Mi sveglio. Mi guardo allo specchio. Mi trucco. Il caffè sale nella moka e fischia, il sole pare salire a stento; giornata grigina.
Indosso un paio di jeans, un maglioncino di lana verde petrolio, mi porto anche un quaderno per gli appunti.
Prima stazione: i cassonetti “della Caritas”. Seconda: un capannone, nella periferia di Bergamo; è la sede del Laboratorio Triciclo. Terza e ultima: un negozio a Bergamo quasi-centro.
Partiamo dalla fine.
Terza stazione
“Rivestiti” è il nome del negozio, in via Broseta. Nuova vita per abiti che hanno già vissuto, ma anche vintage e tanto altro, si legge in una descrizione che ho trovato on-line.
Varco la porta. Gentile scampanellio. Da sopra un armadio mi guardano cinque teste femminili di manichino tutte molto fiere dei loro cappelli (la prima a sinistra, ad essere precise, indossa un cerchietto con fiocco di un bel rosso brillante, e sciarpa coordinata sul collo decollato); dietro di loro c’è Audrey Hepburn, in tubino nero, sontuosa collana di perle bianche, guanti di seta nera fin sopra al gomito, chignon alto, occhialoni da sole, labbra serrate una contro l’altra, incorniciata in un frame di Colazione da Tiffany.
“Benvenuta!” La prima a salutarmi è Maria Paola, da dietro il bancone. Ha un’energia da ragazzina, un’esplosione controllata di ricci bruni in testa, un filo di rossetto che amplifica un bel sorriso; se fosse mia madre, credo, ne sarei felice. Le chiedo se è di Bergamo, tanto per rompere il ghiaccio. Lei mi risponde che è una mezzosangue, dice così, sempre sorridendo. “Mia madre faceva la maestra di taglio, era una sarta bravissima. Viveva in Sicilia. Poi arrivò mio padre laggiù, da Bergamo, durante la seconda guerra mondiale. Fu fatto prigioniero dagli Alleati. Fuggì, incontrò questa donna bellissima, che la guerra aveva già reso vedova – mia madre appunto. Si innamorarono, si sposarono, si trasferirono quassù con la pace. C’era il boom economico e il nemico era l’immigrato, il terrone. Mia madre smise di uscire di casa, si murò viva in questa città; se in Sicilia aveva una reputazione paragonabile a quella di una stilista, qui era una straniera guardata con diffidenza, che si vergognava del suo accento”.
Il sorriso di Maria Paola s’increspa un po’, ma prima che si sfaldi in un’espressione d’amarezza arriva Maria Daniela. È la sua socia, ha capelli perfettamente lisci e corvini, è sarda, di Cagliari. Da un’isola all’altra, penso io. Anche Maria Daniela ha seguito un amore: lui era nell’esercito, tecnico elicotterista, ed era stato assegnato a Orio al Serio. Così lei ha trovato un posto all’Oriocenter. “Il mio cognome è Lostia. Senza apostrofo e con l’accento sulla i. Le prime settimane non è stato semplice, quando mi chiamavano all’interfono”. Sono una bella coppia, Maria Paola e Maria Daniela, forse perché sono così diverse. Se Maria Daniela fosse mia zia, credo, ne sarei felice.
“Mi ritengo una creativa” continua lei “e mi diverto, in questo lavoro: perché si tratta di pescare vestiti qua e là, dall’oblio, ridare loro un valore, rimetterli insieme su un manichino, in un outfit coerente e sensato, ridare loro una nuova vita”.
“Ci sono alcuni maglioni della nonna, spesso arrivano dalle valli” s’intromette Maria Paola “che fanno impazzire le ragazze più giovani. Sono tornati di moda”.
“E sono di un’ottima fattura, niente a che vedere con i capi prodotti oggi” riprende Maria Daniela.
Funziona così, questo negozio: la gente lascia i vestiti nei cassonetti della Caritas; i furgoni di Triciclo passano a svuotarli, e portano il carico nel laboratorio; nel laboratorio vengono scartati gli irrecuperabili, gli altri vengono selezionati, e igienizzati; e il meglio del meglio, finisce qui, da Rivestiti.
