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Nessun silenzio tra queste montagne

La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta.
(Primo Levi, “La tregua”)


C’è un’ora del mattino in cui non si è davvero certi dell’esistenza delle montagne. Accade quando il sole non è ancora sorto, getta i primi deboli raggi dietro la valle; il cielo si rischiara allora di un azzurro cupissimo, le cime si distinguono appena, sono linee inaffidabili, profili che tremano a fissarli a lungo. Niente viene a rassicurare lo sguardo: le strade e le macchine, le case con le luci e le promesse di vita – ogni cosa giace nascosta.
Potrebbe essere la prima ora del mondo.


***


«Sei pronta?»
La voce già decisa e squillante, Giorgia bussa alla porta della mia stanza – che poi sarebbe la sua, quella dell’infanzia.
«Arrivo».
«Dai, che per arrivare a Casere in macchina ci mettiamo un’ora buona».

Raccolgo lo zaino accuratamente preparato seguendo la lista che mi ha mandato per messaggio, un mese fa, dopo che le avevo chiesto di accompagnarmi: dentro ci sono snack a sufficienza per mangiare ogni ora, una borraccia, un K-way in caso di pioggia, e una canottiera in più per la notte che passeremo al rifugio, dopo aver raggiunto la cima. Abbasso la tapparella, infilo gli scarponi che Giorgia mi ha prestato: ieri sera, provandoli, me li ha stretti al massimo – io sedevo sul letto singolo, inebetita dai movimenti agili e decisi con cui chiudeva i lacci. Alla fine sorrideva soddisfatta, tastando la punta del piede per constatarne l’aderenza.
«Perfetti».

Anche Michael, il mio bisnonno, partiva a quest’ora del mattino. Il paese era ancora immerso nel sonno, nessuno lo avrebbe visto risalire il sentiero.


***


Conosco il punto in cui il fiume Aurino si ingrossa e rimescola le sue acque, creando pozze che risplendono come piscine naturali, divenendo un richiamo per ogni vivente di passaggio per questa valle – anche adesso: poco distanti da noi due signori si piegano a riempire le borracce, una mucca si abbevera alle loro spalle, attorniata da alcuni bambini incuriositi, e, ancora più lontano, un labrador si tuffa, spezzettando i riflessi del sole, incurante dell’aria fresca e dei richiami dei padroni. Conosco l’odore ombroso che hanno i pini quando si caricano di rugiada, e altre volte ho camminato in piena estate accanto a queste piccole malghe, rossastre nella luce del mattino, tutte diverse e identiche nelle loro proposte di sachertorte da gustare sui lunghi tavoli in legno. Eppure, adesso che procedo al passo ampio e regolare dettato da Giorgia, lungo un sentiero che dal parcheggio di Casere si inoltrerà sulle montagne, questo frammento di Alto Adige non si schiude intorno a me come un dorato paesaggio d’infanzia; l’impressione, dopo tanti anni che non ci tornavo, è anzi quella di camminare in un diorama, la ricostruzione fedele di qualcosa che dovrebbe essermi familiare, e invece mi guarda attraverso la distanza di un vetro infrangibile.

«Se teniamo questo ritmo, arriveremo al rifugio in tre ore circa. Sono i primi 900 metri di dislivello».
«Da lì al Passo dei Tauri, quanto ci metteremo?»
«Non saprei quantificare. Arrivare al confine con l’Austria è la parte più dura. Sono 2800 metri in tutto. È tosta, ma è fattibile».

Ad affascinarmi di Giorgia non è solo la lucidità, questo approccio pratico alla montagna che non concede idealizzazioni. Non è nemmeno solo la tonicità del suo corpo, ribadita da una tuta nera aderentissima, di un qualche materiale traspirante che benedice la circolazione. Nel suo lessico esistono le quote, i dislivelli, sa che i fiori violacei che crescono lungo il sentiero, simili a piccoli soli essiccati, si chiamano cardi, e nelle nubi distanti e violacee riesce a cogliere la possibilità remota di una precipitazione.

Loro non avevano la stessa esperienza di Giorgia. Gli uomini e le donne, gli stranieri venuti a ridiscendere questa valle, non conoscevano la lingua della montagna. Viaggiavano con vestiti troppo leggeri o delle taglie sbagliate, scarpe inadatte a percorrere il sentiero. Mi domando se giunti a Casere abbiano goduto, almeno per un attimo, della bellezza del paesaggio, o se era troppa la paura, la fretta di giungere ai camion che li attendevano nel parcheggio. Mi domando come deve essere stato, per loro che avevano letto del Sinai glorioso su cui Dio aveva inciso i primi comandamenti, scoprire, con un viaggio spaventoso, che la montagna è innanzitutto la ferocia degli elementi, il freddo e la fatica che non perdonano l’inesperienza.

«Ci siamo, tra poco arriva il primo strappo».
Guardo Giorgia senza capire. Lei sorride, indicando la parete di roccia che si innalza a un centinaio di metri di distanza da noi.
«La prima salita. In gergo si chiama così».


***


«Sa, sono contento che mi abbia contattato per sapere di più su una storia così poco conosciuta».

Hannes Obermair si collegava da Bolzano, ma avrebbe potuto essere ovunque: la sua sagoma frastagliata fluttuava sullo sfondo bianco e neutro di Zoom. “EURAC Research” era in scritto in caratteri rossi e grandi, in alto a sinistra.
«L’abbreviazione sta per “European Academy”, l’istituto di ricerca interdisciplinare per cui lavoro come ricercatore» aveva subito precisato.
«Partiamo dai numeri: furono più di cinquemila gli ebrei che fuggirono lungo il Passo dei Tauri, nel ’47, diretti verso la Palestina. Uomini, donne, talvolta anche incinte o con bambini molto piccoli. Provenivano dai più vari paesi europei – Germania, Ungheria, Polonia, Albania, Slovenia, Romania, o da quel che ne restava. Appartenevano a quel movimento di massa che l’anno dopo portò alla fondazione dello stato di Israele. Un esempio di Weltgeschichte, se ci pensiamo: un frammento di storia universale che si è riverberato anche su questa valle».

