive che nella Comune di Parigi i comunardi sparavano agli orologi: «Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: “Qui le croirait! on dit, qu’irrités contre l’heure / De nouveaux Josués au pied de chaque tour / Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour”. Chi l’avrebbe creduto, che fossero così arrabbiati contro il tempo / Novelli Giosuè, ai piedi di ogni torre / Tiravano sui quadranti per fermare il giorno».
Gli Atranesi, al contrario, tengono all’orologio come a se stessi, sono parte di quei rintocchi, di quel rumore uggioso e facile che li ricompensa ricordando che di tempo ce n’è ancora parecchio. È l’attaccamento al luogo: qualcosa di profondamente necessario e, a questo punto della storia, ugualmente rivoluzionario, perché frutto di una scelta che richiede amore.
Il più piccolo borgo d’Italia spunta lungo la costiera che Amalfi (con un sospetto di strapotere) rinomina integralmente, e ne occupa meno anzi molto meno di un chilometro. Se vedete una mezza luna di case bianche sopra un mare che trascolora dal blu al verde; se vedete qualcosa di simile a portico ad archi che regge la strada principale e sotto sotto affonda nella spiaggia, quella è Atrani.
Gli abitanti – quasi novecento – vivono in case addossate l’una all’altra in una stupefacente geografia della risalita. D’altronde, i campi terrazzati – gli scalini sui monti – sono una trovata ingegnosa dell’intera costiera, realizzati quando si rese necessario sostenere le economie legate alla pesca con qualche forma di agricoltura, comunque difficile in una terra che tutta digrada dai monti al mare. Il breve territorio di Atrani è incassato fra i monti Lattari e il golfo di Salerno. Un borgo di pescatori, le cui lampare a sera ancora fanno luce a mare. C’è poi un fiume, il Dragone, una volta perenne e poi ridotto in regime torrentizio, che fa un brontolio sommesso e ogni tanto stanca e spossa la terra. È del 2010 l’ultima terribile onda di fango che trascinò verso il mare tutto quel che trovò.
Gli abitanti – quasi novecento – vivono in case addossate l’una all’altra in una stupefacente geografia della risalita.
Oggi il villaggio – come lo definì Escher nel 1931 – ha riparato la sua ferita, anche grazie alle dedizione con cui ciascuno degli abitanti si occupa del piccolo posto in cui è nato. La sua è una tessitura in cui gli uomini e le cose convivono in un’unica scena e il tempo, qui scandito a lungo, più a lungo che altrove, non corre, incede e qualche volta si ferma. Come sul muro di via Dogi, dove sono stati riportati i versi che Alfonso Gatto dedicò a questa minuscola e sorprendente città bianca.
Raggiungiamo la piazza del paese una mattina assolata di gennaio. Ad attenderci ci sono il vicesindaco Michele Siravo, l’archeologo Francesco Corvino, gli storici Colette Manciero e Salvatore Corniola (hanno tutti meno di quarant’anni) e, soprattutto, Antonio Corvino, il postino ormai in pensione che poco più di un anno fa ha dato la carica al grande orologio del campanile, per l’ultima volta.
È proprio l’orologio pubblico la ragione della visita al borgo. Per centocinquant’anni, infatti, ne ha scandito i ritmi con rintocchi continui. E più ancora, ha regolato le veglie dei pescatori, quando di notte dovevano prendere il mare. Quasi un compagno di bevute, che ha sempre avuto bisogno di un regolatore delle ore (“oraiuolo”). Il 31 dicembre 2015 Antonio lo ha fatto per l’ultima volta.
La sua è una tessitura in cui gli uomini e le cose convivono in un’unica scena e il tempo, qui scandito a lungo, più a lungo che altrove, non corre, incede e qualche volta si ferma.
“Nella mia vita ho fatto il ceramista, il pescatore e poi il postino, fino alla pensione” racconta, mentre ripariamo in uno dei tre bar della piazza. Fuori c’è il freddo delle grandi occasioni, ma il cielo non ha una nuvola, è del colore del mare e chissà quale dei due imita l’altro. “Atrani è sempre stato un paese di pescatori” continua “Fino a quindici anni fa avevamo sette o otto lampare per le alici”.
Quando gli chiedo dell’orologio sembra immalinconirsi. “Ho alzato i pesi del meccanismo per tanti anni e prima di me lo hanno fatto mio padre, mio nonno e il padre di mio nonno. È un bell’orologio, una specie di orgoglio di tutta la costiera, ma non era destinato a Atrani. Doveva andare a Pontone, qui vicino, ma poi cambiarono idea perché batteva prima i quarti d’ora e poi le ore, e quelli di Pontone volevano un orologio che battesse prima le ore”. La grande pendola ha quindi 150 anni ed è uno dei primi orologi dell’Italia unita. È detto del Birecto perché è parte del campanile dell’antica cappella palatina – oggi chiesa del S. Salvatore de’ Birecto – dove al tempo del Ducato d’Amalfi aveva luogo la cerimonia dell’investitura del Duca, con l’imposizione della ‘berretta’.