“Sentite, ragazze” dico io, prendendomi quella certa confidenza che sento che è già sospesa nell’aria “quanto costa quell’abito da sposa che avete in vetrina?”
Seconda stazione
Via Cavalieri di Vittorio Veneto. Sede del Laboratorio Triciclo. La prima impressione è quella di un luogo a metà tra un mercatino dell’usato, un negozio di vestiti, uno di arredamento, e un capannone.
Una donna di spalle, con un velo a coprirle il capo, passa in rassegna dei cappotti da uomo. Alla sua sinistra c’è una fila di magliette intime, bianche, tutte uguali, ognuna appesa al suo omino. Alla sua destra, un paio di metri più in alto, c’è Audrey Hepburn, anche qui, con il solito tubino nero, il solito chignon alto e i soliti guanti di seta fino al gomito, questa volta è di schiena e, senza occhiali, getta il suo sguardo dietro la sua spalla, pare guardare la signora col velo con una certa sufficienza aristocratica.
Mi presento a Federica, una dei responsabili del progetto Triciclo. Mi offre un caffè, e mi inizia a spiegare quello che accade qui dentro. E quello che accade prima.
I furgoni di Triciclo girano di cassonetto in cassonetto, per tutta Bergamo e provincia; li aprono e li svuotano. Il 95 per cento del contenuto non viene toccato, e viene mandato ad un’azienda, la MPT di Grassobbio, che a sua volta fa una selezione, decide cosa può essere rimesso sul mercato dell’abbigliamento italiano, cosa sul mercato estero, quali vestiti saranno smembrati e diventeranno pezze per meccanici o per autofficine.
“Non si butta via niente. C’è anche un motivo pratico: se i vestiti finiscono nell’inceneritore, le loro fibre, bruciando, intoppano le cappe” mi dice Federica.
Fa capolino nella mia testa il pensiero delle storie intrise in quegli abiti, dei passati che proprio non ne vogliono sapere di farsi cenere, e lottano con le unghie con i denti e con le fibre contro l’oblio, si aggrappano alle cappe. Per bilanciare questo picco anomalo di romanticismo, faccio una domanda molto diretta: “Quanto vi dà MPT?”
“Circa 20 centesimi al chilo. Con questi riusciamo a coprire le spese e pagare chi lavora per noi”.
Veniamo al fortunato 5 per cento. I furgoni lo portano direttamente in questo capannone, in un’ala apposita. Federica mi ci accompagna. È qui che avviene la selezione; i destini sono due: prima scelta o seconda scelta.
“Tutti quanti i vestiti vengono igienizzati. A questo punto, secondo la legge, smettono di essere considerati rifiuti e si trasformano in materia prima seconda. La prima scelta viene esposta in questo punto vendita, e una parte – diciamo la crème de la crème – finisce al negozio Rivestiti”.
“La seconda scelta, invece?”
“Viene venduta al chilo, ad alcuni ragazzi africani. Loro preparano dei container e spediscono tutto in patria, dove spesso ci sono le mogli, che a loro volta allestiscono dei piccoli (ma anche grandi) mercati, in cui il vestito italiano compete con quello cinese…e vince pure”. Tortuosi sentieri della globalizzazione, che partono da un cassonetto in una piccola città del Nord Italia.
La donna che decide il destino degli abiti appena arrivati – prima scelta o seconda scelta – si chiama Doris, ed è nigeriana. Prende in mano, controlla, rivolta e ispeziona un capo alla volta, va alla ricerca di macchie indelebili, o di buchi. E poi assegna ogni pezzo alla sua categoria. Ha delle scarificazioni sul volto; sono un segno distintivo, vengono scavate, con un coltellino, sul volto dei bimbi quando hanno appena un paio di settimane di vita. Sono segni di appartenenza a una comunità, a un popolo di antica discendenza, nel caso di Doris si tratta del popolo Edo.
