«Dicono che, per stare bene dove si allunga un’ombra, bisogna prendere il colore della sua oscurità».
Moulla mi rivolge un leggero sorriso. È un signore di mezza età, la testa ricoperta di piccoli ricci bianchi. Parla piano e lentamente, i suoi occhi vagano lungo le pareti blu della stanza, tornando a me quando gli sembra che la frase sia conclusa.
«Fa parte dell’educazione dei tuareg, ovunque vanno, non dire mai siamo stranieri o siamo immigrati. Noi siamo cittadini, perché dappertutto consideriamo quel paese proprietà di nessuno. Dove chi si comporta e lavora bene non ha mai la sensazione di essere straniero. E questa terra è sua perché chi lo sa, magari muore qua». Parla in terza persona, ma capisco che sta riferendo questa eventualità a se stesso. L’affermazione è accolta dai presenti con un silenzio rispettoso e tranquillo.
Siamo nel salotto di Mohammed, che ci ha accolti a casa sua ma rimarrà sempre zitto, ad esclusione di alcuni brevi commenti in tamasheq, la lingua del popolo tuareg – una lingua berbera. Suo figlio Abdouljalil si è addormentato disteso sopra uno dei vecchi divani che arredano la stanza, a metà della conversazione comincia a sospirare quasi impercettibilmente. Mohammed e Moussa gli sfilano con delicatezza la casacchetta del Milan che aveva addosso quando è venuto ad aprirmi.
Da un lato del salotto, le persiane della portafinestra pressoché del tutto abbassate scuriscono ulteriormente la tinta blu dei muri e gettano un’ombra a righe lungo due grossi tappeti, sui quali è appoggiato un bassissimo tavolino nero. È un arredamento che mescola insieme un gusto nordafricano e un senso di mobili trovati, più che scelti.
In questa abitazione in affitto al piano terra di un reticolo di strade appena fuori dal centro, oggi si sono resi disponibili a incontrarmi alcuni membri della comunità tuareg di Pordenone. L’entrata di ognuno è accolta da reciproci As-Salaam-Alaikum a bassa voce e da una stretta di mano a me.
Mi accolgono in una villetta a schiera sobria ma dagli interni vivaci. Su una parete dell’ingresso, tinteggiato di un arancione gentile, i disegni di Abdouljalil sono stati appesi con adesivi e un piccolo chiodino. Il pavimento è costellato delle scarpe che tutti si tolgono appena entrano, quelle di Abdouljalil giacciono abbandonate l’una distante dall’altra. C’è un certo via vai: la moglie di Mohammed, Ghaicha, sta scaldando qualcosa ai fornelli per la merenda del figlio, poi si ritirerà in camera e non la vedrò più, salvo per lo scatto veloce di una fotografia. Ne prende il posto Moussa, che inizia a preparare un tè: è un ragazzo giovane, ne osservo di spalle la veste azzurro chiaro e il tagelmust indaco arrotolato intorno alla testa, mentre travasa con solennità l’acqua da una piccola teiera ad un’altra, centrandone sempre l’apertura. «Pordenone capitale Tuareg» mi dice all’improvviso. Fa una breve risata e riprende a occuparsi del tè.
Con i suoi cinquanta componenti, un terzo di tutti quelli presenti sul suolo nazionale, la comunità tuareg di Pordenone è anche la più grande in Italia. Numeri importanti in senso assoluto, che rivelano una minor tangibilità dando un’occhiata alle classifiche ISTAT della provincia di Pordenone aggiornate al 2017, dove dei paesi di origine dei tuareg – soprattutto il Niger per la comunità pordenonese, insieme a Mali, Algeria, Burkina Faso e Libia – solo due rientrano nelle prime dieci posizioni, ma con un grosso scarto rispetto alle ben più ampie comunità ghanese e marocchina.
«In Italia trovi tuareg anche a Milano, Roma, Napoli e nelle province di Pisa e Bologna, durante le ferie a volte facciamo un gruppo e andiamo a trovarli. Ma sono nuclei piccoli, famiglie. Qui a Pordenone abbiamo la comunità più grande, siamo proprio cresciuti negli anni. Ma non è che tutti quelli che vengono dai paesi che ti dicevamo siano tuareg», mi mette in guardia Moulla, «alcuni dicono di esserlo e non è vero. Ci è capitato persino che qualcuno ci chiedesse di conoscerci per sapere se siamo tuareg veri». Il ricordo suscita una leggera risata generale.
Cerco di capire meglio che cosa contraddistingua un tuareg: «Per noi essere tuareg non vuol dire mettersi il chèche – un altro modo di indicare il tagelmoust – o parlare la lingua, il tamasheq. È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».
Per darmene traduzione si apre una breve disquisizione filologica. Mohammed continua a intervenire in tamasheq, ma la cadenza dei suoi interventi mi fa capire che sta seguendo tutto ciò che ci diciamo. Alla fine, i presenti si trovano d’accordo su pudore.