Gli uomini e le donne, gli stranieri venuti a ridiscendere questa valle, non conoscevano la lingua della montagna

Obermair si esprimeva in un italiano perfetto soltanto un po’ incrinato dall’accento tedesco, che dava alle sue frasi una cadenza irregolare, e somiglia al sentiero che percorro adesso, a questo tracciato sassoso che addenta la montagna. Un accento che rende la lingua più fragile, più esposta, che in passato è stato anche il mio.

«I membri della Bricha, l’organizzazione ebraica clandestina che predisponeva il viaggio, agivano con la massima scrupolosità. Avevano scelto il Passo dei Tauri perché era l’unico tratto presidiato dai carabinieri italiani, molto più accondiscendenti verso gli ebrei, per quanto strano possa sembrare, rispetto alle truppe francesi e inglesi che occupavano il resto dell’Austria. L’Inghilterra, in particolare, al tempo esercitava un mandato sulla Palestina, e al fine di evitare disordini scoraggiava in ogni modo il rimpatrio degli ebrei. Il viaggio cominciava di notte, dal paese austriaco di Krimml», Obermair aveva mosso piano l’indice, come a disegnare il percorso nell’aria, «e si concludeva la notte successiva a Casere, dove già attendevano dei camion diretti al porto di Genova. Insomma, tutto era organizzato nei dettagli. Ma che nessuno degli gli abitanti di questa valle si sia accorto del passaggio di centinaia e centinaia di persone, che nessuno se ne ricordi, mi sembra quanto mai inverosimile».

Da storico, Obermair aveva avanzato alcune ipotesi per spiegare questa “rimozione”: mentre parlava, capivo anzi che all’indagine di questa rimozione aveva dedicato gran parte della sua carriera ormai trentennale. Il collaborazionismo, la feroce diligenza con cui furono applicate le leggi razziali, sono tuttora il fuoco nero che alimenta la sua vita da studioso.

«Vede, l’antisemitismo era ben radicato in Alto Adige, rappresentava un’evoluzione del vecchio antigiudaismo cattolico. A questo si è poi aggiunto, come dire», aveva fatto una pausa, misurando bene le parole, «il superstrato nazista. Come saprà, la provincia di Bolzano – o Alto Adige, o Sud Tirolo che dir si voglia – era un territorio filo-nazista durante la seconda guerra mondiale. In parte, va detto, anche per reazione alla feroce politica di “italianizzazione” portata avanti del fascismo. Ma in generale c’è stata da subito una forte affinità verso l’ideologia hitleriana, non solo da parte delle élite di lingua tedesca di questa regione».

«Attenta. Se vuoi girarti e guardare il paesaggio, devi fermarti. Altrimenti rischi di inciampare».
Le raccomandazioni di Giorgia sono frecce scagliate da punti diversi della salita, mi obbligano a raddrizzare la postura, sgranare gli occhi sul sentiero. Nei tratti più ripidi imito i suoi movimenti, cerco i suoi stessi punti di appoggio. Procedo a passi attenti, lo sguardo fisso sulla terra che si solleva sotto i miei piedi. Ci sono punti in cui la storia si sovrappone alla geografia con più forza: a questo pensavo, ascoltando Obermair. Indagare l’identità di un luogo significa anche individuare gli elementi di cui è composto, scovarne le radici e i superstrati – quasi a comporre un carotaggio scrupoloso, una sorta di geologia degli avvenimenti. Per tutto il Novecento l’odio era stato seminato con cura lungo questa valle, gettato come sale sulla ferita mai rimarginata dell’annessione: così Obermair spiegava non solo il silenzio in cui è caduto l’esodo di più di cinquemila persone lungo il Passo dei Tauri, ma anche l’indifferenza che gli altoatesini avevano loro riservato. Il risentimento era ormai divenuto il frutto più autentico di queste montagne, e la fame del dopoguerra l’aveva tutt’altro che sradicato, anzi, solo reso più esposto, denudato, proprio come durante la guerra, mi racconta Giorgia, erano state denudate intere pareti di montagna, per impedire assalti e imboscate. Ci fermiamo a riprendere fiato, una luce azzurra si mescola alle mie vertigini.

«Finora ho parlato di ebrei, ma non è esatto: tecnicamente, i reduci dai campi di concentramento, e più in generale coloro che erano scampati alle persecuzioni, venivano definiti displaced persons. Molto spesso si trattava di persone prive di passaporto, senza più una casa, o un contesto familiare a cui far riferimento. Individui soli, frammentati, atomizzati, trovavano rifugi temporanei all’interno di campi speciali, in attesa che si decidesse il loro destino».

Questi “Displaced persons camps”, luoghi spersonalizzanti sin dal nome, a detta di Obermair erano tutt’altro che rari: venivano allestiti nell’Europa dell’est, in Austria e in tutti i territori del Reich occupato; talvolta anche negli ex campi di concentramento.

«Sì», aveva confermato, schiarendo la voce, «ha capito bene. Capitava che fossero proprio i lager, le prime stazioni di sostegno per i sopravvissuti».

Non avevo pensato a La tregua di Primo Levi mentre conversavo con Obermair: ma adesso, mentre la fatica appesantisce le gambe, e il respiro si spezza tra i polmoni – non riesco più a capire che cosa provo, se questi brividi sono freddo o fatica, fame o vertigine – in questo sommovimento del corpo sul quale mi sembra di non avere alcun controllo, riemergono le immagini di quel libro letto anni fa, che mi aveva colpita per una strana commistione di poesia e crudezza, perché l’elegante precisione del linguaggio conviveva con l’orrore che raccontava. Scritto proprio nel ’47, La tregua è il resoconto del lungo viaggio di ritorno di Levi a Torino, dopo la liberazione del campo di Buna-Monowitz; per una cupa ironia del destino, la prima tappa del rimpatrio fu proprio Auschwitz. Disertata da SS in fuga, occupata da poche e impreparate squadre russe, l’efficientissima metropoli dell’orrore rappresentava ora un sanatorio a cielo aperto, in cui la morte gettava gli ultimi colpi di falce, distinguendo irreparabilmente tra sommersi e salvati, tra coloro che sarebbero affondati per sempre nell’inferno concentrazionario, e i displaced che invece sarebbero tornati nel mondo, liberi ma non redenti.

«Dobbiamo accelerare il passo: comincio a sentire delle gocce di pioggia».