“Adesso non si fanno più”, mi dice, mentre passa in rassegna un vecchio maglione color latte “si sta perdendo la tradizione, anche a Benin City, che è la città da cui vengo”.
La voce Wikipedia “cicatrici ornamentali” si conclude in questo modo:
La pratica delle cicatrici ornamentali in Africa è in netto calo. Persiste solo nelle aree più lontane dalle zone urbane e ha di solito perso molto del suo significato sociale e religioso. È invece in netta crescita il fenomeno dei tatuaggi, soprattutto nelle grandi città. È questo un fenomeno che può essere ricondotto sia all’occidentalizzazione, che alla riscoperta di una pratica che è stata presente in Africa per migliaia di anni.
Doris è stata assunta da Triciclo grazie a un programma di reinserimento. Ha una quarantina d’anni e un passato di violenze alle spalle.
Prima stazione
I cassonetti della Caritas, quelli gialli. Tutta questa storia, e questa piccola filiera che dà lavoro a una decina di persone, parte da lì.
Solo a Bergamo città ce ne sono 45. In tutta la provincia, circa 150. Ci si potrebbe condurre un’indagine sociologica; ambiente, demografia, cambiamento di usi, mode e costumi a partire dagli scarti.
Federica, a riguardo, traccia una prima linea di differenziazione: quella tra città e valli. “A Bergamo i cassonetti si riempiono molto più rapidamente. Ma quasi sempre sono abiti di scarsa qualità; molte cose sintetiche, che si usurano in fretta. In Val Seriana i cassonetti si riempiono ad un ritmo molto più lento, si butta via di meno, e le materie prime sono di qualità migliore, generalmente, durano di più. Le cose cambiano nettamente con la stagione turistica. E poi c’è il grande capitolo dei ritrovamenti alieni…”
Di nuovo il punto di domanda si dipinge sulla mia fronte.
“…portafogli rubati, quindi vuoti, cellulari caduti all’interno, chiavi di casa; bè, poi capitano anche ritrovamenti meno piacevoli. C’è chi scambia il cassonetto dei vestiti per quello della spazzatura; ma per fortuna sono casi molto isolati”.
Rumore di motore. Colpetto gentile di clacson. Victor e Mamadou sono venuti a prendermi. Andiamo a svuotare un cassonetto in zona stadio. Parcheggiamo. Loro s’infilano i guanti. Aprono. Nessuna cattiva sorpresa; tutto regolare; gli abiti sono quasi tutti avvolti in sacchi di plastica; ci penserà Doris, a scegliere cosa tenere e cosa scartare.
L’abito da sposa di mia madre è rimasto nello stesso armadio per decenni, come imbalsamato, una specie di monumento sotto naftalina, il sarcofago di un momento memorabile. Buttarlo in un cassonetto, credo, sarebbe per lei il sommo dei sacrilegi.
Chissà chi l’ha buttato, quello che c’era in vetrina da Rivestiti? Non era neppure male. Magari una moglie tradita. Oppure una vedova, ancora innamorata, che non poteva reggerne più la vista, e un poco le addolciva il dolore pensare che qualcun’altra l’avrebbe indossato, che la felicità scorre ancora, anche se altrove. Oppure qualcuno di una compagnia di teatro; e quell’abito era solo un costume di scena. Oppure una donna insospettabile, annoiata della vita, un poco nauseata dalla voce di quel marito che tutti i giorni, tutti i giorni uguali, se ne torna a casa dal lavoro, col solito bacio già pronto sulle labbra, e così un pomeriggio come un altro ha aperto l’armadio, ha visto l’abito e gli ha fatto un ghigno tremendo, l’ha preso, l’ha infilato in un sacco nero, l’ha chiuso nel baule, ha guidato fino al cassonetto, è scesa e ce l’ha scaraventato dentro, poi ha sorriso, ha acceso una sigaretta, e se n’è tornata a casa fischiettando.
Comunque adesso costa 70 euro. Un buon affare.
