“Fondo Librario Documentario Riccardo Bertani” recita la targa sulla porta. È una piccola casa di cemento a Caprara, una frazione di Campegine, un paese di seimila abitanti vicino a Reggio Emilia. Di fronte alla casa c’è un orto in cui spuntano zucchine, pomodori e lattughe. E poco più in là un’aia su cui un tempo hanno scorrazzato oche e galline.
Secondo un articolo che ho letto recentemente su un quotidiano nazionale, Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da questa casa. Com’è possibile?
Quando viene ad aprirmi la porta, Bertani indossa i pantaloni di una vecchia tuta e un maglione sgualcito. Con lui c’è Domenico, un signore del paese di una decina d’anni più giovane, che si occupa dei convenevoli. Tra loro, si parlano in dialetto. Con me, parlano italiano. Distratto, Bertani mi stringe la mano, prima di fare marcia indietro e imboccare un corridoio stretto. Cammina lentamente, aiutandosi con un bastone. I suoi piedi sono avvolti da ingombranti bendaggi. Senza preoccuparsi di verificare se lo stiamo seguendo o meno, scompare dentro una stanza.
Dopo pochi secondi lo raggiungo dentro al suo studio, uno stanzino di una quindicina di metri quadrati. Tre delle quattro pareti sono occupate da librerie. Sulle mensole (a quanto pare un tempo reggevano forme di formaggio) ci sono statuette di divinità pagane e qualche foto di Bertani, un po’ più giovane, intento a ricevere un premio o a mangiare con gli amici. Inchiodato a un palo della libreria c’è un foglietto con una citazione di Tolstoj. Poco più in là un castello di medicine impilate l’una sull’altra.
Al centro della stanza troneggia una grande scrivania di noce, con un leggìo che regge un libro aperto. Bertani ci si accomoda dietro e mi fa cenno di sedermi su una delle tre sedie che stanno disposte lì davanti. Improvvisamente solleva la testa e mi trafigge con i suoi occhi azzurri: “Allora, cosa vuoi sapere?”
Non sembra abituato alla compagnia. Da quando il Comune ha trasformato la sua casa in un Fondo, delegazioni di linguisti e curiosi sono venuti a trovarlo, ma evidentemente lui non è ancora riuscito a superare l’imbarazzo di rispondere alle domande dei suoi ospiti, e tantomeno quello di farsi fotografare: “Mi farebbe piacere che mi conoscessero per le mie opere, non per le foto”, commenta. Quando gli chiedo di raccontarmi la sua storia apre prontamente un cassetto, tira fuori alcuni fogli graffettati e me li allunga: “Sta tutto scritto qui”.
La sua passione per le lingue risale all’infanzia, ma non ha nulla a che vedere con un’educazione convenzionale. Di fatto, ha abbandonato la scuola subito dopo le elementari, un’esperienza che definisce “castrante”. Gli strumenti per imparare invece li ha trovati in casa. Paese natale dei sette fratelli Cervi, forse i più celebrati tra i martiri della Resistenza, Campegine subito dopo la guerra diventò un luogo simbolo del comunismo italiano. A cena Bertani ascoltava suo padre, primo sindaco di Campegine nel dopoguerra, parlare di Stalin e di Lenin. La libreria di casa era affollata di autori russi.
Apprendista contadino di giorno, il giovane Bertani di notte leggeva Dostoevskij, Puškin, Gogol’ e Tolstoj. A vent’anni, mi racconta, imparò il russo grazie alle lezioni pubblicate sulla rivista “Notizie Sovietiche”. Si comprò un dizionario e una grammatica e cominciò a tradurre un libro di poesie dell’ucraino Taras Shevchenko, che era stato abbandonato a Campegine da qualche soldato passato da queste pianure negli anni della guerra.
Nei decenni successivi Bertani dice di aver imparato il bielorusso, il ceco, lo slovacco, il polacco, lo sloveno-croato, il georgiano, il mongolo, l’uzbeko, l’osseto e diverse altre lingue dell’ex blocco sovietico. Alcune erano usate in regioni remote – come il rutulo, parlato da ventimila persone nella Repubblica del Dagestan – e non esistevano né grammatiche né dizionari che potessero aiutarlo a decifrarle.