«Ho alzato i pesi del meccanismo per tanti anni e prima di me lo hanno fatto mio padre, mio nonno e il padre di mio nonno»
“Il meccanismo andava regolato alla stessa ora, per tutto l’anno. Il compenso era di un euro al giorno” prosegue Antonio “Il punto era la forza fisica che ci voleva e la costanza che non ero più in grado di assicurare. Due anni fa sono andato una settimana a Ischia, ma mi richiamarono perché nessuno riusciva a dare la carica. Un’altra volta stavo poco bene e ho dovuto mandare mia moglie a tirare i pesi. Il 31 dicembre 2015 l’ho fatto per l’ultima volta”. Il figlio di Antonio ha interrotto la consuetudine di famiglia, lui fa l’ingegnere a Napoli. E non si è trovato nessuno disposto a farsi carico dell’orologio, non per quella cifra simbolica… È finita così una tradizione che a lungo ha sbalzato il passato nel tempo presente, dando alle giornate un movimento di pendolo.
Per saperne di più rivolgo qualche domanda a Francesco Corvino (nipote di Antonio) che ne ha ricostruito la storia attingendo dal fondo dell’archivio comunale. Cita fonti con estrema precisione, mostra documenti, slide, si è molto applicato. Dice che per lui recuperare la storia del proprio paese significa dare un fondamento al suo presente, per non doversene andare, perché vuole restare (Quanti sono i giovani del sud che decidono di rimanere dove sono nati? A volte non possono restare. Altre volte contano di tornare, facendo il giro del tornio. Chi nasce in un paesino del sud mette in conto di doversene andare).
«Due anni fa sono andato una settimana a Ischia, ma mi richiamarono perché nessuno riusciva a dare la carica. Un’altra volta stavo poco bene e ho dovuto mandare mia moglie a tirare i pesi. Il 31 dicembre 2015 l’ho fatto per l’ultima volta»
“Da un verbale del 1865 sappiamo che l’orologio, molto antico, spesso si fermava ed era un problema soprattutto per i marinai e, visto che ogni accomodo era inutile, si pensò di acquistarne uno nuovo. Si trovò un’occasione a Napoli al prezzo di 850 lire (200 ducati). Dopo un anno gli amministratori preferirono un nuovo congegno, con la sfera e il quadrante in marmo più grandi. Per l’occasione fu realizzato un campanile di gusto neoclassico, proprio per contenerlo. Il quadrante dell’orologio a numeri romani riporta la data del 1865, ma i lavori si conclusero in seguito”. Mi spiega poi che il meccanismo alla francese, che faceva suonare le campane di dodici ore in dodici ore e di quarto d’ora in quarto d’ora, fu installato vent’anni dopo ed è rimasto in funzione sino al 2015.
A quel punto decidiamo di andare al cuore stesso dell’orologio. Attraversiamo la piazza e dopo qualche scalino siamo nell’atrio della chiesa del Birecto. Al meccanismo dell’orologio si accede tramite un vano scale sulla destra e, dopo altre scale, si passa per l’uscio ricavato nel campanile, una porticina di legno che sarebbe piaciuta a Lewis Carroll. Ecco l’orologio che guarda il mare. A quell’altezza tutto è incredibilmente vicino: il mare e il cielo sono un unico impasto di blu, mentre la luce del sole sfreccia alla cieca sul bianco delle case.
Dall’entro della costa all’ampia svolta verde di casa rosa Atrani bianca, città d’un tempo e d’ogni giorno è colta dalla sorpresa d’essere. (Questi sono i versi di Alfonso Gatto trascritti lungo la via contigua alla piazza).
Il marchingegno dell’orologio è incassato in un armadio realizzato nel 1920 dalla famiglia Corvino e riporta le firme dei “mettenti”, gli addetti alla carica. Ha ruote di bronzo con denti imbruniti e tre cilindri di ghisa torniti. Lo scappamento è ad ‘ancora’ con le brocche di acciaio temperato, mentre il pendolo che pesa dodici chili è sorretto da una molla di acciaio. Il meccanismo si carica con le manovelle e, in origine, aveva una durata di 30 ore, poi diminuita in seguito alla riduzione dell’altezza dei contrappesi.