Mi sveglio. Mi guardo allo specchio. Mi trucco. Il caffè sale nella moka e fischia, il sole pare salire a stento; giornata grigina.
Indosso un paio di jeans, un maglioncino di lana verde petrolio, mi porto anche un quaderno per gli appunti.
Prima stazione: i cassonetti “della Caritas”. Seconda: un capannone, nella periferia di Bergamo; è la sede del Laboratorio Triciclo. Terza e ultima: un negozio a Bergamo quasi-centro.
Partiamo dalla fine.
Terza stazione
“Rivestiti” è il nome del negozio, in via Broseta. Nuova vita per abiti che hanno già vissuto, ma anche vintage e tanto altro, si legge in una descrizione che ho trovato on-line.
Varco la porta. Gentile scampanellio. Da sopra un armadio mi guardano cinque teste femminili di manichino tutte molto fiere dei loro cappelli (la prima a sinistra, ad essere precise, indossa un cerchietto con fiocco di un bel rosso brillante, e sciarpa coordinata sul collo decollato); dietro di loro c’è Audrey Hepburn, in tubino nero, sontuosa collana di perle bianche, guanti di seta nera fin sopra al gomito, chignon alto, occhialoni da sole, labbra serrate una contro l’altra, incorniciata in un frame di Colazione da Tiffany.
“Benvenuta!” La prima a salutarmi è Maria Paola, da dietro il bancone. Ha un’energia da ragazzina, un’esplosione controllata di ricci bruni in testa, un filo di rossetto che amplifica un bel sorriso; se fosse mia madre, credo, ne sarei felice. Le chiedo se è di Bergamo, tanto per rompere il ghiaccio. Lei mi risponde che è una mezzosangue, dice così, sempre sorridendo. “Mia madre faceva la maestra di taglio, era una sarta bravissima. Viveva in Sicilia. Poi arrivò mio padre laggiù, da Bergamo, durante la seconda guerra mondiale. Fu fatto prigioniero dagli Alleati. Fuggì, incontrò questa donna bellissima, che la guerra aveva già reso vedova – mia madre appunto. Si innamorarono, si sposarono, si trasferirono quassù con la pace. C’era il boom economico e il nemico era l’immigrato, il terrone. Mia madre smise di uscire di casa, si murò viva in questa città; se in Sicilia aveva una reputazione paragonabile a quella di una stilista, qui era una straniera guardata con diffidenza, che si vergognava del suo accento”.
Il sorriso di Maria Paola s’increspa un po’, ma prima che si sfaldi in un’espressione d’amarezza arriva Maria Daniela. È la sua socia, ha capelli perfettamente lisci e corvini, è sarda, di Cagliari. Da un’isola all’altra, penso io. Anche Maria Daniela ha seguito un amore: lui era nell’esercito, tecnico elicotterista, ed era stato assegnato a Orio al Serio. Così lei ha trovato un posto all’Oriocenter. “Il mio cognome è Lostia. Senza apostrofo e con l’accento sulla i. Le prime settimane non è stato semplice, quando mi chiamavano all’interfono”. Sono una bella coppia, Maria Paola e Maria Daniela, forse perché sono così diverse. Se Maria Daniela fosse mia zia, credo, ne sarei felice.
“Mi ritengo una creativa” continua lei “e mi diverto, in questo lavoro: perché si tratta di pescare vestiti qua e là, dall’oblio, ridare loro un valore, rimetterli insieme su un manichino, in un outfit coerente e sensato, ridare loro una nuova vita”.
“Ci sono alcuni maglioni della nonna, spesso arrivano dalle valli” s’intromette Maria Paola “che fanno impazzire le ragazze più giovani. Sono tornati di moda”.
“E sono di un’ottima fattura, niente a che vedere con i capi prodotti oggi” riprende Maria Daniela.
Funziona così, questo negozio: la gente lascia i vestiti nei cassonetti della Caritas; i furgoni di Triciclo passano a svuotarli, e portano il carico nel laboratorio; nel laboratorio vengono scartati gli irrecuperabili, gli altri vengono selezionati, e igienizzati; e il meglio del meglio, finisce qui, da Rivestiti.
