Trasimeno era un principe, figlio del dio Tirreno, narra la leggenda. Vagava nelle terre d’Etruria, in Italia centrale, s’imbatté in un lago: sostò sulle sue rive, vi si tuffò. Lo scorse una ninfa. Lui scorse lei, ne sentì il canto. Di colpo s’innamorò, perse il senso dell’orientamento, il senso di sé, annegò e il suo corpo non fu più ritrovato. Da allora quello specchio d’acqua – poco profondo, cinque o sei metri al massimo – porta il suo nome. L’Isola Maggiore è una delle tre isole che emergono dal Trasimeno, in realtà non la più estesa. Oggi conta sedici abitanti. Ogni estate, in media, sbarcano qui centoventimila turisti.
Non esistono alimentari, non c’è un medico. La prima volta che sono approdata qui, è stato in settembre: m’immaginavo di trovare quel senso di comunità, quello spirito di collaborazione e serenità che si tende a proiettare sui piccoli luoghi appartati, isolati; spesso idealizzandoli.
Il traghetto partiva da Tuoro sul Trasimeno. Sul lungo pontile assolato ho incontrato Chiara e suo nonno: lei lavora sull’isola, lui la guarda partire ogni mattina e tornare ogni sera. Mi ha invitato a salire con lei sulla barca del fidanzato Juri, insieme ad un gruppo di americani.
Attracchiamo nel piccolo porticciolo sull’Isola. Dietro di noi arriva già un secondo traghetto, il Concordia II. Ripenso alle parole di Alessandro Gabbellini, nato sull’isola e titolare del ristorante “All’antico orologio”; le ho lette sul blog di Jean Wilmotte, olandese trasferitosi qui, uno dei pochi a trasmettere informazioni sul luogo.
«L’azienda dei trasporti per l’orario invernale, a partire dal 2015, ha eliminato quelle corse intermedie fondamentali per la vita degli abitanti ma anche per la sopravvivenza delle attività commerciali che mantengono viva una meta turistica che in un anno accoglie 120mila presenze. Se uno dei nostri anziani avesse bisogno di andare in farmacia è costretto a partire alle 8:11. Ve lo immaginate in una mattina d’inverno? E il rientro? Solo intorno a mezzogiorno. Per non parlare della domenica e dei festivi: i primi traghetti arrivano all’isola alle 10:35. Un cuoco, un cameriere non possono iniziare a lavorare a quell’ora. Tanto che ultimamente i tre locali sono stati costretti a chiudere nella stagione invernale: non si può lavorare con questi orari. E il Comune di Tuoro dov’è?»
Cammino lungo la strada principale, su cui si affacciano i portoni usurati di chi ha sempre vissuto di pesca. Non è difficile individuare chi sull’isola ci vive. Mi avvicino ad uno di loro. Se ne sta seduto su una panchina ombreggiata e osserva le persone passare, lo sguardo assente e sereno. Mi presento e lui lo fa con me. Si chiama Rolando, è nato qui nel 1938 e sembra non attendere altro che un po’ di attenzione, così mi siedo al suo fianco.
«Durante l’inverno ci levano tutti i battelli che ci sono ora, rimangono quattro corse , una al mattino, quella che prende mio figlio per andare a lavorare, una a mezzogiorno, una alle 3, e una alle 7 della sera. È un problema grosso: se ci prende qualche malattia, qualsiasi cosa, facciamo i corni, è un grosso problema. Le attività chiudono, ristoranti compresi, l’unica cosa che resta aperta è il bar tabacchi».
Mi interessano le scelte, le decisioni prese e quelle rimandate così a lungo da diventare a loro volta una posizione. Mi interessa quello sguardo e ciò che ha da raccontarmi, così approfondisco. Le domande sono concise così come le risposte; ma, con pazienza, si trasformano in una storia. La storia di un bambino che si è fermato alla quinta elementare per salire su una barca con i fratelli più grandi. Del bambino che diventa un ragazzo ed entra a far parte di una comunità di 40 pescatori, organizzati in una cooperativa, che vendeva il pesce sulla terraferma per guadagnarsi da vivere. La storia del lago, che nel 1956 si è prosciugato così tanto da non poter pescare più, solo alghe, una distesa di alghe marroni.