Non posso sapere dove proseguisse il viaggio delle donne e degli uomini che attraversarono questa valle. So però dove il viaggio è cominciato: non davvero al confine con l’Austria, ma molto prima, tra le baracche sconquassate in cui avevano lottato per restare in vita, scoprendo le parti più buie di sé stessi. In queste “stazioni” avevano spesso sostato anche oltre la fine del conflitto, realizzando di essere qualcosa di ancor meno di un bottino di guerra – cosa che, pur nella sua spietatezza, garantisce un qualche valore: nelle parole di Obermair, nient’altro che “una sfida logistica di approvvigionamento”, “una cifra di difficile gestione per le potenze vincitrici del conflitto”, “soggetti che non figuravano più in alcun apparato anagrafico”. La condizione di displaced si formava per la prima volta nella mia mente proprio per contrasto al linguaggio formale di Obermair.

«Come si ricostruisce la storia di ciò che è accaduto, se non resta più alcuna traccia visibile?»

Fino a quel momento avevo ascoltato Obermair con attenzione, prendendo appunti; ora quella domanda sorgeva spontaneamente, stupendomi. Lui aveva atteso qualche secondo prima di rispondere.
«Sa, Walter Benjamin diceva che il processo storico non deve essere rivolto ai vincitori, ma ai vinti, ai perdenti, alla memoria di chi non ne avrebbe diritto. Quanto accaduto sul Passo dei Tauri, l’anonimità delle vite che l’hanno attraversato, è proprio uno di questi casi. I contorni li abbiamo, ma sulle singole vicende, sui piccoli e i grandi drammi, non sappiamo poi tanto. Bisogna lavorare sui frammenti: incrociare molti dati, raccogliere le storie dei sopravvissuti e dei loro discendenti. Soprattutto, tornare sul luogo. Percorrerlo, cercando ciò che ci è sfuggito».

“Che nessuno degli gli abitanti di questa valle si sia accorto del passaggio di centinaia e centinaia di persone, che nessuno se ne ricordi, mi sembra quanto mai inverosimile”

La voce di Giorgia annuncia l’approssimarsi di un punto di arrivo, ma quando alzo lo sguardo non c’è niente di certo: gli occhi inumiditi sfuocano i profili di legno del rifugio, e lei che mi attende col cappuccio alzato, alla fine del sentiero, mi pare un tronco nero, esilissimo, inaspettato a questa altitudine. Mi ci vuole qualche secondo per rendermi conto che tutt’intorno non esistono più boschi né alberi, che la montagna a poco a poco si è spalancata rivelando nient’altro che strati di terra ed erba che a guardare più su, verso le cime ancora impensabili, sfumano soltanto in buia pietra.

Mentre cammino con gli ultimi residui di forze, faccio quello che non dovrei fare: mi volto verso est, verso il punto da sono venuta, ed è un attimo. La stanchezza e la fatica hanno la meglio. Vedo le montagne incurvarsi e scivolare giù a valle, le cime disciogliersi e mischiarsi ai rivoli d’acqua che sibilano ai miei piedi. I boschi lontani e pieni di sole si allargano fino a diventare dei laghi, strane pozze di luce che riempiono gli occhi, e davvero anche qualcosa di me si disperde, qualcosa procede e resta aggrappato alla montagna e qualcos’altro scivola via per sempre, insieme alle gocce freddissime che cadono sulle mie braccia accaldate – mi rendo conto che non è pioggia, ma neve, è proprio neve quella che adesso, in una giornata di luglio, cade tacitamente sul sentiero.

«Sa, non è affatto improbabile quello che mi ha scritto nella mail: doveva per forza esserci qualcuno ad accompagnare le displaced persons attraverso la valle».

È l’ultima cosa che ricordo della conversazione con Obermair: la formalità che si distendeva in un mezzo sorriso, lasciando intravedere una sincera curiosità.

«Gli schmuggler, sì. Loro conoscevano il passo dei Tauri meglio di chiunque altro. Lungo il sentiero, anche prima della guerra, vi barattavano olio, zucchero, beni di prima necessità. È probabile che fossero proprio loro a fare da guida. Stando a quello che lei mi ha raccontato, il suo bisnonno fu uno di loro».


***


Schmuggler, dal verbo tedesco schmuggeln, letteralmente: l’atto di trasportare merci segretamente attraverso un confine, o, più in generale, di intraprendere un commercio clandestino. Adottato nella lingua letteraria all’inizio del XVIII secolo, dal verbo smuggeln deriva il danese smugle, lo svedese smuggla, l’inglese to smuggle. Secondo ipotesi accreditate, il termine sarebbe entrato in vigore nelle lingue germaniche presso il Mare del Nord, e deriverebbe dalla forma dialettale norvegese smokla, dove la variazione in k insinua una sfumatura di incertezza. Il significato originale di schmuggeln pertanto non sarebbe tanto quello di contrabbandare, quanto quello di “sgattaiolare via”, “scomparire alla vista”, “nascondersi”.


***


«Il ghiacciaio che vedi, dall’altra parte della valle, è il Picco dei Tre Signori. La cima più alta della Valle Aurina, il punto più a nord d’Italia».

Distesa sulle panche in legno che fronteggiano il rifugio, volto la testa verso il punto indicato da Giorgia: una lama di luce si disegna sotto le palpebre, ma non riesco a metterla a fuoco. La fatica ha ammorbidito ogni muscolo.
«Oltre quelle creste comincia l’Austria. Noi però risaliremo il confine a ovest, dalla parte opposta».

Cerco di calmare il respiro, mentre il sangue circola convulsamente e risveglia ogni mia parte; sento le caviglie pulsare contro gli scarponi. Voci sconosciute sciamano alle mie spalle, altri stranieri venuti a sostare al rifugio.
«È un nome strano, Picco dei Tre Signori».
Giorgia si rimette seduta; allunga una mano ad accarezzare gli steli lunghi che affiorano sotto la panchina. Mi ha confidato che da bambina amava posare il palmo sopra le ortiche, la divertiva quel bruciore trattenuto. «Solita storia. Tre signori ricchi – principi, vescovi o che so io – scoprono questi territori e se ne appropriano». Appoggia un gomito sul tavolo, si volta verso di me e poi di nuovo verso il ghiacciaio; la sua chioma bruna è dello stesso colore delle montagne. «Come se poi fosse davvero possibile, appropriarsi di una valle».