“Sentite, ragazze” dico io, prendendomi quella certa confidenza che sento che è già sospesa nell’aria “quanto costa quell’abito da sposa che avete in vetrina?”
Seconda stazione
Via Cavalieri di Vittorio Veneto. Sede del Laboratorio Triciclo. La prima impressione è quella di un luogo a metà tra un mercatino dell’usato, un negozio di vestiti, uno di arredamento, e un capannone.
Una donna di spalle, con un velo a coprirle il capo, passa in rassegna dei cappotti da uomo. Alla sua sinistra c’è una fila di magliette intime, bianche, tutte uguali, ognuna appesa al suo omino. Alla sua destra, un paio di metri più in alto, c’è Audrey Hepburn, anche qui, con il solito tubino nero, il solito chignon alto e i soliti guanti di seta fino al gomito, questa volta è di schiena e, senza occhiali, getta il suo sguardo dietro la sua spalla, pare guardare la signora col velo con una certa sufficienza aristocratica.
Mi presento a Federica, una dei responsabili del progetto Triciclo. Mi offre un caffè, e mi inizia a spiegare quello che accade qui dentro. E quello che accade prima.
I furgoni di Triciclo girano di cassonetto in cassonetto, per tutta Bergamo e provincia; li aprono e li svuotano. Il 95 per cento del contenuto non viene toccato, e viene mandato ad un’azienda, la MPT di Grassobbio, che a sua volta fa una selezione, decide cosa può essere rimesso sul mercato dell’abbigliamento italiano, cosa sul mercato estero, quali vestiti saranno smembrati e diventeranno pezze per meccanici o per autofficine.
“Non si butta via niente. C’è anche un motivo pratico: se i vestiti finiscono nell’inceneritore, le loro fibre, bruciando, intoppano le cappe” mi dice Federica.
Fa capolino nella mia testa il pensiero delle storie intrise in quegli abiti, dei passati che proprio non ne vogliono sapere di farsi cenere, e lottano con le unghie con i denti e con le fibre contro l’oblio, si aggrappano alle cappe. Per bilanciare questo picco anomalo di romanticismo, faccio una domanda molto diretta: “Quanto vi dà MPT?”
“Circa 20 centesimi al chilo. Con questi riusciamo a coprire le spese e pagare chi lavora per noi”.
Veniamo al fortunato 5 per cento. I furgoni lo portano direttamente in questo capannone, in un’ala apposita. Federica mi ci accompagna. È qui che avviene la selezione; i destini sono due: prima scelta o seconda scelta.
“Tutti quanti i vestiti vengono igienizzati. A questo punto, secondo la legge, smettono di essere considerati rifiuti e si trasformano in materia prima seconda. La prima scelta viene esposta in questo punto vendita, e una parte – diciamo la crème de la crème – finisce al negozio Rivestiti”.
“La seconda scelta, invece?”
“Viene venduta al chilo, ad alcuni ragazzi africani. Loro preparano dei container e spediscono tutto in patria, dove spesso ci sono le mogli, che a loro volta allestiscono dei piccoli (ma anche grandi) mercati, in cui il vestito italiano compete con quello cinese…e vince pure”. Tortuosi sentieri della globalizzazione, che partono da un cassonetto in una piccola città del Nord Italia.
La donna che decide il destino degli abiti appena arrivati – prima scelta o seconda scelta – si chiama Doris, ed è nigeriana. Prende in mano, controlla, rivolta e ispeziona un capo alla volta, va alla ricerca di macchie indelebili, o di buchi. E poi assegna ogni pezzo alla sua categoria. Ha delle scarificazioni sul volto; sono un segno distintivo, vengono scavate, con un coltellino, sul volto dei bimbi quando hanno appena un paio di settimane di vita. Sono segni di appartenenza a una comunità, a un popolo di antica discendenza, nel caso di Doris si tratta del popolo Edo.