«È una parola chiave, un termine di identificazione che distingue i tuareg da tutte le altre popolazioni. L’essere pulito. Come una costituzione che non puoi violare, non perché ci siano leggi a stabilirlo, ma perché la vergogna di creare un danno alla comunità corrode molto più di qualsiasi norma».
Per spiegare il concetto, Moulla asseconda la mia richiesta di narrarci una storia tuareg, la fiaba di un ladro che si redime dopo scoperto di aver rubato anche a chi non possedeva niente. Lo ascoltano tutti con grande attenzione, come fosse la prima volta che la sentono.
Accompagnato da un tintinnio di vetro, Moussa entra con un vassoio argentato pieno di bicchierini. Impugna una piccola teiera scura e riprende il cerimoniale del tè. Alza la teiera oltre il livello della testa, versando la bevanda con grande precisione. È evidente che gli dà una certa soddisfazione. Me ne versa uno, sa di foglie e zucchero. Mentre lo distribuisce, si accoda al discorso e specifica che il suo villaggio – Abardek, centodieci chilometri da Agadez in Niger – ha millecinquecento abitanti e neanche un poliziotto: «I capi religiosi e i capi tribù gestiscono e dirimono le controversie, ma ashek ti dà una spinta molto grande nel superare le difficoltà. Abbracciando il mondo, che ti viene incontro ovunque tu sia».
Dopo un primo periodo a Brescia, a partire da inizio anni Novanta i Tuareg hanno iniziato a spostarsi verso il capoluogo friulano. Uno dei primi è stato Haddo, presidente uscente dell’associazione Mondo Tuareg, seduto controluce. Entrando si è tolto il cappello. Quando scende il silenzio, riprende sempre a guardarmi e mi invita a porre domande precise, ascolta tutto con grande attenzione: «Brescia è una città con tante industrie, ma l’affitto costa caro. Difficile. Abbiamo saputo che anche Pordenone offriva delle possibilità lavorative, ma che le case erano più accessibili. È stato in primo luogo per questo che l’abbiamo scelta. E gradualmente si è aggiunto uno, poi un altro, poi un altro ancora. Ci siamo trovati bene, perché la città è stata ospitale con noi».
Chiedo ai miei interlocutori quale sia il loro primo ricordo di Pordenone. Per Moulla, neopresidente dell’associazione, è la frase di un’amica di Udine: «L’inizio di vita in un nuovo posto è sempre difficile. Non sapevamo come farci conoscere, come parlare della nostra comunità. Ci disse che, una volta conosciute le persone, qui avremmo avuto dei buoni amici. E noi pian piano ci abbiamo provato. Abbiamo creato l’associazione perché esserci inseriti nella routine lavorativa non ci bastava. Oggi viviamo un’integrazione non più raccontata, ma di reale convivenza”.
Dai racconti dei presenti emerge una quotidianità compenetrata alla vita pordenonese, vissuta con la discrezione di un’abitudine consolidata e raccontata con la linearità di un processo ormai ben avviato: «Molti di noi hanno ottenuto la cittadinanza. I nostri figli giocano insieme a bambini di Pordenone, noi stessi abbiamo molti amici qui e ci facciamo visita l’un l’altro, oppure li invitiamo quando ci incontriamo fra tuareg. Frequentiamo il centro, il sabato ci piace andare al mercato. Abbiamo aperto le case ai nostri vicini e loro le hanno aperte a noi. Siamo in una convivenza ben riuscita. Non tutti sanno che esiste la nostra comunità, ma siamo sempre più parte di questa città».
Ogni tanto qualche cellulare inizia a vibrare. Mi spiegano che sono in corso gli ultimi preparativi per una festa che si terrà di lì a pochi giorni, ospitata in un oratorio: una serata che si concluderà con una lunga passeggiata fino alla piana dei Magredi a Cordenons, una distesa di sassi dove poter preparare il fuoco. Un fiume in secca come reminiscenza più prossima a un ambiente desertico.
La maggioranza dei tuareg residenti a Pordenone lavora in fabbrica, me lo dicono rispettosamente ma non sembrano molto interessati ad approfondire. Nei loro paesi di origine sono abitanti nomadi del più inospitale degli ambienti terrestri, carovanieri attraverso i deserti: «I primi che hanno saputo della colonizzazione in Africa, gli ultimi a non ottenere l’indipendenza» precisa Haddo.
«Il popolo tuareg è nato già così: un paese per noi è stato previsto, ma la storia è andata diversamente. Siamo finiti sotto un’altra colonizzazione, araba a nord e del governo centrale a sud».
Il riferimento di Haddo, che tutti i presenti colgono e condividono con gravità, ripercorre buona parte della storia della repressione dei tuareg e dell’Africa in generale, estendendosi tra l’espansione islamica proveniente da nord a partire dal settimo secolo e la divisione politica degli stati tuareg imposta a inizio Novecento dalla colonizzazione francese, che nel 1909 aprì una mappa e tracciò i confini di Mali, Algeria e Niger. «È una divisione che ha reso impossibile pensare a qualsiasi progetto importante per il nostro popolo. Non avendo un paese in senso proprio, lo diventa ogni luogo in cui andiamo».