«Questo ha messo in crisi l’economia e così, tanti giovani se ne sono andati, tanti giovani che avrebbero potuto creare famiglia qui». Le mani si strofinano l’una contro l’altra mentre lascia fluire i ricordi, lo sguardo è spesso rivolto verso destra, in cerca dell’acqua, come di un appiglio, di una rassicurazione. «Ho tirato su una famiglia, c’ho un figlio che lavora fuori però viene sempre a casa ad Isola. Ho vissuto una vita come tutti gli altri; sulla terraferma ci si andava con le nostre barche, con le barche da pesca, però adesso, avendoci una certa età, non me la sento più di traversare il lago in quel modo. Prego il Signore che ci dia la salute, spero sempre di poter star bene, almeno nel periodo invernale. Sennò, ti alzi la mattina e non sai che cosa devi fare… Andrò a fare una passeggiata nel Poggio, mi dico, poi torno giù ed è sempre la solita storia».
Sospira e fa una pausa, mi guarda negli occhi. «Ho un fratello qui, Vittoriano, anche lui ha 86 anni. Uno affronta la situazione con spirito ma sai, a volte ti viene anche la voglia di buttarti giù. Venisse ogni tanto qualcuno ad interpellarci, a parlare di qualcosa… Tu ad esempio, che fai adesso? Mi fai una foto e poi? E poi riparti».
Sono tornata più volte sull’isola, nelle settimane e nei messi successivi. Ho incontrato Giulia, che porta avanti la tradizione del pizzo d’Irlanda, una di quelle donne cresciute cucendo le reti dei padri prima e dei mariti poi, una donna forte e preoccupata per la sua salute, una sedia vuota accanto a lei, ormai rimasta sola nella casa che si erge dietro alle sue spalle. Ma pare serena.
«La strada è sempre deserta, io mi affaccio dalla finestra, faccio bubusettete e poi mi ritiro perché se mi ammalo… I miei figli stanno fuori: una sta a Firenze e lavora a Prato, l’altro sta a Pompei a fare i restauri. Me ne è rimasto uno solo qui; ma la compagna sta sulla terraferma: così arriva la mattina e la sera riparte, e io sono sola, io e la Giulia» Ride. «Ora mi hanno messo telefoni da tutte le parti, anche al bagno, e una telecamera, così possono vedermi muovere».
Sull’isola c’è anche Cristiano, uno dei più giovani, cura il verde e ha sempre preso decisioni pensando alla sua famiglia, come dice lui stesso; e insieme a lui Maurizio, che con una piccola barca traghetta turisti, li intrattiene con le sue storie, e poi ancora il silente “Regista”, come lo chiamano qua, e Fernanda, che facendo muovere le dita come un’abile direttrice d’orchestra con il suo uncinetto racconta: «Avevo 19 anni quando sono venuta qua. Mi sono spostata 62 anni fa con un isolano che aveva un alimentari. Io ero di Tuoro, non è stato un gran cambiamento, mi sono trovata subito bene, è un posto dove si sta bene, non ci sono rumori, c’è l’aria pulita, non è come fuori, con tutti quegli scarichi delle macchine».
«Siamo sedici», mi dice Rolando incurvando le spalle, «quasi tutte persone anziane». Passano le stagioni e ad ogni mia visita lo trovo sempre lì, seduto su una panchina vicino al pontile, in attesa. «Arrivati a una certa età non me la sento di fare battaglie o essere propositivo. C’è stato un periodo in cui lottavo, quando ero nella Pro Loco, però adesso non me la sento più. Certo, se mi dicessero di fare qualcosa la farei, ma dovremmo essere tutti uniti. E non lo siamo. Il problema è che non ci sono più persone che organizzano, si potrebbero fare dei mercatini di Natale ad esempio, come facevano all’Isola Polvese, però, chi lo organizza?».