“Adesso non si fanno più”, mi dice, mentre passa in rassegna un vecchio maglione color latte “si sta perdendo la tradizione, anche a Benin City, che è la città da cui vengo”.
La voce Wikipedia “cicatrici ornamentali” si conclude in questo modo:
La pratica delle cicatrici ornamentali in Africa è in netto calo. Persiste solo nelle aree più lontane dalle zone urbane e ha di solito perso molto del suo significato sociale e religioso. È invece in netta crescita il fenomeno dei tatuaggi, soprattutto nelle grandi città. È questo un fenomeno che può essere ricondotto sia all’occidentalizzazione, che alla riscoperta di una pratica che è stata presente in Africa per migliaia di anni.
Doris è stata assunta da Triciclo grazie a un programma di reinserimento. Ha una quarantina d’anni e un passato di violenze alle spalle.
Prima stazione
I cassonetti della Caritas, quelli gialli. Tutta questa storia, e questa piccola filiera che dà lavoro a una decina di persone, parte da lì.
Solo a Bergamo città ce ne sono 45. In tutta la provincia, circa 150. Ci si potrebbe condurre un’indagine sociologica; ambiente, demografia, cambiamento di usi, mode e costumi a partire dagli scarti.
Federica, a riguardo, traccia una prima linea di differenziazione: quella tra città e valli. “A Bergamo i cassonetti si riempiono molto più rapidamente. Ma quasi sempre sono abiti di scarsa qualità; molte cose sintetiche, che si usurano in fretta. In Val Seriana i cassonetti si riempiono ad un ritmo molto più lento, si butta via di meno, e le materie prime sono di qualità migliore, generalmente, durano di più. Le cose cambiano nettamente con la stagione turistica. E poi c’è il grande capitolo dei ritrovamenti alieni…”
Di nuovo il punto di domanda si dipinge sulla mia fronte.
“…portafogli rubati, quindi vuoti, cellulari caduti all’interno, chiavi di casa; bè, poi capitano anche ritrovamenti meno piacevoli. C’è chi scambia il cassonetto dei vestiti per quello della spazzatura; ma per fortuna sono casi molto isolati”.
Rumore di motore. Colpetto gentile di clacson. Victor e Mamadou sono venuti a prendermi. Andiamo a svuotare un cassonetto in zona stadio. Parcheggiamo. Loro s’infilano i guanti. Aprono. Nessuna cattiva sorpresa; tutto regolare; gli abiti sono quasi tutti avvolti in sacchi di plastica; ci penserà Doris, a scegliere cosa tenere e cosa scartare.
L’abito da sposa di mia madre è rimasto nello stesso armadio per decenni, come imbalsamato, una specie di monumento sotto naftalina, il sarcofago di un momento memorabile. Buttarlo in un cassonetto, credo, sarebbe per lei il sommo dei sacrilegi.
Chissà chi l’ha buttato, quello che c’era in vetrina da Rivestiti? Non era neppure male. Magari una moglie tradita. Oppure una vedova, ancora innamorata, che non poteva reggerne più la vista, e un poco le addolciva il dolore pensare che qualcun’altra l’avrebbe indossato, che la felicità scorre ancora, anche se altrove. Oppure qualcuno di una compagnia di teatro; e quell’abito era solo un costume di scena. Oppure una donna insospettabile, annoiata della vita, un poco nauseata dalla voce di quel marito che tutti i giorni, tutti i giorni uguali, se ne torna a casa dal lavoro, col solito bacio già pronto sulle labbra, e così un pomeriggio come un altro ha aperto l’armadio, ha visto l’abito e gli ha fatto un ghigno tremendo, l’ha preso, l’ha infilato in un sacco nero, l’ha chiuso nel baule, ha guidato fino al cassonetto, è scesa e ce l’ha scaraventato dentro, poi ha sorriso, ha acceso una sigaretta, e se n’è tornata a casa fischiettando.
Comunque adesso costa 70 euro. Un buon affare.