E vent’anni di burocrazia italiana e contratti di affitto non hanno cambiato questa spinta al movimento: «Viviamo la vita nomade proprio dentro di noi. Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri». Haddo si ferma un istante, sceglie con cura le parole. «La cosa che ci dispiace tanto qui è la mancanza del tempo. Tutti corrono dietro all’orologio, questo è l’aspetto di maggiore sofferenza per noi. Chi è rimasto qui avuto proprio un gran coraggio per superare questa prova».
Quella contro la frammentazione del tempo non sembra l’unica sfida che una minoranza etnica si può trovare a vivere nel 2018: lo dico, ma l’osservazione cade nel silenzio. Dopo qualche secondo, Moulla smentisce di aver mai vissuto sulla propria pelle «gli episodi che si vedono in televisione». Mentre lo dice sembra affondarsi ancora di più nella poltrona, quasi a prendere le distanze dallo schermo appeso davanti a sé.
C’è però anche un dato, ed è che i tuareg sono un popolo libero ma attento, forgiato dalla conoscenza degli spazi del deserto e consapevole di ciò che scatenano le risorse nascoste sotto le distese di sabbia. A dirlo sono loro stessi attraverso la loro poesia, che da fine Ottocento ha smesso di dedicarsi alla celebrazione della donna per raccontare una terra ambita e saccheggiata.
«Le poesie antiche cantano la bellezza della donna, degli spazi. È ciò di cui scrivi quando le cose vanno bene. Quando le cose cambiano, le poesie cambiano». Moulla mi getta un’occhiata. «Oggi, la poesia è un incoraggiamento per resistere, la voce dei movimenti di ribellione. Alcuni vorrebbero sgomberare il popolo tuareg: sotto terra, lì, c’è la ricchezza».
Petrolio, rame, oro e diamanti uniti all’improvviso in un solo articolo determinativo.
«È una poesia che si accompagna alla musica. Come un’ambasciatrice, una lancia per far conoscere agli altri questo problema. Spesso i combattenti ribelli registrano queste composizioni su nastro: in Niger, se il governo centrale ti trova con una di queste cassette o con un kalashnikov è la stessa cosa».
Ci diamo appuntamento fra tre giorni, per assistere ai preparativi della festa e incontrare chi oggi non ha potuto raggiungerci. Moussa si offre di riportarmi in stazione in macchina. Appena la accende parte il disco lasciato nello stereo dell’auto: Bombino, che tutti loro conoscono benissimo insieme ai Tinariwen. Colgo un certo orgoglio per il successo italiano ed europeo delle due formazioni tuareg. Quando sto per uscire, Haddo mi saluta con un’espressione pensosa e coglie l’occasione per chiudere un discorso lasciato in sospeso. Colgo che vuole anche farmi capire che, nonostante le reazioni composte, la mia domanda di poco prima è stata capita benissimo: «Prima ci chiedevi di Salvini e non ti abbiamo risposto. È vero che è un momento in cui c’è chi soffia sul fuoco. Ma i fuochi, prima o poi, si spengono».
A casa, mi imbatto in un tutorial di YouTube più che basilare di frasi quotidiane in tamasheq. A parlare è Mohamed Hamza, il volto incorniciato da un turbante bianco, visibile dagli occhi al principio di due grossi baffi: «Nella lingua tuareg non si esprimono i sentimenti. Sarebbe un segno di debolezza, perché il valore del comportamento è valutato non in base a ciò che uno dice, ma in base a ciò che fa. È strano per me quando mi chiedono di tradurre “Buon appetito”, perché noi non lo diciamo. Come tuareg agiamo, più che parlare».
Il sabato seguente torno a Pordenone. È una mattina soleggiata e tranquilla, per strada non c’è nessuno. Su più o meno tutte le pareti esterne degli edifici che compongono l’oratorio San Lorenzo, un anonimo se l’è presa con Pasolini, incalzandolo a colpi di insulti e bomboletta bianca: Pasolini, pensate di insegnarci qualcosa?!.
Le cucine del comprensorio sono invase da un fortissimo odore di carne e cavolo cappuccio, che stanno cuocendo in quantità industriali dentro a pentole gigantesche su cui qualcuno ha scritto a pennarello “Mondo Tuareg”. All’opera, fra svolazzi di vesti colorate e infradito, sei donne, che spostano i pentoloni da un fuoco all’altro chiacchierando tra loro in tamasheq. Al mio arrivo si fanno più riservate. Sono vestite a festa. Vedendomi, una di loro mi coinvolge iniziando a dire in italiano il nome di qualche ingrediente. Mi indica con risposte secche i piatti che stanno preparando, cous cous e fanké, poi si allontana. Appena fuori intravedo Ghaicha, intenta nel taglio di una cassetta di peperoni. Insieme ai tuareg, gli unici presenti a quest’ora sono i volontari dell’Associazione Ritmi e Danze del Mondo di Giavera del Montello, presenti per offrire supporto logistico e incaricati di preparare i piatti della tradizione friulana che saranno serviti questa sera accanto ai corrispondenti africani. Notata la macchina, mi invitano ad aspettare che tutti abbiano guanti, cuffiette e grembiuli, prima di scattare.