A un certo punto persino la Biblioteca Lenin di Mosca lo contattò per dare una mano con una traduzione dal yacuto, una lingua della Siberia nordorientale. “La lingua yacuta è antica: turca con elementi tungusi, manciuri e paleoasiatici. La parlano circa 500,000 persone. La traduzione mi riuscì”, mi spiega Bertani, e aggiunge: “Piacevo ai russi. Mi mandavano i dizionari gratis”.
La lista di lingue crebbe: scozzese, francese, spagnolo, svedese, danese, norvegese, eskimo, finlandese, hausa (che si usa nell’Africa occidentale) e altre minoritarie come l’ainu, parlato sull’isola di Hokkaido in Giappone, o estinte come l’etrusco, che scomparve intorno al 50 d.C., Bertani dice di averle imparate su libri che ha comprato o che gli amici gli hanno portato dai loro viaggi. Invece si vanta di non aver mai imparato il tedesco, una lingua probabilmente legata a episodi infelici della sua infanzia.
Bertani sostiene di aver passato la maggior parte della sua vita in questa piccola casa contadina, con le pareti e i muri irregolari, svegliandosi alle tre di mattina per studiare e tradurre fino alle nove prima di andare nei campi a lavorare, con poca grinta: “Sono sempre stato un contadino sbagliato”, si schermisce, “Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”.
Un paio di volte, con riluttanza, ha preso un treno per recarsi fino a un’altra città italiana per un seminario o una lezione all’università. “Io, un contadino, in cattedra. Loro, i professori, ad ascoltarmi”, ricorda con un ghigno, che si tramuta prima in un colpo di tosse poi in un lungo sospiro. Mi ricorda Salgari, che scrisse avventure di pirati nell’Estremo Oriente senza mai avventurarsi più in là dall’Adriatico. Però Salgari mentì sempre, raccontando di aver camminato attraverso il Sahara, incontrato Buffalo Bill in Nebraska e navigato i Sette Mari. Bertani, invece, sembra ammettere candidamente le sue lacune.
“Per parlare veramente una lingua devi passare del tempo nel luogo in cui è nata”, spiega, “Io non sono andato in nessuno di questi Paesi. Avevo paura, dopo esserci arrivato, di scoprire che il mondo letterario che avevo immaginato non corrispondesse a quello reale”. Non è mai uscito dall’Italia, nemmeno quando nel 1984 è stato invitato a Sochi a un misterioso Forum Internazionale per l’Unione Spirituale dell’Umanità organizzato dall’Accademia delle Scienze dell’URSS.
Quando gli domando come sia riuscito a fare quello che ha fatto, Bertani socchiude gli occhi e sospira di nuovo. Il suo compaesano Domenico, che è stato seduto in un angolo per tutta la durata dell’intervista, mi fa segno che non c’è più tempo. Mentre mi alzo dalla sedia e faccio per congedarmi, Bertani solleva la testa e quasi scusandosi mi risponde: “Non penso di poterlo spiegare. È come chiedere a quelli che fanno i calcoli a memoria come ci riescono. Io, ad esempio, non so nemmeno la tabellina del tre”.
***
Tornato a casa, cerco di mettere ordine nei pensieri. Questa cosa delle cento lingue è vera? Scorro l’elenco di pubblicazioni che mi ha passato in un ciclostilato. Sono principalmente articoli e saggi pubblicati da case editrici minori: il Comune di Campegine, il notiziario dell’ANPI, la rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, qualche quotidiano locale e così via. Spicca un articolo sui popoli dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale pubblicato nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET nel 1983. Ma non c’è una singola pubblicazione accademica. Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale? Non dovrebbe avere ricevuto una laurea onoraria, o qualcosa di simile?
Per scoprirlo, provo a rintracciare Jargal Molomjamts, una professoressa di lingue mongole all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che nel 2007 ha scritto la prefazione a un dizionario mongolo-italiano di Bertani. Sfortunatamente, la segreteria dell’università mi risponde bruscamente che Molomjamts ha smesso di lavorare per loro molti anni fa e che non hanno modo di rintracciarla. La cerco sui social network, ma non ottengo risultati.
Prendo il telefono e chiamo Giorgio Iemmolo, un linguista che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi all’insegnamento delle lingue. “Più lingue impari, più facile ti riesce imparare la prossima, soprattutto se è imparentata geneticamente con un’altra che già conosci”, mi spiega, “È il caso degli iperpoliglotti, un termine coniato dal linguista Richard Hudson per definire le persone che parlano sei o più lingue. In campo accademico c’è poca ricerca su questi temi, anche perché i casi sono rari”.