Ce ne stiamo un po’ in silenzio, poi lui riprende: «Quando ero più giovane giravo l’Umbria, la Toscana, ma quasi sempre per lavoro, il massimo che ho potuto fare sono stati 200km. Io le ferie non le ho mai conosciute, le ho fatte solo sull’Isola». Io penso al mio bisogno di viaggiare, all’irrequietudine, alla ricerca quasi ossessiva del nuovo, poi mi fermo e chiedo: «Ma tu hai mai dormito in un altro posto?».
«No, ho dormito solo sul mio letto».
La risposta mi spiazza: ovvia per lui quanto incomprensibile per me. Rolando legge lo stupore nel mio viso così continua: «Ho vissuto abbastanza bene, ti dico la sincera verità. Rifarei la stessa vita perché eravamo liberi, non avevamo nessuno che ci diceva cosa fare. Io e Cesare, un altro pescatore, eravamo una coppia, siamo stati 34 anni a pescare insieme, quando lui diceva Ma vogliamo fa’ festa oggi?, Facciamo festa rispondevo io. Tante volte siamo andati alla partita del Perugia la domenica, si lasciava tutto e si partiva, la libertà era quella. La vita passa e con il passare degli anni si invecchia, però a ripensare agli anni passati… Era bello insomma, uno poteva fare quello che voleva, ora non più».
Poco più in su, nel bosco che vigila sulla strada, c’è un albero sradicato, caduto in direzione di un muschio verde illuminato dal sole. La vita si palesa anche dove non ti aspetti. Dicono che il rumore delle foglie agitate dal vento che si sente qui – soprattutto in agosto, di sera, quando non ci sono i turisti – sia il lamento della ninfa che ancora cerca il principe Trasimeno.
Trasimeno era un principe, figlio del dio Tirreno, narra la leggenda. Vagava nelle terre d’Etruria, in Italia centrale, s’imbatté in un lago: sostò sulle sue rive, vi si tuffò. Lo scorse una ninfa. Lui scorse lei, ne sentì il canto. Di colpo s’innamorò, perse il senso dell’orientamento, il senso di sé, annegò e il suo corpo non fu più ritrovato. Da allora quello specchio d’acqua – poco profondo, cinque o sei metri al massimo – porta il suo nome. L’Isola Maggiore è una delle tre isole che emergono dal Trasimeno, in realtà non la più estesa. Oggi conta sedici abitanti. Ogni estate, in media, sbarcano qui centoventimila turisti.
Non esistono alimentari, non c’è un medico. La prima volta che sono approdata qui, è stato in settembre: m’immaginavo di trovare quel senso di comunità, quello spirito di collaborazione e serenità che si tende a proiettare sui piccoli luoghi appartati, isolati; spesso idealizzandoli.
Il traghetto partiva da Tuoro sul Trasimeno. Sul lungo pontile assolato ho incontrato Chiara e suo nonno: lei lavora sull’isola, lui la guarda partire ogni mattina e tornare ogni sera. Mi ha invitato a salire con lei sulla barca del fidanzato Juri, insieme ad un gruppo di americani.
Oggi conta sedici abitanti. Ogni estate, in media, sbarcano qui centoventimila turisti.
Attracchiamo nel piccolo porticciolo sull’Isola. Dietro di noi arriva già un secondo traghetto, il Concordia II. Ripenso alle parole di Alessandro Gabbellini, nato sull’isola e titolare del ristorante “All’antico orologio”; le ho lette sul blog di Jean Wilmotte, olandese trasferitosi qui, uno dei pochi a trasmettere informazioni sul luogo.