In Italia, le donne tuareg hanno mantenuto la funzione esercitata con fierezza nel deserto, la custodia della tenda declinata nella sua variante sedentaria. A raccontarmelo è comunque Moussa, perché tutte le cuoche, oltre a essere concentrate sulla preparazione dei piatti, sembrano meno propense a parlare in italiano. «Noi non abbiamo scuole, quello che scriviamo è sulla sabbia e il giorno dopo già non c’è più. Siamo via per mesi e quando torniamo stiamo già pensando a ripartire. La donna è fondamentale, è lei che ha il controllo della tenda, che gestisce tutto. Per questo dicono che nei paesi tuareg comandano le donne. Questo ce lo siamo portati anche qui».
Mentre racconta, noto che indossa una veste di un intenso azzurro, insieme al turbante che gli ho già visto addosso pochi giorni prima. Gli chiedo se sia quello il colore del popolo blu: «Sì. Perché poi rimane sulla pelle e allora ci chiamano popolo blu» sintetizza.
L’ampio salone della parrocchia è stato riempito di tavoli con tovaglie arancioni e bianche e panche e ornato a festa: al centro di quattro arazzi colorati, una grande fotografia del deserto sovrasta la carta politica dell’Africa del nord. Nella stampa la terra è stata lasciata bianca, increspata da alcuni rilievi montuosi colorati di nero e attraversata da alcune esili linee azzurre. Al centro, una figura gialla a forma di pesce indica le terre abitate dai tuareg: ricopre una piccola porzione fisica di tutti i paesi che la circondano, ma non coincide con nessuno dei confini segnati in rosa. Sul palcoscenico, una sella per dromedario. In alcuni cestoni di vimini, aspettano scintillanti alcune piccole sorprese impacchettate. È una sala che potrebbe ospitare indifferentemente una festa, una funzione religiosa o un saggio di danza.
Appena fuori dal salone, tre ragazzini giocano a basket nel campetto dell’oratorio, poi si fermano e iniziano a parlare degli esami di maturità. Si chiedono quale sarebbe la risposta corretta se qualcuno chiedesse loro cos’è la Costituzione. In un angolo siede Ibrahim, un signore di mezza età, che mi viene presentato come lo scrittore del gruppo. Sta ripassando da alcuni fogli le letture che ha preparato per questa sera, gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Sul retro del fascicolo la pagina è stata lasciata vuota e spicca solo un proverbio, evidenziato in giallo e stampato con un carattere leggermente più grande: Ciò che il deserto vuole è del deserto.
Gli chiedo se ci sia stato spesso, per un attimo vedo nei suoi occhi un lampo sbigottito e insieme ironico. «È come se io ti chiedessi se sei mai stata al mare».
Inizia a raccontarmi la varietà di paesaggi del deserto: la distesa piatta, il deserto a dune, il deserto roccioso. “Il deserto negli occhi”, come titola il suo libro biografico, dall’infanzia al lavoro per venticinque anni come guida turistica nelle terre tuareg in Africa, dopo essere stato costretto alla fuga nel 2007 con l’accusa di aver appoggiato la rivolta tuareg contro lo sfruttamento dell’uranio e aver ottenuto lo status di rifugiato politico.
«Ma i ricchi rompono le scatole nel deserto. Personalità incredibili di Milano che chiedono tavola e panche per mangiare. E ti fanno le stesse domande ogni giorno: Lì è una capra? Sì, è una capra. Dopo cento metri, quella lì è una capra? Sì, quella è bianca, questa è nera».
Scoppiamo tutti a ridere. Moussa entra nel salone per dirci che sta andando a recuperare Aziz, un musicista tuareg bolognese che questa sera si esibirà durante la festa. Chiedo a Ibrahim se gli sia mai successo di perdersi nel deserto: «È capitato. Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni. Ti perdi quando stai andando e hai nella testa qualcos’altro – si porta due dita alla tempia – quando sei distratto. Ma sei, massimo dieci chilometri, nulla di grave. Però non hai assistenza. Il deserto ti insegna ad affidarti a te stesso e questo è ciò che poi ti porti dentro di più. Chi ama il deserto ne vorrebbe sempre di più».
Mentre sto tornando a casa, ripenso alle parole di uno dei maggiori poeti contemporanei tuareg, Mahmoudan Hawad:
Quando il mio corpo cadrà sfinito
seppellitelo laggiù, sotto la duna
il midollo farà da humus.
La mia anima partirà gridando come un cammello
verso gli oceani
di cui nessuno custodisce gli accessi.
«Dicono che, per stare bene dove si allunga un’ombra, bisogna prendere il colore della sua oscurità».