Tra questi spiccano il poeta John Milton che parlava undici lingue e coniò più di seicento parole dell’inglese, il Cardinale Mezzofanti che insegnò arabo e greco all’Università di Bologna nella prima metà dell’800 e fu definito da Lord Byron “un mostro delle lingue”, e il linguista tedesco Emil Krebs, che visse a cavallo del 1900, imparando a parlare e scrivere 68 lingue e studiandone 120. Alla morte, il il cervello di Krebs fu sezionato e si constatò che la sua area di Broca, responsabile per il linguaggio, era strutturalmente diversa da quella delle persone normali.
Se si fa eccezione per alcuni celebri poliglotti della storia come Cleopatra, Nikola Tesla e Audrey Hepburn, nella maggior parte dei casi chi eccelle nell’apprendimento delle lingue è uno studioso di professione, o comunque qualcuno che si muove in ambienti accademici o a stretto contatto con i centri del sapere. Bertani, in questo senso, è una mosca bianca: “Uno dei punti straordinari di questa storia è che un signore con un’istruzione quasi inesistente abbia fatto un lavoro molto fine di estrapolazione di regole e confronti, simile a quello che duecento anni fa ha dato vita alla linguistica moderna”, mi spiega Iemmolo, “Ha inventato un metodo comparativo. Giusto o sbagliato che sia, non è questo il punto”.
***
Quando vado a trovarlo per la seconda volta, Bertani non si ricorda di me. Gli faccio notare che ci siamo già visti e lui risponde, laconico: “Viene molta gente”. Stavolta con lui c’è un altro amico, Luigi. Dalla reverenza con cui lo tratta è evidente che Bertani è il vanto del paese, una sorta di diamante grezzo da mostrare con orgoglio a chi viene da fuori. Pochi giorni fa, ad esempio, il quotidiano argentino Clarín è venuto a intervistarlo per verificare una delle sue ipotesi, secondo cui la lingua degli indigeni Ona della Patagonia è direttamente legata a una lingua in via d’estinzione che si parla sulle coste occidentali della Kamchatka, in Siberia.
“Le lingue al centro evolvono, quelle agli estremi si cristallizzano”, mi spiega Bertani. Questo teorema mi sembra immediatamente troppo netto, assoluto. È un tratto abbastanza comune nel lavoro – e forse nel carattere – di Bertani. Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia. Su quest’ultima ipotesi trovo una lettera di un professore di Venezia che gli appunta: Ritengo che la documentazione acquisita necessiti di molto altro materiale prima di poter arrivare ad una qualunque conclusione.
Non è l’unico messaggio del genere che riceve. Su un’ipotetica etimologia della parola indiana beng, un esperto gli risponde: Vorrei esprimere qualche suggerimento metodologico e comunque consigliarle di approfondire ulteriormente la sua ricerca che, così com’è, mi pare presenti il fianco a delle obiezioni. In un’altra lettera, un decano dell’Accademia della Crusca chiarisce: Con franchezza le devo dire che assai rischiosi e impossibili sono i suoi tentativi di comparazione linguistica.
Bertani non si scoraggia mai. Continua a fare ricerca, studiare, tradurre e riempire decine di agende omaggio del Credito Emiliano con lemmi e caratteri di alfabeti lontani. Quando è stanco di una lingua o di una cultura, si sposta su un’altra, inseguendo la sua sete di conoscenza. Scrive dizionari dal georgiano, dal cincio, dall’orocio e dal gotico all’italiano, approfondimenti sui proverbi coreani e sui nomi propri persiani, in quel che presto diventa una bibliografia che contiene più di seicento pubblicazioni tra libri, saggi e articoli.
Quando ha un dubbio, si rivolge a colleghi linguisti e traduttori di tutto il mondo, che spesso si prodigano in complimenti sul suo lavoro. Porta avanti una corrispondenza fitta con un professore dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e con la bibliotecaria del Centro di Studi Zingari di Roma. Nei suoi archivi personali ci sono anche lettere di un docente giapponese, dell’Istituto di Cultura Italiano ad Amsterdam, dell’ambasciata vietnamita a Roma, dell’Istituto Linguistico dell’Accademia delle Scienze di Budapest.