«L’azienda dei trasporti per l’orario invernale, a partire dal 2015, ha eliminato quelle corse intermedie fondamentali per la vita degli abitanti ma anche per la sopravvivenza delle attività commerciali che mantengono viva una meta turistica che in un anno accoglie 120mila presenze. Se uno dei nostri anziani avesse bisogno di andare in farmacia è costretto a partire alle 8:11. Ve lo immaginate in una mattina d’inverno? E il rientro? Solo intorno a mezzogiorno. Per non parlare della domenica e dei festivi: i primi traghetti arrivano all’isola alle 10:35. Un cuoco, un cameriere non possono iniziare a lavorare a quell’ora. Tanto che ultimamente i tre locali sono stati costretti a chiudere nella stagione invernale: non si può lavorare con questi orari. E il Comune di Tuoro dov’è?»
Cammino lungo la strada principale, su cui si affacciano i portoni usurati di chi ha sempre vissuto di pesca. Non è difficile individuare chi sull’isola ci vive. Mi avvicino ad uno di loro. Se ne sta seduto su una panchina ombreggiata e osserva le persone passare, lo sguardo assente e sereno. Mi presento e lui lo fa con me. Si chiama Rolando, è nato qui nel 1938 e sembra non attendere altro che un po’ di attenzione, così mi siedo al suo fianco.
«Durante l’inverno ci levano tutti i battelli che ci sono ora, rimangono quattro corse , una al mattino, quella che prende mio figlio per andare a lavorare, una a mezzogiorno, una alle 3, e una alle 7 della sera. È un problema grosso: se ci prende qualche malattia, qualsiasi cosa, facciamo i corni, è un grosso problema. Le attività chiudono, ristoranti compresi, l’unica cosa che resta aperta è il bar tabacchi».
«Prego il Signore che ci dia la salute, spero sempre di poter star bene, almeno nel periodo invernale».
Mi interessano le scelte, le decisioni prese e quelle rimandate così a lungo da diventare a loro volta una posizione. Mi interessa quello sguardo e ciò che ha da raccontarmi, così approfondisco. Le domande sono concise così come le risposte; ma, con pazienza, si trasformano in una storia. La storia di un bambino che si è fermato alla quinta elementare per salire su una barca con i fratelli più grandi. Del bambino che diventa un ragazzo ed entra a far parte di una comunità di 40 pescatori, organizzati in una cooperativa, che vendeva il pesce sulla terraferma per guadagnarsi da vivere. La storia del lago, che nel 1956 si è prosciugato così tanto da non poter pescare più, solo alghe, una distesa di alghe marroni.
«Questo ha messo in crisi l’economia e così, tanti giovani se ne sono andati, tanti giovani che avrebbero potuto creare famiglia qui». Le mani si strofinano l’una contro l’altra mentre lascia fluire i ricordi, lo sguardo è spesso rivolto verso destra, in cerca dell’acqua, come di un appiglio, di una rassicurazione. «Ho tirato su una famiglia, c’ho un figlio che lavora fuori però viene sempre a casa ad Isola. Ho vissuto una vita come tutti gli altri; sulla terraferma ci si andava con le nostre barche, con le barche da pesca, però adesso, avendoci una certa età, non me la sento più di traversare il lago in quel modo. Prego il Signore che ci dia la salute, spero sempre di poter star bene, almeno nel periodo invernale. Sennò, ti alzi la mattina e non sai che cosa devi fare… Andrò a fare una passeggiata nel Poggio, mi dico, poi torno giù ed è sempre la solita storia».
Sospira e fa una pausa, mi guarda negli occhi. «Ho un fratello qui, Vittoriano, anche lui ha 86 anni. Uno affronta la situazione con spirito ma sai, a volte ti viene anche la voglia di buttarti giù. Venisse ogni tanto qualcuno ad interpellarci, a parlare di qualcosa… Tu ad esempio, che fai adesso? Mi fai una foto e poi? E poi riparti».
Sono tornata più volte sull’isola, nelle settimane e nei messi successivi. Ho incontrato Giulia, che porta avanti la tradizione del pizzo d’Irlanda, una di quelle donne cresciute cucendo le reti dei padri prima e dei mariti poi, una donna forte e preoccupata per la sua salute, una sedia vuota accanto a lei, ormai rimasta sola nella casa che si erge dietro alle sue spalle. Ma pare serena.