Vorrei saper nominare le creste lontane o distinguere le rocce che affiorano qua e là dai manti erbosi, ma io non ho le conoscenze di Giorgia; il mio vocabolario è povero a questa altitudine. Sono venuta quassù sulle tracce di un uomo di cui non mi restano che fragili indizi, cronache scombinate e inaffidabili. “Urgroßvater” in italiano si traduce “bisnonno”, ma alla lettera vuol dire “vecchio e grande padre”; e io me lo immaginavo davvero, da bambina, questo padre vecchissimo, grande come una creatura delle fiabe, seduto alla poltrona della stubelle sempre satura di fumi di sigarette. Questo sconosciuto, sul quale in famiglia era calato un silenzio a me incomprensibile, riemergeva nei racconti spezzati di mia nonna materna – non conoscevo la parola “demenza”, ma conoscevo gli occhi offuscati della Oma, simili a laghi irraggiungibili, il volto congelato in quell’immobilità inespressiva che è una temporanea assenza di vita. Michael compariva in quelle crepe, dagli spiragli in cui la memoria si frantumava e ricomponeva. Michael che era nato e cresciuto su queste montagne, quando appartenevano ancora all’Austria. Michael che in paese passava quasi inosservato, e quando i clienti varcavano la porta dello spaccio di famiglia, non era a lui che si rivolgevano, ma a sua moglie Katharina. Michael che scompariva per giorni interi sulle montagne, a nessuno dei figli era concesso seguirlo. Solo una volta la Oma lo aveva visto rientrare; incapace di dormire aveva gettato lo sguardo oltre la finestra, e nel buio teso aveva intuito qualcosa, “qualcosa come un bosco in cammino”. Suo padre l’aveva riconosciuto a stento – era uno sconosciuto fra gli sconosciuti, un’ombra fra le ombre.

Io non mi sono mai spinta così lontano, non conosco l’alta montagna: ma so che in ognuno di noi esistono dei punti in cui è possibile ritirarsi, crepacci che non è dato misurare, oltre i quali si diventa stranieri anche a sé stessi. Per la prima volta, dopo anni passati a fantasticare su Michael, voglio saperne di più: non solo chi fosse, e cosa sia accaduto in quella che sarebbe stata la sua ultima estate. Voglio conoscere il punto in cui scompariva.

«Cos’è questo rombo lontano? È da quando abbiamo iniziato la salita che si avverte».
«Il ghiacciaio che si scioglie. Succede tutte le estati, è la montagna che cambia pelle. Nell’ultimo periodo avviene sempre più rapidamente».


***


Scriveva di notte, quando le buie stanze della taverna di Krimml erano ormai sature del respiro assonnato dei suoi compagni. Rischiarato da lampade di fortuna, Eliyahu Litani si abbandonava a lettere appassionate e ricche di dettagli: ogni settimana aggiornava i suoi cari sul numero di displaced che lui e altri membri della Brigata ebraica erano riusciti a radunare, indugiando, non senza un certo orgoglio, sulla gratitudine che alcuni esuli gli avevano riservato, stringendogli più volte le mani, bisbigliando commossi “Shalom, Shalom”, prima di scomparire tra le montagne. Talvolta, se la stanchezza glielo consentiva, accennava anche ai pochi, misteriosi italiani che, dandosi il cambio ogni notte, li guidavano lungo il sentiero.

Suo figlio Rami conserva ancora ognuna di quelle lettere: in collegamento da Tel Aviv, in un luminoso pomeriggio di giugno, me ne mostrava alcune; il ricordo di quei caratteri spigolosi ora si confonde ai profili irregolari delle pietre che costellano il paesaggio. I duemila metri, mi informa Giorgia, segnano la soglia dell’inabitabilità: solo rare specie di fiori riescono a prosperare oltre questa altitudine, e anche se il tratto che ci aspetta è meno ripido rispetto a quello che abbiamo già percorso, la fatica del cammino si farà più acuta – «l’ossigeno a questa altezza si riduce del venticinque per cento». Intorno a noi, la montagna per come la conoscevo è scomparsa, lasciando il posto a una cupa distesa lunare.

“Urgroßvater” in italiano si traduce “bisnonno”, ma alla lettera vuol dire “vecchio e grande padre”

«Negli ultimi anni ho capito questo: everyone is a story». Rami accompagnava il suo broken English con ampi gesti delle mani e un deciso tono della voce. Non aveva alcuna reticenza nel condividere frammenti della sua storia famigliare, anzi: parlare di suo padre sembrava procurargli un sincero entusiasmo.

«Sai, da giovane non ero molto interessato alle sue imprese. Solo pochi anni fa, con la nascita di mio nipote, ho cominciato a chiedermi: cosa resterà di me una volta che non ci sarò più? Allora ho capito che la mia vocazione è questa, tenere viva la memoria delle persone che hanno attraversato i Tauri nel ’47. Ho aperto un programma radio su questo argomento, e in poco tempo ho ricevuto una quantità incredibile di testimonianze da parte di figli o nipoti delle displaced persons, materiale che vorrei presto destinare a un museo. Everyone is a story» aveva ripetuto, affilando un sorriso,«even you».

Rami non parlava da storico, ma da discendente: da colui che ha ereditato una storia incompleta e vuole farsene depositario, fiducioso che ogni frammento troverà il proprio posto. Io ho l’impressione contraria: più riordino i frammenti, più l’immagine generale sembra sfuggirmi. Più scavo nel silenzio che avvolge la figura di Michael, più mi sembra di dover fare i conti con un silenzio più grande.

«I carabinieri italiani, di guardia lungo il confine, non ostacolavano gli ebrei. Va bene, ogni tanto chiedevano una sigaretta in cambio, ma niente di più. And then there were the guides: uomini, talvolta donne, che conoscevano bene il confine; venivano da diversi paesi della valle».