Moulla mi rivolge un leggero sorriso. È un signore di mezza età, la testa ricoperta di piccoli ricci bianchi. Parla piano e lentamente, i suoi occhi vagano lungo le pareti blu della stanza, tornando a me quando gli sembra che la frase sia conclusa.
«Fa parte dell’educazione dei tuareg, ovunque vanno, non dire mai siamo stranieri o siamo immigrati. Noi siamo cittadini, perché dappertutto consideriamo quel paese proprietà di nessuno. Dove chi si comporta e lavora bene non ha mai la sensazione di essere straniero. E questa terra è sua perché chi lo sa, magari muore qua». Parla in terza persona, ma capisco che sta riferendo questa eventualità a se stesso. L’affermazione è accolta dai presenti con un silenzio rispettoso e tranquillo.
Siamo nel salotto di Mohammed, che ci ha accolti a casa sua ma rimarrà sempre zitto, ad esclusione di alcuni brevi commenti in tamasheq, la lingua del popolo tuareg – una lingua berbera. Suo figlio Abdouljalil si è addormentato disteso sopra uno dei vecchi divani che arredano la stanza, a metà della conversazione comincia a sospirare quasi impercettibilmente. Mohammed e Moussa gli sfilano con delicatezza la casacchetta del Milan che aveva addosso quando è venuto ad aprirmi.
Da un lato del salotto, le persiane della portafinestra pressoché del tutto abbassate scuriscono ulteriormente la tinta blu dei muri e gettano un’ombra a righe lungo due grossi tappeti, sui quali è appoggiato un bassissimo tavolino nero. È un arredamento che mescola insieme un gusto nordafricano e un senso di mobili trovati, più che scelti.
«Pordenone capitale tuareg» mi dice all’improvviso
In questa abitazione in affitto al piano terra di un reticolo di strade appena fuori dal centro, oggi si sono resi disponibili a incontrarmi alcuni membri della comunità tuareg di Pordenone. L’entrata di ognuno è accolta da reciproci As-Salaam-Alaikum a bassa voce e da una stretta di mano a me.
Mi accolgono in una villetta a schiera sobria ma dagli interni vivaci. Su una parete dell’ingresso, tinteggiato di un arancione gentile, i disegni di Abdouljalil sono stati appesi con adesivi e un piccolo chiodino. Il pavimento è costellato delle scarpe che tutti si tolgono appena entrano, quelle di Abdouljalil giacciono abbandonate l’una distante dall’altra. C’è un certo via vai: la moglie di Mohammed, Ghaicha, sta scaldando qualcosa ai fornelli per la merenda del figlio, poi si ritirerà in camera e non la vedrò più, salvo per lo scatto veloce di una fotografia. Ne prende il posto Moussa, che inizia a preparare un tè: è un ragazzo giovane, ne osservo di spalle la veste azzurro chiaro e il tagelmust indaco arrotolato intorno alla testa, mentre travasa con solennità l’acqua da una piccola teiera ad un’altra, centrandone sempre l’apertura. «Pordenone capitale Tuareg» mi dice all’improvviso. Fa una breve risata e riprende a occuparsi del tè.
Con i suoi cinquanta componenti, un terzo di tutti quelli presenti sul suolo nazionale, la comunità tuareg di Pordenone è anche la più grande in Italia. Numeri importanti in senso assoluto, che rivelano una minor tangibilità dando un’occhiata alle classifiche ISTAT della provincia di Pordenone aggiornate al 2017, dove dei paesi di origine dei tuareg – soprattutto il Niger per la comunità pordenonese, insieme a Mali, Algeria, Burkina Faso e Libia – solo due rientrano nelle prime dieci posizioni, ma con un grosso scarto rispetto alle ben più ampie comunità ghanese e marocchina.
«In Italia trovi tuareg anche a Milano, Roma, Napoli e nelle province di Pisa e Bologna, durante le ferie a volte facciamo un gruppo e andiamo a trovarli. Ma sono nuclei piccoli, famiglie. Qui a Pordenone abbiamo la comunità più grande, siamo proprio cresciuti negli anni. Ma non è che tutti quelli che vengono dai paesi che ti dicevamo siano tuareg», mi mette in guardia Moulla, «alcuni dicono di esserlo e non è vero. Ci è capitato persino che qualcuno ci chiedesse di conoscerci per sapere se siamo tuareg veri». Il ricordo suscita una leggera risata generale.
Cerco di capire meglio che cosa contraddistingua un tuareg: «Per noi essere tuareg non vuol dire mettersi il chèche – un altro modo di indicare il tagelmoust – o parlare la lingua, il tamasheq. È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».
«È un’identità culturale che portiamo dentro di noi. C’è una parola: ashek».
Per darmene traduzione si apre una breve disquisizione filologica. Mohammed continua a intervenire in tamasheq, ma la cadenza dei suoi interventi mi fa capire che sta seguendo tutto ciò che ci diciamo. Alla fine, i presenti si trovano d’accordo su pudore.
«È una parola chiave, un termine di identificazione che distingue i tuareg da tutte le altre popolazioni. L’essere pulito. Come una costituzione che non puoi violare, non perché ci siano leggi a stabilirlo, ma perché la vergogna di creare un danno alla comunità corrode molto più di qualsiasi norma».