«La strada è sempre deserta, io mi affaccio dalla finestra, faccio bubusettete e poi mi ritiro perché se mi ammalo… I miei figli stanno fuori: una sta a Firenze e lavora a Prato, l’altro sta a Pompei a fare i restauri. Me ne è rimasto uno solo qui; ma la compagna sta sulla terraferma: così arriva la mattina e la sera riparte, e io sono sola, io e la Giulia» Ride. «Ora mi hanno messo telefoni da tutte le parti, anche al bagno, e una telecamera, così possono vedermi muovere».
Il suolo diventa un condominio, i confini sono mura e gli abitanti inquilini. Sono i protagonisti della loro commedia, che ogni giorno va in scena in un piccolo teatro appartato.
Sull’isola c’è anche Cristiano, uno dei più giovani, cura il verde e ha sempre preso decisioni pensando alla sua famiglia, come dice lui stesso; e insieme a lui Maurizio, che con una piccola barca traghetta turisti, li intrattiene con le sue storie, e poi ancora il silente “Regista”, come lo chiamano qua, e Fernanda, che facendo muovere le dita come un’abile direttrice d’orchestra con il suo uncinetto racconta: «Avevo 19 anni quando sono venuta qua. Mi sono spostata 62 anni fa con un isolano che aveva un alimentari. Io ero di Tuoro, non è stato un gran cambiamento, mi sono trovata subito bene, è un posto dove si sta bene, non ci sono rumori, c’è l’aria pulita, non è come fuori, con tutti quegli scarichi delle macchine».
«Siamo sedici», mi dice Rolando incurvando le spalle, «quasi tutte persone anziane». Passano le stagioni e ad ogni mia visita lo trovo sempre lì, seduto su una panchina vicino al pontile, in attesa. «Arrivati a una certa età non me la sento di fare battaglie o essere propositivo. C’è stato un periodo in cui lottavo, quando ero nella Pro Loco, però adesso non me la sento più. Certo, se mi dicessero di fare qualcosa la farei, ma dovremmo essere tutti uniti. E non lo siamo. Il problema è che non ci sono più persone che organizzano, si potrebbero fare dei mercatini di Natale ad esempio, come facevano all’Isola Polvese, però, chi lo organizza?».
Ce ne stiamo un po’ in silenzio, poi lui riprende: «Quando ero più giovane giravo l’Umbria, la Toscana, ma quasi sempre per lavoro, il massimo che ho potuto fare sono stati 200km. Io le ferie non le ho mai conosciute, le ho fatte solo sull’Isola». Io penso al mio bisogno di viaggiare, all’irrequietudine, alla ricerca quasi ossessiva del nuovo, poi mi fermo e chiedo: «Ma tu hai mai dormito in un altro posto?».
«No, ho dormito solo sul mio letto».
La risposta mi spiazza: ovvia per lui quanto incomprensibile per me. Rolando legge lo stupore nel mio viso così continua: «Ho vissuto abbastanza bene, ti dico la sincera verità. Rifarei la stessa vita perché eravamo liberi, non avevamo nessuno che ci diceva cosa fare. Io e Cesare, un altro pescatore, eravamo una coppia, siamo stati 34 anni a pescare insieme, quando lui diceva Ma vogliamo fa’ festa oggi?, Facciamo festa rispondevo io. Tante volte siamo andati alla partita del Perugia la domenica, si lasciava tutto e si partiva, la libertà era quella. La vita passa e con il passare degli anni si invecchia, però a ripensare agli anni passati… Era bello insomma, uno poteva fare quello che voleva, ora non più».
Poco più in su, nel bosco che vigila sulla strada, c’è un albero sradicato, caduto in direzione di un muschio verde illuminato dal sole. La vita si palesa anche dove non ti aspetti. Dicono che il rumore delle foglie agitate dal vento che si sente qui – soprattutto in agosto, di sera, quando non ci sono i turisti – sia il lamento della ninfa che ancora cerca il principe Trasimeno.