Stanno tutte in un armadio della Ludoteca della Biblioteca di Campegine, a pochi metri dai libri per bambini. Quando mi presento al banco accettazione e dico di essere venuto per fare una ricerca su Bertani, le due bibliotecarie sgranano gli occhi. Da quando è stato aperto il Fondo, mi confessano, Bertani le ha sommerse di libri, articoli e carte che loro hanno a malapena il tempo di catalogare. Ma subito si mettono all’opera: la generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere, curare. Dopo una breve ricerca mi mostrano il pezzo forte dell’archivio: due lettere scritte e firmate a mano dal padre dell’antropologia, Levi Strauss, che fa i complimenti a Bertani per una sua ricerca sul Genius Loci.
Ciò che filtra da questa maniacale e globale corrispondenza è il desiderio di dialogare con quella che Bertani considera la sua comunità di riferimento, ma ancor di più un bisogno sconfinato di conoscere, risolvere i dubbi che lo ossessionano durante la notte, mentre lui traduce nel suo piccolo studio e gli altri – uomini e vacche – dormono.
“Prendi un albero, per esempio”, spiega Bertani, “Un contadino ci vede un olmo, una vite o un albero da frutto. Un cittadino ci vede un albero da viale o da parco. Una persona che vive nella foresta lo vede da un altro punto di vista ancora”. Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Bertani consiste nell’investigare il significato dietro a oggetti culturali apparentemente banali, lo stesso approccio usato da grandi semiologi come Roland Barthes o Umberto Eco.
Oltre a dizionari e saggi di linguistica, spulciando la bibliografia di Bertani, si trovano anche articoli sui ricci, gli indovinelli, la morte di Trotzkij e il Carnevale.
Questa bulimia intellettuale ha un doppio movimento. Il primo è rivolto verso l’esterno. “Per fare una buona traduzione bisogna conoscere anche la cultura, i costumi, i sentimenti e la storia di un popolo”, mi spiega Bertani, “Per imparare il russo, ad esempio, bisogna leggere il Canto della Schiera di Igor”. Seguendo questa filosofia, Bertani usa la linguistica come grimaldello per fare scorrerie nelle culture e nelle epiche di mezzo mondo. Studia la storia della Mongolia a partire da un carattere dell’alfabeto locale e si appassiona dello sciamanesimo degli Jukaghiri, una popolazione siberiana.
Ma il secondo movimento è sempre quello del ritorno alla terra. Come se, nelle notti di studio febbrile, il sorgere del sole gli ricordasse sempre che tra poche ore sarà di nuovo nei campi a lavorare. Bertani è un contadino e scrive per i contadini. Ecco allora articoli sul picchio e le zucche, sull’aratura dei campi e sulla funzione della stalla, sull’uso del propoli per curare l’asma e sui diversi nomi del ‘maiale’ in dialetto reggiano, oltre a trattati di erboristeria, botanica e zoologia (“Animali creduti ingiustamente malefici”, 2006).
Questo ritorno alla terra non è però mai nostalgico. È lui stesso ad ammettere di essersi allontanato presto dal comunismo (oggi si considera anarchico e tolstojano) e a dichiararsi contrario allo studio del dialetto reggiano nelle scuole dato che “i bambini non pensano più in dialetto”. Un suo saggio degli anni Novanta sulla provenienza centroeuropea della vacca rossa reggiana si è rivelato profetico: oggi la varietà è stata recuperata e produce uno dei Parmigiano Reggiano più ricercati e raffinati della zona.
Fuori dalla finestra, la nebbia scende sul piccolo orto di Bertani, creando quella scenografia eterea che fa della Bassa emiliana un habitat naturale per la ricerca poetica. Basti pensare a Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi, Antonio Ligabue, Luigi Ghirri, che hanno popolato il profilo piatto di queste terre con personaggi strani e un po’ lunatici. Forse per giudicare l’opera di Bertani sarebbe utile avvicinarlo a questi autori –visionari e anticonformisti – più che ai cattedratici dei grandi atenei italiani.
Ma non c’è tempo di investigare oltre. Quando il respiro del vecchio si fa di nuovo pesante, il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare. Mentre si congeda con una rapida stretta di mano, ho la netta sensazione che Bertani si senta sollevato all’idea che tra poco il suo studio sarà vuoto e lui potrà accendere l’abat-jour, tirare fuori l’agenda e dedicarsi alla traduzione degli scritti in caratteri runici che ha lasciato in sospeso la notte passata.