Michael allora non doveva essere stato il solo, cosa del resto più che ragionevole; era inverosimile che avesse accompagnato più di cinquemila persone lungo il sentiero, su questo sentiero, in una sola estate. Eppure quel dettaglio così semplice mi colpiva come una rivelazione, facendomi apparire per la prima volta il cammino sotto un aspetto più pratico – non l’impresa di un uomo solitario, ma uno dei tanti mestieri rischiosi tentati nella spietatezza del dopoguerra. Queste guide – con tutta probabilità altri contrabbandieri – difficilmente venivano pagate in denaro: per quanto organizzata, la Bricha, mi spiegava Rami, aveva risorse limitate. Grazie ai contatti intrecciati sul versante austriaco, i suoi membri potevano invece offrire orzo, zucchero, sale, tabacco. Materie semplici, ma che tra le valli ormai incolte ed esauste, tra i boschi incendiati che stentavano a ripopolarsi valevano una fortuna.

«Non era pensabile incamminarsi senza le guide: lo raccontava mio padre, lo raccontano anche i parenti delle displaced persons che sono poi giunte in Palestina. I membri della Bricha organizzavano il viaggio, ma non avrebbero mai potuto accompagnare i displaced lungo il sentiero. Era già rischioso di giorno, immagina di notte».

E io lo immagino: immagino di non poter vedere la montagna che si innalza ripida alla mia destra, e il vuoto che ora si spalanca alla mia sinistra; immagino che di questa pendenza vertiginosa mi resti solo un’impressione, il disorientamento di allungare le mani nel buio e non trovare appigli. Immagino di non poter ricalcare i passi di Giorgia, ma di percepirne solo il suono secco nel buio, e di essere responsabile non solo per la mia vita, ma anche di quella di molte altre persone, perché un inciampo o una semplice distrazione potrebbero provocare un rallentamento, attirando l’attenzione di guardie mai abbastanza lontane.

«Purtroppo non posso dirti con certezza se mio padre e Michael si siano conosciuti. Vedi, nessuno rivelava il proprio nome lungo la via dei Tauri. I membri della Bricha lavoravano sotto copertura: si infiltravano nei displaced camps austriaci fingendo di essere soldati britannici, o magari assumevano l’identità di altri profughi che avevano già raggiunto la Palestina. Quando ai displaced, beh, spesso i documenti neanche li avevano più. And the Italians were afraid: loro non avrebbero mai rivelato la propria identità, correvano il rischio di essere denunciati».

Rami l’aveva ripetuto più di una volta: gli italiani. Per lui, ragionevolmente, gli abitanti della Valle Aurina non potevano che essere italiani; magari di madrelingua tedesca, ma pur sempre italiani – così del resto sanciva, ormai da tempo, la burocratica spartizione dei confini. Eppure, nell’idea che mi sono fatta di Michael, nei dettagli scombinati che mi sforzo di cucire insieme, non posso immaginarlo né come italiano né tantomeno come austriaco. “Siamo gente di montagna,” ripeteva spesso la Oma: a me, che conoscevo la montagna solo d’estate, e ogni estate in modo distratto, quella formula sembrava solo un modo per ribadire un suo disinteresse, la totale noncuranza verso qualsiasi cambiamento o avvicendamento politico avvenisse nel resto del Paese. Solo adesso ne riconosco la saggezza, adesso che le pietre sotto ai miei piedi si allargano a dismisura fino a diventare dei massi, e il sentiero scompare fino a divenire solo un’intuizione, una retta da indovinare in mezzo a un terreno spaccato – quasi che il mondo non avesse mai avuto inizio, e dopo chissà quale antica eruzione ogni cosa fosse rimasta in potenza, a uno stadio minerale, solidificatasi prima di assumere una forma. “Italia” o “Austria” sono definizioni già difficili da tracciare a valle; qui perdono ogni significato.


***


Forse Michael, nonostante l’abitudine, avvertiva una strana vertigine guardando da quassù, verso le case minuscole e come sospese in un velo di luce. Forse non poteva che trovare ridicola la pretesa dei regimi di reclamare per sé questo luogo, spartendoselo come un bottino di guerra. Con l’Anschluss del ’39 non ci furono più dubbi, nessuna promiscuità tollerata: da un lato stavano gli austriaci, ormai cittadini del Reich, dall’altra gli italiani, altrettanto reclusi nelle proprie fantasie di purezza. Gli italiani, per Michael, rappresentavano ormai una categoria ben precisa – gli uomini che si presentavano in divisa nello spaccio di famiglia, come in molti altri negozi del paese, portando via quel che desideravano; poco importa che per procurarsi quella merce Michael e Katharina avessero camminato per chilometri nella valle, bussando alla porta di ogni casa incontrata, barattando con ostinazione ogni oggetto che potesse avere un qualche valore – masticavano la corteccia dei pini quando la fame artigliava lo stomaco. Ma i saccheggi sarebbero stati solo l’inizio.

Michael aveva un sincero amore per la musica: è uno dei pochi dettagli personali che mi restano sul suo conto. Sapeva suonare quasi tutti gli strumenti, e aveva per quelli a fiato una passione particolare. Quest’uomo misterioso, che raramente intavolava conversazioni, aveva trovato un altro modo per far sentire la propria voce in paese. I concerti erano l’unico rito sociale che si concedesse: a uno di questi, una tiepida sera d’autunno, partecipò anche un commando di italiani. Per tutto il tempo ballarono, cantarono, risero con le bocche sguaiate e schiumanti di birra. Poi, a festa finita, proposero all’intera piazza un brindisi al Duce. Michael rimase ostinatamente seduto in disparte, con lo sguardo basso, intento a ripulire il suo ottone. Aveva sempre rifiutato il saluto fascista, ma so per certo che non fosse un partigiano: nelle poche foto che rimangono di lui compare anzi con i baffi lunghi arricciati all’insù, un sentito omaggio, pare, a Francesco Giuseppe d’Austria. Provava nostalgia per un impero che lui, nato nel 1909, non aveva davvero mai conosciuto, e chissà che non fossero state queste contraddizioni a infastidire gli occupanti, la spontanea ostilità di un uomo che non era ascrivibile a nessuna fede politica – “Siamo gente di montagna”. Quella sera gli italiani lo aspettarono sulla soglia di casa; se ne andarono solo a tarda notte, ormai certi che, con tre dita in meno, Michael non potesse mai più suonare.


***


«Sai, c’è un fatto che mio padre non si stancava di sottolineare, nelle sue lettere quanto nei suoi racconti».
La luce era ormai calata nell’appartamento di Rami; di lui restava un’ombra venata di azzurro.
«Il Passo dei Tauri era utilizzato non solo dagli ebrei scampati alle persecuzioni. Lungo il confine transitavano anche ex prigionieri politici, anche loro reduci dai campi, e parecchi soldati in fuga; talvolta, anche soldati nazisti».