Per spiegare il concetto, Moulla asseconda la mia richiesta di narrarci una storia tuareg, la fiaba di un ladro che si redime dopo scoperto di aver rubato anche a chi non possedeva niente. Lo ascoltano tutti con grande attenzione, come fosse la prima volta che la sentono.
Accompagnato da un tintinnio di vetro, Moussa entra con un vassoio argentato pieno di bicchierini. Impugna una piccola teiera scura e riprende il cerimoniale del tè. Alza la teiera oltre il livello della testa, versando la bevanda con grande precisione. È evidente che gli dà una certa soddisfazione. Me ne versa uno, sa di foglie e zucchero. Mentre lo distribuisce, si accoda al discorso e specifica che il suo villaggio – Abardek, centodieci chilometri da Agadez in Niger – ha millecinquecento abitanti e neanche un poliziotto: «I capi religiosi e i capi tribù gestiscono e dirimono le controversie, ma ashek ti dà una spinta molto grande nel superare le difficoltà. Abbracciando il mondo, che ti viene incontro ovunque tu sia».
Dopo un primo periodo a Brescia, a partire da inizio anni Novanta i Tuareg hanno iniziato a spostarsi verso il capoluogo friulano. Uno dei primi è stato Haddo, presidente uscente dell’associazione Mondo Tuareg, seduto controluce. Entrando si è tolto il cappello. Quando scende il silenzio, riprende sempre a guardarmi e mi invita a porre domande precise, ascolta tutto con grande attenzione: «Brescia è una città con tante industrie, ma l’affitto costa caro. Difficile. Abbiamo saputo che anche Pordenone offriva delle possibilità lavorative, ma che le case erano più accessibili. È stato in primo luogo per questo che l’abbiamo scelta. E gradualmente si è aggiunto uno, poi un altro, poi un altro ancora. Ci siamo trovati bene, perché la città è stata ospitale con noi».
Chiedo ai miei interlocutori quale sia il loro primo ricordo di Pordenone. Per Moulla, neopresidente dell’associazione, è la frase di un’amica di Udine: «L’inizio di vita in un nuovo posto è sempre difficile. Non sapevamo come farci conoscere, come parlare della nostra comunità. Ci disse che, una volta conosciute le persone, qui avremmo avuto dei buoni amici. E noi pian piano ci abbiamo provato. Abbiamo creato l’associazione perché esserci inseriti nella routine lavorativa non ci bastava. Oggi viviamo un’integrazione non più raccontata, ma di reale convivenza”.
Dai racconti dei presenti emerge una quotidianità compenetrata alla vita pordenonese, vissuta con la discrezione di un’abitudine consolidata e raccontata con la linearità di un processo ormai ben avviato: «Molti di noi hanno ottenuto la cittadinanza. I nostri figli giocano insieme a bambini di Pordenone, noi stessi abbiamo molti amici qui e ci facciamo visita l’un l’altro, oppure li invitiamo quando ci incontriamo fra tuareg. Frequentiamo il centro, il sabato ci piace andare al mercato. Abbiamo aperto le case ai nostri vicini e loro le hanno aperte a noi. Siamo in una convivenza ben riuscita. Non tutti sanno che esiste la nostra comunità, ma siamo sempre più parte di questa città».
Ogni tanto qualche cellulare inizia a vibrare. Mi spiegano che sono in corso gli ultimi preparativi per una festa che si terrà di lì a pochi giorni, ospitata in un oratorio: una serata che si concluderà con una lunga passeggiata fino alla piana dei Magredi a Cordenons, una distesa di sassi dove poter preparare il fuoco. Un fiume in secca come reminiscenza più prossima a un ambiente desertico.
La maggioranza dei tuareg residenti a Pordenone lavora in fabbrica, me lo dicono rispettosamente ma non sembrano molto interessati ad approfondire. Nei loro paesi di origine sono abitanti nomadi del più inospitale degli ambienti terrestri, carovanieri attraverso i deserti: «I primi che hanno saputo della colonizzazione in Africa, gli ultimi a non ottenere l’indipendenza» precisa Haddo.
«Il popolo tuareg è nato già così: un paese per noi è stato previsto, ma la storia è andata diversamente. Siamo finiti sotto un’altra colonizzazione, araba a nord e del governo centrale a sud».
Il riferimento di Haddo, che tutti i presenti colgono e condividono con gravità, ripercorre buona parte della storia della repressione dei tuareg e dell’Africa in generale, estendendosi tra l’espansione islamica proveniente da nord a partire dal settimo secolo e la divisione politica degli stati tuareg imposta a inizio Novecento dalla colonizzazione francese, che nel 1909 aprì una mappa e tracciò i confini di Mali, Algeria e Niger. «È una divisione che ha reso impossibile pensare a qualsiasi progetto importante per il nostro popolo. Non avendo un paese in senso proprio, lo diventa ogni luogo in cui andiamo».