“Fondo Librario Documentario Riccardo Bertani” recita la targa sulla porta. È una piccola casa di cemento a Caprara, una frazione di Campegine, un paese di seimila abitanti vicino a Reggio Emilia. Di fronte alla casa c’è un orto in cui spuntano zucchine, pomodori e lattughe. E poco più in là un’aia su cui un tempo hanno scorrazzato oche e galline.
Secondo un articolo che ho letto recentemente su un quotidiano nazionale, Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da questa casa. Com’è possibile?
Quando viene ad aprirmi la porta, Bertani indossa i pantaloni di una vecchia tuta e un maglione sgualcito. Con lui c’è Domenico, un signore del paese di una decina d’anni più giovane, che si occupa dei convenevoli. Tra loro, si parlano in dialetto. Con me, parlano italiano. Distratto, Bertani mi stringe la mano, prima di fare marcia indietro e imboccare un corridoio stretto. Cammina lentamente, aiutandosi con un bastone. I suoi piedi sono avvolti da ingombranti bendaggi. Senza preoccuparsi di verificare se lo stiamo seguendo o meno, scompare dentro una stanza.
Dopo pochi secondi lo raggiungo dentro al suo studio, uno stanzino di una quindicina di metri quadrati. Tre delle quattro pareti sono occupate da librerie. Sulle mensole (a quanto pare un tempo reggevano forme di formaggio) ci sono statuette di divinità pagane e qualche foto di Bertani, un po’ più giovane, intento a ricevere un premio o a mangiare con gli amici. Inchiodato a un palo della libreria c’è un foglietto con una citazione di Tolstoj. Poco più in là un castello di medicine impilate l’una sull’altra.
Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da casa sua.
Al centro della stanza troneggia una grande scrivania di noce, con un leggìo che regge un libro aperto. Bertani ci si accomoda dietro e mi fa cenno di sedermi su una delle tre sedie che stanno disposte lì davanti. Improvvisamente solleva la testa e mi trafigge con i suoi occhi azzurri: “Allora, cosa vuoi sapere?”
Non sembra abituato alla compagnia. Da quando il Comune ha trasformato la sua casa in un Fondo, delegazioni di linguisti e curiosi sono venuti a trovarlo, ma evidentemente lui non è ancora riuscito a superare l’imbarazzo di rispondere alle domande dei suoi ospiti, e tantomeno quello di farsi fotografare: “Mi farebbe piacere che mi conoscessero per le mie opere, non per le foto”, commenta. Quando gli chiedo di raccontarmi la sua storia apre prontamente un cassetto, tira fuori alcuni fogli graffettati e me li allunga: “Sta tutto scritto qui”.
La sua passione per le lingue risale all’infanzia, ma non ha nulla a che vedere con un’educazione convenzionale. Di fatto, ha abbandonato la scuola subito dopo le elementari, un’esperienza che definisce “castrante”. Gli strumenti per imparare invece li ha trovati in casa. Paese natale dei sette fratelli Cervi, forse i più celebrati tra i martiri della Resistenza, Campegine subito dopo la guerra diventò un luogo simbolo del comunismo italiano. A cena Bertani ascoltava suo padre, primo sindaco di Campegine nel dopoguerra, parlare di Stalin e di Lenin. La libreria di casa era affollata di autori russi.
Apprendista contadino di giorno, il giovane Bertani di notte leggeva Dostoevskij, Puškin, Gogol’ e Tolstoj. A vent’anni, mi racconta, imparò il russo grazie alle lezioni pubblicate sulla rivista “Notizie Sovietiche”. Si comprò un dizionario e una grammatica e cominciò a tradurre un libro di poesie dell’ucraino Taras Shevchenko, che era stato abbandonato a Campegine da qualche soldato passato da queste pianure negli anni della guerra.
Nei decenni successivi Bertani dice di aver imparato il bielorusso, il ceco, lo slovacco, il polacco, lo sloveno-croato, il georgiano, il mongolo, l’uzbeko, l’osseto e diverse altre lingue dell’ex blocco sovietico. Alcune erano usate in regioni remote – come il rutulo, parlato da ventimila persone nella Repubblica del Dagestan – e non esistevano né grammatiche né dizionari che potessero aiutarlo a decifrarle.