Con una nota di cupezza nella voce, Rami mi confermava un fatto a cui anche Obermair aveva accennato: uomini come Adolf Eichmann, Josef Mengele ed Erich Priebke, insieme a migliaia di collaborazionisti, ufficiali e sottoufficiali nazisti, alla fine della guerra erano poi fuggiti in Alto Adige, imboccando la stessa rotta delle displaced persons; con l’unica differenza che, una volta arrivati al porto di Genova, anziché per la Palestina sarebbero salpati per il Sud America o l’Argentina. Le Diocesi di Bolzano e Bressanone, così come la Croce rossa internazionale, avevano fornito loro identità fittizie e titoli di viaggio, ma spesso erano stati proprio i contadini della valle a offrire rifugio; questo, più di tutto, era un fatto che Rami non riusciva a spiegarsi: le porte si erano schiuse per i carnefici, ma non per le vittime.

«Vedi», aveva aggiunto, quando sullo schermo restava ormai uno sciame buio e instabile di pixel, un’immagine che lottava per tenersi insieme, «era soprattutto dagli abitanti della valle, dai loro stessi compaesani, che ogni smuggler doveva guardarsi».

Ascoltavo con attenzione; pensavo al corpo di Michael, ritrovato un mattino di settembre, proprio all’inizio del sentiero. La sua sagoma appena intuibile tra l’erba alta che accarezza i tronchi dei pini; il volto contuso, ogni tratto sfigurato. Katharina l’aveva riconosciuto a stento.


***


«Non posso farcela».
«Sì che puoi: metti i piedi esattamente dove li metto io».

Ascolto le istruzioni di Giorgia finché la sua voce si assottiglia a un suono non intellegibile, uno sciabordio di parole che mi è impossibile tradurre in azione. La paura impedisce ogni pensiero, è affilata e lucida come l’asta di ferro a cui dovrei aggrapparmi, camminando radente alla montagna: non c’è altro modo per attraversare il vuoto che si spalanca tra due speroni di roccia, a pochi metri da noi. Per un attimo, immagino gli alpinisti che devono aver innestato questa specie di ringhiera: i calcoli precisi, la fatica che deve esser loro costata scolpire e bucare la pietra, infilare i ganci abbastanza profondamente da garantire un appiglio.

«Dammi, porto io le tue cose».
Provo a opporre una minima resistenza, ma Giorgia insiste e mi sfila lo zaino: lo sforma e modella tra le mani, fino a che il peso che credevo di essermi portata si riduce a un piccolo fagotto; lo infila dentro al suo zaino, si rialza. A guardarla da dietro adesso è una specie di torre in cammino.
Cerco di imitarla come posso: procedo lentamente, un passo dopo l’altro. Quando afferro la ringhiera, sento il cuore battere sulla punta delle dita.

Se avessero camminato in pieno giorno; se non avessero percorso il sentiero al buio, ma sotto questa luce imperiosa; se avessero visto il luogo in cui si stavano inoltrando – questa specie di deserto ad alta quota, questa immane distesa senza ombre – allora anche la più solida delle fedi avrebbe vacillato. Non c’è qui alcun indizio celestiale, nessuna promessa d’ultraterreno: avvicinandosi alla cima si realizza anzi che la cima è quanto di più terreno esista. È in alta montagna che i profeti ascoltano la parola di Dio; quello che invece a me è dato ascoltare è il suono lento e ottuso del vento tra le rocce, i campanacci lontani dei greggi che risalgono i versanti più ripidi e, sopra ogni cosa, il rombo inestinguibile del ghiacciaio che lentamente decade a valle, memoria che ogni cosa tramuta e scompare.


***


Ero grata a Rami per le sue condivisioni: mi aveva fornito informazioni consistenti sull’esodo lungo il Passo dei Tauri e, indirettamente, sul ruolo di guide come Michael, ma la discrepanza che avvertivo fra le nostre visioni della Storia a un certo punto si era fatta intollerabile. Il suo era un racconto lineare: un popolo da sempre perseguitato faceva finalmente ritorno a casa, nella terra che era stata promessa alle sue genti da scritture millenarie. Questo racconto, che si interrompeva volontariamente nel 1948, con la fondazione dello Stato di Israele, ignorava tutto ciò che sarebbe accaduto dopo e che accade ancora oggi; ignorava che l’esodo dei displaced avrebbe prodotto altri displaced, e che la terra promessa non sarebbe stata un regno di pace, ma un’ennesima frontiera sanguinosa. Quanto accaduto sul Passo dei Tauri per me non è il frammento di un racconto lineare, piuttosto di una spirale che procede giorno dopo giorno allargandosi instancabilmente, così antica che mi sembra impossibile individuarne l’origine. Mi sembra anzi che sia sempre esistito un popolo-fantasma che attraversa a piedi imperi e nazioni, avventurandosi lungo sentieri non adatti agli uomini; un popolo di esiliati e sradicati, le cui genti mutano lingue, nomi e religioni, ma costante rimane la certezza di essere stranieri.

Vedo le montagne incurvarsi e scivolare giù a valle, le cime disciogliersi e mischiarsi ai rivoli d’acqua che sibilano ai miei piedi

C’era un dettaglio che Rami aveva raccontato con un certo orgoglio; affiora adesso che mi resta un’ultima salita da percorrere. Capitava che nei displaced persons camps i membri della Brigata organizzassero vere e proprie lezioni di lingua ebraica: tra gli sfollati figuravano infatti anche persone non religiose, o che avevano praticato altre religioni, uomini e donne per cui quella ebraica aveva rappresentato solo una delle tante radici che arricchivano il loro albero genealogico – erano state poi le leggi antisemite a ridurli a un’identità unica e assoluta, trasformando in colpa una lontana discendenza. Per Rami queste lezioni erano il dettaglio che coronava il suo racconto, la suprema conferma che esistesse un’origine a cui fare ritorno; io invece non avevo potuto trattenere un brivido. Immaginavo le voci in coro sforzate nella pronuncia, gli accenti limati per articolare parole che non potevano suonare famigliari. E adesso che la valle è ormai scomparsa, trasformata in un orizzonte in fiamme, appena percepibile oltre un mare roccioso che sembra non avere fine, riesco davvero a vederli, questi displaced senza una casa o una lingua, che avanzano compatti; un uomo li guida, camminando poco distante.