E vent’anni di burocrazia italiana e contratti di affitto non hanno cambiato questa spinta al movimento: «Viviamo la vita nomade proprio dentro di noi. Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri». Haddo si ferma un istante, sceglie con cura le parole. «La cosa che ci dispiace tanto qui è la mancanza del tempo. Tutti corrono dietro all’orologio, questo è l’aspetto di maggiore sofferenza per noi. Chi è rimasto qui avuto proprio un gran coraggio per superare questa prova».
«Anche qui a Pordenone, siamo persone che vogliono sempre cambiare casa e quartiere, ci trasferiamo spesso. Qui non si può piantare la tenda, però non siamo ancora legati ai quattro muri».
Quella contro la frammentazione del tempo non sembra l’unica sfida che una minoranza etnica si può trovare a vivere nel 2018: lo dico, ma l’osservazione cade nel silenzio. Dopo qualche secondo, Moulla smentisce di aver mai vissuto sulla propria pelle «gli episodi che si vedono in televisione». Mentre lo dice sembra affondarsi ancora di più nella poltrona, quasi a prendere le distanze dallo schermo appeso davanti a sé.
C’è però anche un dato, ed è che i tuareg sono un popolo libero ma attento, forgiato dalla conoscenza degli spazi del deserto e consapevole di ciò che scatenano le risorse nascoste sotto le distese di sabbia. A dirlo sono loro stessi attraverso la loro poesia, che da fine Ottocento ha smesso di dedicarsi alla celebrazione della donna per raccontare una terra ambita e saccheggiata.
«Le poesie antiche cantano la bellezza della donna, degli spazi. È ciò di cui scrivi quando le cose vanno bene. Quando le cose cambiano, le poesie cambiano». Moulla mi getta un’occhiata. «Oggi, la poesia è un incoraggiamento per resistere, la voce dei movimenti di ribellione. Alcuni vorrebbero sgomberare il popolo tuareg: sotto terra, lì, c’è la ricchezza».
Petrolio, rame, oro e diamanti uniti all’improvviso in un solo articolo determinativo.
«È una poesia che si accompagna alla musica. Come un’ambasciatrice, una lancia per far conoscere agli altri questo problema. Spesso i combattenti ribelli registrano queste composizioni su nastro: in Niger, se il governo centrale ti trova con una di queste cassette o con un kalashnikov è la stessa cosa».
Ci diamo appuntamento fra tre giorni, per assistere ai preparativi della festa e incontrare chi oggi non ha potuto raggiungerci. Moussa si offre di riportarmi in stazione in macchina. Appena la accende parte il disco lasciato nello stereo dell’auto: Bombino, che tutti loro conoscono benissimo insieme ai Tinariwen. Colgo un certo orgoglio per il successo italiano ed europeo delle due formazioni tuareg. Quando sto per uscire, Haddo mi saluta con un’espressione pensosa e coglie l’occasione per chiudere un discorso lasciato in sospeso. Colgo che vuole anche farmi capire che, nonostante le reazioni composte, la mia domanda di poco prima è stata capita benissimo: «Prima ci chiedevi di Salvini e non ti abbiamo risposto. È vero che è un momento in cui c’è chi soffia sul fuoco. Ma i fuochi, prima o poi, si spengono».
A casa, mi imbatto in un tutorial di YouTube più che basilare di frasi quotidiane in tamasheq. A parlare è Mohamed Hamza, il volto incorniciato da un turbante bianco, visibile dagli occhi al principio di due grossi baffi: «Nella lingua tuareg non si esprimono i sentimenti. Sarebbe un segno di debolezza, perché il valore del comportamento è valutato non in base a ciò che uno dice, ma in base a ciò che fa. È strano per me quando mi chiedono di tradurre “Buon appetito”, perché noi non lo diciamo. Come tuareg agiamo, più che parlare».
Il sabato seguente torno a Pordenone. È una mattina soleggiata e tranquilla, per strada non c’è nessuno. Su più o meno tutte le pareti esterne degli edifici che compongono l’oratorio San Lorenzo, un anonimo se l’è presa con Pasolini, incalzandolo a colpi di insulti e bomboletta bianca: Pasolini, pensate di insegnarci qualcosa?!.
Le cucine del comprensorio sono invase da un fortissimo odore di carne e cavolo cappuccio, che stanno cuocendo in quantità industriali dentro a pentole gigantesche su cui qualcuno ha scritto a pennarello “Mondo Tuareg”. All’opera, fra svolazzi di vesti colorate e infradito, sei donne, che spostano i pentoloni da un fuoco all’altro chiacchierando tra loro in tamasheq. Al mio arrivo si fanno più riservate. Sono vestite a festa. Vedendomi, una di loro mi coinvolge iniziando a dire in italiano il nome di qualche ingrediente. Mi indica con risposte secche i piatti che stanno preparando, cous cous e fanké, poi si allontana. Appena fuori intravedo Ghaicha, intenta nel taglio di una cassetta di peperoni. Insieme ai tuareg, gli unici presenti a quest’ora sono i volontari dell’Associazione Ritmi e Danze del Mondo di Giavera del Montello, presenti per offrire supporto logistico e incaricati di preparare i piatti della tradizione friulana che saranno serviti questa sera accanto ai corrispondenti africani. Notata la macchina, mi invitano ad aspettare che tutti abbiano guanti, cuffiette e grembiuli, prima di scattare.