A un certo punto persino la Biblioteca Lenin di Mosca lo contattò per dare una mano con una traduzione dal yacuto, una lingua della Siberia nordorientale. “La lingua yacuta è antica: turca con elementi tungusi, manciuri e paleoasiatici. La parlano circa 500,000 persone. La traduzione mi riuscì”, mi spiega Bertani, e aggiunge: “Piacevo ai russi. Mi mandavano i dizionari gratis”.
“Sono sempre stato un contadino sbagliato. Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”
La lista di lingue crebbe: scozzese, francese, spagnolo, svedese, danese, norvegese, eskimo, finlandese, hausa (che si usa nell’Africa occidentale) e altre minoritarie come l’ainu, parlato sull’isola di Hokkaido in Giappone, o estinte come l’etrusco, che scomparve intorno al 50 d.C., Bertani dice di averle imparate su libri che ha comprato o che gli amici gli hanno portato dai loro viaggi. Invece si vanta di non aver mai imparato il tedesco, una lingua probabilmente legata a episodi infelici della sua infanzia.
Bertani sostiene di aver passato la maggior parte della sua vita in questa piccola casa contadina, con le pareti e i muri irregolari, svegliandosi alle tre di mattina per studiare e tradurre fino alle nove prima di andare nei campi a lavorare, con poca grinta: “Sono sempre stato un contadino sbagliato”, si schermisce, “Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”.
Un paio di volte, con riluttanza, ha preso un treno per recarsi fino a un’altra città italiana per un seminario o una lezione all’università. “Io, un contadino, in cattedra. Loro, i professori, ad ascoltarmi”, ricorda con un ghigno, che si tramuta prima in un colpo di tosse poi in un lungo sospiro. Mi ricorda Salgari, che scrisse avventure di pirati nell’Estremo Oriente senza mai avventurarsi più in là dall’Adriatico. Però Salgari mentì sempre, raccontando di aver camminato attraverso il Sahara, incontrato Buffalo Bill in Nebraska e navigato i Sette Mari. Bertani, invece, sembra ammettere candidamente le sue lacune.
“Per parlare veramente una lingua devi passare del tempo nel luogo in cui è nata”, spiega, “Io non sono andato in nessuno di questi Paesi. Avevo paura, dopo esserci arrivato, di scoprire che il mondo letterario che avevo immaginato non corrispondesse a quello reale”. Non è mai uscito dall’Italia, nemmeno quando nel 1984 è stato invitato a Sochi a un misterioso Forum Internazionale per l’Unione Spirituale dell’Umanità organizzato dall’Accademia delle Scienze dell’URSS.
Quando gli domando come sia riuscito a fare quello che ha fatto, Bertani socchiude gli occhi e sospira di nuovo. Il suo compaesano Domenico, che è stato seduto in un angolo per tutta la durata dell’intervista, mi fa segno che non c’è più tempo. Mentre mi alzo dalla sedia e faccio per congedarmi, Bertani solleva la testa e quasi scusandosi mi risponde: “Non penso di poterlo spiegare. È come chiedere a quelli che fanno i calcoli a memoria come ci riescono. Io, ad esempio, non so nemmeno la tabellina del tre”.
***
Tornato a casa, cerco di mettere ordine nei pensieri. Questa cosa delle cento lingue è vera? Scorro l’elenco di pubblicazioni che mi ha passato in un ciclostilato. Sono principalmente articoli e saggi pubblicati da case editrici minori: il Comune di Campegine, il notiziario dell’ANPI, la rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, qualche quotidiano locale e così via. Spicca un articolo sui popoli dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale pubblicato nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET nel 1983. Ma non c’è una singola pubblicazione accademica. Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale? Non dovrebbe avere ricevuto una laurea onoraria, o qualcosa di simile?
Per scoprirlo, provo a rintracciare Jargal Molomjamts, una professoressa di lingue mongole all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che nel 2007 ha scritto la prefazione a un dizionario mongolo-italiano di Bertani. Sfortunatamente, la segreteria dell’università mi risponde bruscamente che Molomjamts ha smesso di lavorare per loro molti anni fa e che non hanno modo di rintracciarla. La cerco sui social network, ma non ottengo risultati.
Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale?
Prendo il telefono e chiamo Giorgio Iemmolo, un linguista che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi all’insegnamento delle lingue. “Più lingue impari, più facile ti riesce imparare la prossima, soprattutto se è imparentata geneticamente con un’altra che già conosci”, mi spiega, “È il caso degli iperpoliglotti, un termine coniato dal linguista Richard Hudson per definire le persone che parlano sei o più lingue. In campo accademico c’è poca ricerca su questi temi, anche perché i casi sono rari”.