***


Giorgia si ferma di scatto, lasciando cadere lo zaino a terra. Estrae da una delle tasche anteriori la macchina fotografica, poi punta l’obiettivo verso una chiazza di fiori che non avevo notato – lunghi e sottili, i petali di un rosa denso e scuro spiccano tra le rocce brune.
«Garofanino maggiore, uno dei miei preferiti. Cresce solo in punti lontani dal passaggio degli uomini, sull’orlo dei crepacci». Si accovaccia a terra; per alcuni secondi ascolto il battito lento e regolare dell’otturatore.
Non si intravedono più case, né boschi: se passassimo abbastanza tempo a questa altezza potremmo dimenticare le persone che eravamo.
«Vai avanti tu, ormai siamo quasi in cima».


***


Doveva percorrere l’ultima salita a quest’ora del pomeriggio, poco prima che il sole cominciasse a calare. Alzando lo sguardo doveva vedere le cime come le vedo io adesso, orlate di una luce che ha tutte le venature dell’incendio.
Procedeva solo, accompagnato dall’eco dei suoi stessi passi, ma deve essere capitato anche a lui, almeno una volta, che il suono lontano dei campanacci improvvisamente gli si chiudesse intorno, e i musi sottili premessero contro i suoi polpacci come a sospingerlo; allungando le mani, poteva sentire il pelo ispido degli animali scorrergli sotto le dita.
Avrebbe aspettato fino a sera, cercando un giaciglio tra queste alte rocce che scintillano come lingue di fuoco. Avrebbe trascorso le ultime ore del giorno fra fuggiaschi, disertori, displaced di ogni paese, fra contadine dai lunghi vestiti ispidi venute a contrabbandare tabacco con i soldati annoiati. E chissà se almeno qui, sotto un altro nome, all’inizio e alla fine di ogni Storia possibile, Michael si sia mai sentito a casa.


Il nucleo originario di questo reportage narrativo è stato sviluppato durante il corso “Scrittura dal vero – il reportage narrativo” tenuto da Nicola Feninno (direttore editoriale di CTRL) per la Scuola Holden.

Hotel Mauro – ricordi, ristorante, discoteca

Premessa:
Questo reportage nasce circa quattro anni fa e ha una genesi particolare.

Era un periodo delicato e decisivo per noi di CTRL: rischiavamo la chiusura e abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding tra i nostri lettori. È andata benissimo e, da allora, siamo cresciuti e abbiamo pubblicato quattro libri.
Tra le diverse modalità che avevamo attivato per darci un sostegno economico c’era l’opzione del “reportage a casa tua”.
Bruno, un amico e grande sostenitore, ci ha addirittura aperto le porte di un hotel.
In mezzo, poi, c’è stato un periodo drammatico prima per Bergamo e poi per tutta l’Italia.
Ora, finalmente, questo racconto vede la luce.


I.
NEL TARDO POMERIGGIO

Tutte le otto figure – nella penombra si intuiscono solo i contorni – d’un tratto fissano un punto del soffitto: non c’è niente. In quel punto, un tempo, pendeva la strobosfera. Guardo anch’io e la immagino, frantuma la luce, la moltiplica, la fa girare in tondo stampandola contro i volti sudati di chi balla e di chi sta immobile con un drink, muove solo il piede, guardando gli altri che ballano, ogni tanto si porta la cannuccia alla bocca.
Si sono fregati la strobosfera, dice una voce maschile.
È qui la festa? Un’altra voce, femminile, che scende giù dalle scale, rimbomba e viene assorbita dalle pareti insonorizzate dello stanzone qui nel piano interrato. Un’ombra gli va incontro per accoglierla. Io cerco di non perdermi i movimenti.
Da quanto tempo è chiuso l’albergo? Chiede la voce femminile.
Ormai sono venticinque anni, risponde l’ombra, l’ho riconosciuta dalla voce: è Bruno, e adesso illumina la figura femminile con la torcia del cellulare. Lei tossisce, come per reazione alla luce, indossa dei jeans e una maglia blu. Poi la torcia si rivolge verso di me, mi acceca.
Sono ancora comodi i divanetti, vero?
Io faccio cenno di sì, accarezzando il velluto della copertura, che mi lascia uno strato di polvere, come un guanto, sulla mano.
La luce si abbassa sulla moquette del pavimento, subito avanza basculando, torna verso il centro di quella che fino a venticinque anni fa era una discoteca, al piano interrato dell’Hotel Mauro, chiuso definitivamente nel 1997.

Resto qui seduto in disparte ad ascoltare, i miei occhi tornano ad abituarsi all’oscurità. Il gruppo di amici continua la danza dei ricordi e io trattengo quello che riesco, senza fare domande, afferro brandelli sbalzati da un passato che non è il mio. Devono avere tutti intorno ai cinquant’anni.
Ci sarebbero anche le uscite di sicurezza! Dice una delle ombre.
Però hanno staccato la corrente.
Ci portiamo un generatore.
Una sera sola! La vita che ritorna per una sera sola qua a Miragolo!
Risate. Colpi di tosse.
E abbiamo pure il bodyguard!
Suono secco di una pacca su un paio di spalle ben piantate.
Altre risate. Due ombre si staccano dal resto del gruppo, parlano della prima volta che hanno fatto l’amore, proprio qui sotto.
Era per terra o sul divanetto?
Sul divanetto. Su questo divanetto.
No, per terra.
Allora avremo iniziato sul divanetto e poi saremo rotolati per terra.

Devono amarsi ancora, si intuisce dal modo in cui giungono a un accordo sulla ricostruzione del loro passato. Tossiscono entrambi. Poi chiamano a raccolta gli altri, vogliono fare una foto. Chiedono se posso scattarla io.
Come sempre, c’è un attimo di silenzio dopo il cheeeeeese e prima del flash.
Ho l’impressione di essere un dinosauro!, dice una delle ombre.
Scatto una seconda, una terza e una quarta foto con il cellulare di Bruno. Ad ogni flash, per un attimo, mi appaiono i tratti dei nove volti, le espressioni, i vestiti.
Vi ricordate quella volta che ho fatto ballare la sciura Maria, un lento, qui davanti a tutti? Anche questa voce la riconosco: è Giuliano, era seduto di fianco a me a tavola, a pranzo.
Un ultimo flash ed esco a prendere aria.