Ecco l’orologio che guarda il mare. A quell’altezza tutto è incredibilmente vicino: il mare e il cielo sono un unico impasto di blu, mentre la luce del sole sfreccia alla cieca sul bianco delle case.
Quando Antonio Corvino rinunciò al suo incarico e l’orologio si fermò, gli abitanti furono presi da una specie di agitazione. Non riuscivano più a orientarsi. Il tempo, tutto d’un tratto, fuggiva: sugli orologi da polso, sugli schermi degli smartphone, sui computer era un’unica inarrestabile corsa. D’improvviso, i giorni e le notti andavano per conto proprio, mettendo in imbarazzo gli atranesi che non riuscivano a stargli dietro. Cos’era quell’urgenza che saltava fuori da ogni aggeggio, cos’era quel lampeggiare continuo sui display in una sequenza di tempo cominciato e già scaduto? Ai primi del 2016 l’amministrazione comunale corse ai ripari con un meccanismo elettronico, ma dopo un mese le lancette dell’orologio si fermarono alle 13.10, senza più volerne sapere.
Nessun tecnico fu in grado di riparare il guasto. Qualcuno sospettò che vi fosse dietro la mano mancina di qualcuno interessato a non disturbare i turisti, i quali a dire il vero protestavano spesso contro lo scampanio che si ripeteva ogni quarto d’ora (un rintocco per il primo quarto, due per la mezz’ora, tre per i tre quarti, quattro per l’ora compiuta, in aggiunta al rintocco specifico dell’ora; così, per esempio, i dodici rintocchi del mezzogiorno e della mezzanotte si ripetevano ogni quindici minuti seguiti da quelli dei quarti d’ora. Insomma, una faccenda davvero intricata). A settembre i nativi cominciarono il dissenso: volevano indietro il tempo che conoscevano bene, quel tempo che potevano anche perdere perché il loro orologio gentile lo avrebbe riacciuffato al quarto d’ora successivo. Non stava né in cielo né in terra ‘sta cosa del tempo elettrificato e da polso.
Fu definitivamente installato un meccanismo automatico, ma con una correzione sui rintocchi: da quel momento le ore sarebbero state scandite solo allo scoccare della stessa e non più ogni quarto d’ora. A dirla tutta un po’ di malumore restò. Il suono noto era tornato, certo, ma non era come quando la carica veniva data a mano e si sentiva il segnale allegro e inopportuno di tutta la sacra ruota delle ore… “Il meccanismo elettronico è il solo possibile – spiega il vicesindaco – visto che non si è trovato nessuno disposto a continuare la tradizione dei Corvino per un euro al giorno. A volte la gente si lamenta senza sapere le cose”.
Quando Antonio Corvino rinunciò al suo incarico e l’orologio si fermò, gli abitanti furono presi da una specie di agitazione. Non riuscivano più a orientarsi.
Ci spostiamo per le vie strette del borgo, è ormai pomeriggio. Ci aspettano i vicoli stretti che bisogna percorre in fila indiana, sono le strettoie (o strettole) di tanta parte dell’Italia più nascosta, quella dei piccoli posti. E poi gli ottocento scalini che conducono alla parte alta del paese, con le sue chiesette rupestri e l’antico cimitero, dove c’è la botola in cui venivano gettati i corpi degli appestati e dove, talvolta, gli appestati ancora in vita sedevano in attesa di morire (il corpo morto e pesante sarebbe andato giù, fra gli altri corpi morti, di giovani, di vecchi e di bambini).
Michele Siravo mi parla di Escher, che raffigurò Atrani nelle sue Metamorfosi e in due opere poco note: Dilapidated houses (case in rovina) in Atrani e Covered alley (vicolo coperto) in Atrani, entrambi del 1931. Alle Metamorfosi si ispira l’installazione che ogni anno, da fine novembre, illumina la piazza del borgo. “Tornate il prossimo Natale, vedrete che bello” dice Siravo, mentre la comunità vestita a festa come fosse domenica si raccoglie nella piazzetta. Stanno per togliere le luci all’albero, è il 18 gennaio, qui gli addobbi restano a lungo, più a lungo che altrove (ma questo ormai lo sappiamo).
Nelle retrovie desuete di Atrani c’è aria di cose semplici, di cose buone: è il lato più autentico del mondo, quello opposto ai luoghi frodati, privati della loro anima, dove ogni cosa cambia in fretta perché il nuovo avanza all’infinito. Entrare in un luogo senza intuirne l’anima segreta, talvolta clandestina, è come entrare in un centro commerciale: se ne è esce più tristi e poveri di prima. Se il luogo non è abitato, saranno le pietre a svelare qualcosa, ma occorre silenzio e una certa insensatezza: bisogna lasciare che la fantasia si cristallizzi. Se il luogo invece è abitato, alle cose si sovrappongono le voci degli uomini. Per la mia esperienza, meglio fare poche domande e restare a guardare. Se si aspetta con pazienza può accadere che qualcosa si riveli e quasi sempre sbaraglia ciò che gli uomini raccontano con sollecitudine.