In Italia, le donne tuareg hanno mantenuto la funzione esercitata con fierezza nel deserto, la custodia della tenda declinata nella sua variante sedentaria. A raccontarmelo è comunque Moussa, perché tutte le cuoche, oltre a essere concentrate sulla preparazione dei piatti, sembrano meno propense a parlare in italiano. «Noi non abbiamo scuole, quello che scriviamo è sulla sabbia e il giorno dopo già non c’è più. Siamo via per mesi e quando torniamo stiamo già pensando a ripartire. La donna è fondamentale, è lei che ha il controllo della tenda, che gestisce tutto. Per questo dicono che nei paesi tuareg comandano le donne. Questo ce lo siamo portati anche qui».
Mentre racconta, noto che indossa una veste di un intenso azzurro, insieme al turbante che gli ho già visto addosso pochi giorni prima. Gli chiedo se sia quello il colore del popolo blu: «Sì. Perché poi rimane sulla pelle e allora ci chiamano popolo blu» sintetizza.
L’ampio salone della parrocchia è stato riempito di tavoli con tovaglie arancioni e bianche e panche e ornato a festa: al centro di quattro arazzi colorati, una grande fotografia del deserto sovrasta la carta politica dell’Africa del nord. Nella stampa la terra è stata lasciata bianca, increspata da alcuni rilievi montuosi colorati di nero e attraversata da alcune esili linee azzurre. Al centro, una figura gialla a forma di pesce indica le terre abitate dai tuareg: ricopre una piccola porzione fisica di tutti i paesi che la circondano, ma non coincide con nessuno dei confini segnati in rosa. Sul palcoscenico, una sella per dromedario. In alcuni cestoni di vimini, aspettano scintillanti alcune piccole sorprese impacchettate. È una sala che potrebbe ospitare indifferentemente una festa, una funzione religiosa o un saggio di danza.
Appena fuori dal salone, tre ragazzini giocano a basket nel campetto dell’oratorio, poi si fermano e iniziano a parlare degli esami di maturità. Si chiedono quale sarebbe la risposta corretta se qualcuno chiedesse loro cos’è la Costituzione. In un angolo siede Ibrahim, un signore di mezza età, che mi viene presentato come lo scrittore del gruppo. Sta ripassando da alcuni fogli le letture che ha preparato per questa sera, gli occhiali appoggiati sulla punta del naso. Sul retro del fascicolo la pagina è stata lasciata vuota e spicca solo un proverbio, evidenziato in giallo e stampato con un carattere leggermente più grande: Ciò che il deserto vuole è del deserto.
«Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni».
Gli chiedo se ci sia stato spesso, per un attimo vedo nei suoi occhi un lampo sbigottito e insieme ironico. «È come se io ti chiedessi se sei mai stata al mare».
Inizia a raccontarmi la varietà di paesaggi del deserto: la distesa piatta, il deserto a dune, il deserto roccioso. “Il deserto negli occhi”, come titola il suo libro biografico, dall’infanzia al lavoro per venticinque anni come guida turistica nelle terre tuareg in Africa, dopo essere stato costretto alla fuga nel 2007 con l’accusa di aver appoggiato la rivolta tuareg contro lo sfruttamento dell’uranio e aver ottenuto lo status di rifugiato politico.
«Ma i ricchi rompono le scatole nel deserto. Personalità incredibili di Milano che chiedono tavola e panche per mangiare. E ti fanno le stesse domande ogni giorno: Lì è una capra? Sì, è una capra. Dopo cento metri, quella lì è una capra? Sì, quella è bianca, questa è nera».
Scoppiamo tutti a ridere. Moussa entra nel salone per dirci che sta andando a recuperare Aziz, un musicista tuareg bolognese che questa sera si esibirà durante la festa. Chiedo a Ibrahim se gli sia mai successo di perdersi nel deserto: «È capitato. Nel deserto non ci sono mica strade, solo direzioni. Ti perdi quando stai andando e hai nella testa qualcos’altro – si porta due dita alla tempia – quando sei distratto. Ma sei, massimo dieci chilometri, nulla di grave. Però non hai assistenza. Il deserto ti insegna ad affidarti a te stesso e questo è ciò che poi ti porti dentro di più. Chi ama il deserto ne vorrebbe sempre di più».
Mentre sto tornando a casa, ripenso alle parole di uno dei maggiori poeti contemporanei tuareg, Mahmoudan Hawad:
Quando il mio corpo cadrà sfinito
seppellitelo laggiù, sotto la duna
il midollo farà da humus.
La mia anima partirà gridando come un cammello
verso gli oceani
di cui nessuno custodisce gli accessi.