Tra questi spiccano il poeta John Milton che parlava undici lingue e coniò più di seicento parole dell’inglese, il Cardinale Mezzofanti che insegnò arabo e greco all’Università di Bologna nella prima metà dell’800 e fu definito da Lord Byron “un mostro delle lingue”, e il linguista tedesco Emil Krebs, che visse a cavallo del 1900, imparando a parlare e scrivere 68 lingue e studiandone 120. Alla morte, il il cervello di Krebs fu sezionato e si constatò che la sua area di Broca, responsabile per il linguaggio, era strutturalmente diversa da quella delle persone normali.
Se si fa eccezione per alcuni celebri poliglotti della storia come Cleopatra, Nikola Tesla e Audrey Hepburn, nella maggior parte dei casi chi eccelle nell’apprendimento delle lingue è uno studioso di professione, o comunque qualcuno che si muove in ambienti accademici o a stretto contatto con i centri del sapere. Bertani, in questo senso, è una mosca bianca: “Uno dei punti straordinari di questa storia è che un signore con un’istruzione quasi inesistente abbia fatto un lavoro molto fine di estrapolazione di regole e confronti, simile a quello che duecento anni fa ha dato vita alla linguistica moderna”, mi spiega Iemmolo, “Ha inventato un metodo comparativo. Giusto o sbagliato che sia, non è questo il punto”.
***
Quando vado a trovarlo per la seconda volta, Bertani non si ricorda di me. Gli faccio notare che ci siamo già visti e lui risponde, laconico: “Viene molta gente”. Stavolta con lui c’è un altro amico, Luigi. Dalla reverenza con cui lo tratta è evidente che Bertani è il vanto del paese, una sorta di diamante grezzo da mostrare con orgoglio a chi viene da fuori. Pochi giorni fa, ad esempio, il quotidiano argentino Clarín è venuto a intervistarlo per verificare una delle sue ipotesi, secondo cui la lingua degli indigeni Ona della Patagonia è direttamente legata a una lingua in via d’estinzione che si parla sulle coste occidentali della Kamchatka, in Siberia.
Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia.
“Le lingue al centro evolvono, quelle agli estremi si cristallizzano”, mi spiega Bertani. Questo teorema mi sembra immediatamente troppo netto, assoluto. È un tratto abbastanza comune nel lavoro – e forse nel carattere – di Bertani. Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia. Su quest’ultima ipotesi trovo una lettera di un professore di Venezia che gli appunta: Ritengo che la documentazione acquisita necessiti di molto altro materiale prima di poter arrivare ad una qualunque conclusione.
Non è l’unico messaggio del genere che riceve. Su un’ipotetica etimologia della parola indiana beng, un esperto gli risponde: Vorrei esprimere qualche suggerimento metodologico e comunque consigliarle di approfondire ulteriormente la sua ricerca che, così com’è, mi pare presenti il fianco a delle obiezioni. In un’altra lettera, un decano dell’Accademia della Crusca chiarisce: Con franchezza le devo dire che assai rischiosi e impossibili sono i suoi tentativi di comparazione linguistica.
Bertani non si scoraggia mai. Continua a fare ricerca, studiare, tradurre e riempire decine di agende omaggio del Credito Emiliano con lemmi e caratteri di alfabeti lontani. Quando è stanco di una lingua o di una cultura, si sposta su un’altra, inseguendo la sua sete di conoscenza. Scrive dizionari dal georgiano, dal cincio, dall’orocio e dal gotico all’italiano, approfondimenti sui proverbi coreani e sui nomi propri persiani, in quel che presto diventa una bibliografia che contiene più di seicento pubblicazioni tra libri, saggi e articoli.
Quando ha un dubbio, si rivolge a colleghi linguisti e traduttori di tutto il mondo, che spesso si prodigano in complimenti sul suo lavoro. Porta avanti una corrispondenza fitta con un professore dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e con la bibliotecaria del Centro di Studi Zingari di Roma. Nei suoi archivi personali ci sono anche lettere di un docente giapponese, dell’Istituto di Cultura Italiano ad Amsterdam, dell’ambasciata vietnamita a Roma, dell’Istituto Linguistico dell’Accademia delle Scienze di Budapest.
La generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere
Stanno tutte in un armadio della Ludoteca della Biblioteca di Campegine, a pochi metri dai libri per bambini. Quando mi presento al banco accettazione e dico di essere venuto per fare una ricerca su Bertani, le due bibliotecarie sgranano gli occhi. Da quando è stato aperto il Fondo, mi confessano, Bertani le ha sommerse di libri, articoli e carte che loro hanno a malapena il tempo di catalogare. Ma subito si mettono all’opera: la generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere, curare. Dopo una breve ricerca mi mostrano il pezzo forte dell’archivio: due lettere scritte e firmate a mano dal padre dell’antropologia, Levi Strauss, che fa i complimenti a Bertani per una sua ricerca sul Genius Loci.
Ciò che filtra da questa maniacale e globale corrispondenza è il desiderio di dialogare con quella che Bertani considera la sua comunità di riferimento, ma ancor di più un bisogno sconfinato di conoscere, risolvere i dubbi che lo ossessionano durante la notte, mentre lui traduce nel suo piccolo studio e gli altri – uomini e vacche – dormono.
“Prendi un albero, per esempio”, spiega Bertani, “Un contadino ci vede un olmo, una vite o un albero da frutto. Un cittadino ci vede un albero da viale o da parco. Una persona che vive nella foresta lo vede da un altro punto di vista ancora”. Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Bertani consiste nell’investigare il significato dietro a oggetti culturali apparentemente banali, lo stesso approccio usato da grandi semiologi come Roland Barthes o Umberto Eco.
Oltre a dizionari e saggi di linguistica, spulciando la bibliografia di Bertani, si trovano anche articoli sui ricci, gli indovinelli, la morte di Trotzkij e il Carnevale.
Questa bulimia intellettuale ha un doppio movimento. Il primo è rivolto verso l’esterno. “Per fare una buona traduzione bisogna conoscere anche la cultura, i costumi, i sentimenti e la storia di un popolo”, mi spiega Bertani, “Per imparare il russo, ad esempio, bisogna leggere il Canto della Schiera di Igor”. Seguendo questa filosofia, Bertani usa la linguistica come grimaldello per fare scorrerie nelle culture e nelle epiche di mezzo mondo. Studia la storia della Mongolia a partire da un carattere dell’alfabeto locale e si appassiona dello sciamanesimo degli Jukaghiri, una popolazione siberiana.
Ma il secondo movimento è sempre quello del ritorno alla terra. Come se, nelle notti di studio febbrile, il sorgere del sole gli ricordasse sempre che tra poche ore sarà di nuovo nei campi a lavorare. Bertani è un contadino e scrive per i contadini. Ecco allora articoli sul picchio e le zucche, sull’aratura dei campi e sulla funzione della stalla, sull’uso del propoli per curare l’asma e sui diversi nomi del ‘maiale’ in dialetto reggiano, oltre a trattati di erboristeria, botanica e zoologia (“Animali creduti ingiustamente malefici”, 2006).
Questo ritorno alla terra non è però mai nostalgico. È lui stesso ad ammettere di essersi allontanato presto dal comunismo (oggi si considera anarchico e tolstojano) e a dichiararsi contrario allo studio del dialetto reggiano nelle scuole dato che “i bambini non pensano più in dialetto”. Un suo saggio degli anni Novanta sulla provenienza centroeuropea della vacca rossa reggiana si è rivelato profetico: oggi la varietà è stata recuperata e produce uno dei Parmigiano Reggiano più ricercati e raffinati della zona.
Il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare
Fuori dalla finestra, la nebbia scende sul piccolo orto di Bertani, creando quella scenografia eterea che fa della Bassa emiliana un habitat naturale per la ricerca poetica. Basti pensare a Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi, Antonio Ligabue, Luigi Ghirri, che hanno popolato il profilo piatto di queste terre con personaggi strani e un po’ lunatici. Forse per giudicare l’opera di Bertani sarebbe utile avvicinarlo a questi autori –visionari e anticonformisti – più che ai cattedratici dei grandi atenei italiani.
Ma non c’è tempo di investigare oltre. Quando il respiro del vecchio si fa di nuovo pesante, il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare. Mentre si congeda con una rapida stretta di mano, ho la netta sensazione che Bertani si senta sollevato all’idea che tra poco il suo studio sarà vuoto e lui potrà accendere l’abat-jour, tirare fuori l’agenda e dedicarsi alla traduzione degli scritti in caratteri runici che ha lasciato in sospeso la notte passata.