Nel mio tempo ad Atrani, l’anima del luogo l’ho vista negli occhi dei suoi giovani che hanno deciso di restare, anche se faticano a mantenersi e devono appoggiarsi ai genitori – il peggio è d’inverno, quando non si vede un turista. Bisognerebbe raccontare al turista, e più ancora al viaggiatore che non conosce questo soggiorno tranquillo, l’effetto del bianco sul blu, dei muri con dentro i limoni, dello scoppio della magnolia al tramonto. E poi bisognerebbe dirgli di tornare quando gli altri se ne andranno, perché la città bianca lo reclama.
Escher raffigurò Atrani nelle sue Metamorfosi e in due opere poco note: Dilapidated houses (case in rovina) in Atrani e Covered alley (vicolo coperto) in Atrani, entrambi del 1931.
I due giovani storici, Colette e Salvatore, hanno imparato forma, consistenza, storia di ogni pietra e grotta, di ogni arco e navata delle chiese del paese, sono cinque. Hanno la loro epica, le piccole epopee da raccontare. La madre di Masaniello è nata qui, tengono a farmi sapere. Forse ci passò Masaniello in persona, in una notte di fuga. È tutto ciò che abbiamo, dicono in coro. E in quel momento sembrano evocare una solitudine che li precede e li opprime teneramente. Un filo molto sottile di tristezza… sì lo vedo. Come si fa, sembrano dire, come si fa a vivere in una terra – il sud, l’Italia tutta – che ti trattiene e allo stesso tempo ti riscaccia, mentre ancora si attende la bella aurora? Senza accorgercene, animiamo un sistema di specchi rotatori.
Racconto loro che sono nata in un paese, fra certe montagne a strapiombo, su per le balze a picco dell’Appennino meridionale. La mia terra non ha monumenti di tempi antichi, i resti di una qualche grandezza, non ha neppure il mare, e si sta spopolando. Per sempre sarò parte di quel mondo a parte. Tuttavia, a me è mancato ciò che loro mostrano di avere in abbondanza, qualcosa che ha a che fare con il coraggio di restare. Ci sarà da qualche parte un pozzo dove finiscono i ritorni mancati? O un museo, sì forse un museo, come quello degli amori finiti.
La mia terra non ha monumenti di tempi antichi, i resti di una qualche grandezza, non ha neppure il mare, e si sta spopolando. Per sempre sarò parte di quel mondo a parte.
Andiamo verso la fontana che occupa una risicata penombra nella piazza. La indicano come se non desse acqua ma un nettare dolcissimo, una qualche meraviglia. “Il problema sono gli inverni – spiega Siravo- quando mancano i turisti. D’estate invece i nostri trenta b&b sono sempre al completo”. Lui s’ingegna: anima associazioni, studia, raduna intorno a sé i giovani, che lo seguono, ne apprezzano lo spirito d’iniziativa. “Vorrei che restassero” dice. “Io resterò. Ho portato qui la mia fidanzata che è nata a San Paolo”.
Dal Brasile a Atrani, da quella vastità di superficie a uno dei paesi più piccoli al mondo. C’è qualcosa di impalpabile nell’aria: quando tutte le cose si toccano, quando la calma diventa quiete, qualcosa trattiene il viaggiatore, che vorrebbe non andarsene più. Noi però dobbiamo andare, dopo aver salutato per prima fra tutti la grande pendola al campanile, perfettamente funzionante. Alessio, il bravo fotografo che mi accompagna, cattura gli istanti in immagini che sono già fuori del tempo (dagherrotipi, lo si crederebbe mai?).
Walter Benjamin scrive che nella Comune di Parigi i comunardi sparavano agli orologi: «Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: “Qui le croirait! on dit, qu’irrités contre l’heure / De nouveaux Josués au pied de chaque tour / Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour”. Chi l’avrebbe creduto, che fossero così arrabbiati contro il tempo / Novelli Giosuè, ai piedi di ogni torre / Tiravano sui quadranti per fermare il giorno».
Gli Atranesi, al contrario, tengono all’orologio come a se stessi, sono parte di quei rintocchi, di quel rumore uggioso e facile che li ricompensa ricordando che di tempo ce n’è ancora parecchio. È l’attaccamento al luogo: qualcosa di profondamente necessario e, a questo punto della storia, ugualmente rivoluzionario, perché frutto di una scelta che richiede amore.