Mi siedo su una panchina che affaccia su una via, si chiama via Centro, porta al centro di Miragolo San Marco, frazione di Zogno, in Valle Brembana. Quasi mille metri di altitudine. Gli abitanti sono cento, poco più, forse poco meno, in questi casi non c’è da fidarsi dei dati ISTAT.
Tossisco e in bocca sento la polvere della discoteca che si è mischiata al sapore della torta alle due creme.

II.
A PRANZO

Siamo tutti intorno al tavolo. È domenica. L’indirizzo è: Miragolo San Marco, via Centro, civico 17/A. Ti tieni l’hotel Mauro sulla destra, e dopo una cinquantina di metri sei arrivato. C’è il sole, l’estate del 2022 è finita da poco. Nel piatto ci sono gli antipasti.
Prego, servitevi.
Prima, un brindisi.
Alla signora Maria?
Alla signora Maria.
Si chiama Hotel Mauro perché l’ha costruito mio fratello Mauro. È stato inaugurato nel 1969. Nel 1969 a Miragolo non arrivava neanche la strada, c’era solo una mulattiera. Un attimo che vado a tirare fuori le crespelle dal forno, dice la signora Maria.
Aveva 24 anni, lo zio Mauro, quando sono iniziati i lavori, continua Silvia, la figlia.
Era partito con l’idea di fare un ristorantino. Poi, già che c’era, ha deciso di fare su un hotel, aggiunge Walter, il fratello di Silvia.
Lo zio ha chiamato la mamma perché gli serviva una cuoca, dice Orietta un’altra sorella.
Ma aveva mai fatto la cuoca prima? Chiedo io.
Per il giorno dell’inaugurazione era stato arruolato un cuoco, mi risponde la signora Maria, che era andata in cucina e ora è tornata al tavolo con una grossa teglia di crespelle, che passa a Maura, l’ultima delle sue figlie, che si serve e poi fa girare.
Però quel cuoco lì non si è presentato. Così il Mauro ha telefonato al posto pubblico di Valbrembo, all’epoca nessuno aveva il telefono in casa; dal posto pubblico vengono a chiamarmi – allora abitavo a Valbrembo; sono nata a Miragolo ma poi mi ero trasferita a Valbrembo. Mio fratello al telefono mi dice: Sono rimasto senza cuoco, non so come fare, vieni su a darmi una mano? Va bene, gli rispondo. E da quel giorno non sono più andata via.
Ma quindi, signora, lei non aveva mai fatto la cuoca?
No.
E come ha fatto?
Mi sono buttata dentro, ho improvvisato.

Però, mamma, tu dal figlio della contessa Marzotto…
Lì facevo la cameriera.
Quanti anni aveva?
Quattordici. Anzi, no, undici…il piangere che ho fatto. Da Miragolo si andava a Zogno, e da Zogno si prendeva il treno per Milano. Tornavo ogni due o tre mesi. La casa del figlio della contessa Marzotto era in piazza San Babila, lì vicino. Dovevi stare attenta a spolverare, perché era tutta argenteria. E anche al servizio in tavola, ci voleva attenzione: i signori non dovevano restare mai senza il piatto sulla tovaglia; se ne toglievi uno con una mano, con l’altra dovevi metterne un altro, contemporaneamente.
Le mani della signora Maria si ricordano perfettamente il movimento, e lo ripropongono.
Sotto il bicchiere ci andava un piattino d’argento. Un altro, sempre d’argento, dove andava il panino. Tutte quelle cose lì. Alla fine, però, erano gente alla buona: erano il figlio della contessa, la moglie e due bambini. Io avevo la mia stanza e il mio bagno. La signora metteva i pantaloncini corti ai bambini anche d’inverno; diceva che dovevano rinforzarsi le gambe. E con la Silvia ho fatto anch’io così. Pantaloncini corti anche d’inverno.
Però, mamma, qua d’inverno fa più freddo che a Milano.
Sì, però ti sei ammalata meno di tutti gli altri bambini.
La teglia arriva tra le mie mani: crespelle con funghi e crespelle con prosciutto. Silvia mi dice che lo zio Mauro, dopo l’hotel, aveva costruito un impianto di risalita poco distante. Lei aveva cinque, sei anni, si ricorda i pullman che salivano fino a qui, quasi duecento bambini ogni domenica, poi tutti a mangiare all’hotel.
Nevicava molto più spesso.
Il Mauro aveva un’agenzia di compravendite, Agenzia Brembana. Si faceva pubblicità sui giornali e alla radio locale. E in tutte le pubblicità c’era il numero di telefono. Quella che rispondeva al telefono ero io – la signora Maria mi fa un sorriso. Dovevo capire se dall’altra parte c’era uno che i soldi ce li aveva. Se non ce li aveva era una perdita di tempo. E mio fratello non sopportava di perdere tempo, perché il tempo è soldi.
E come faceva a capire se quello all’altro capo del telefono aveva i soldi?
Sono cose che si capiscono. Basta prenderla un po’ larga.

Walter mi riempie il bicchiere e aggiunge: Aveva il maggiolone, lo zio Mauro. Faceva la spesa senza scendere, tirando giù il finestrino, urlava gli ordini e poi, al ritorno, ritirava tutto, sempre dal finestrino.
Andava sempre di corsa.
A casa mangiava la minestra in piedi.
Walter, ti ricordi quella volta che ha preso la banconota da 100 mila lire, l’ha strappata a metà, e ha dato un pezzo a me e un pezzo a te? Dice Silvia.
Che poi ci ha detto: Andate al bar e prendete quello che volete!
Era matto.
Aveva la coda di donne dietro.
Se fosse vissuto più a lungo…
Scusate, vado a controllare l’arrosto.
Quando è morto lo zio Mauro? Chiedo a Bruno.
Poi lo chiediamo a mia suocera, che non mi ricordo la data precisa.
Qualcuno vuole il bis?
Su, che sono rimaste quattro crespelle, non si buttano.
I funghi li ha raccolti il Walter.
È Walter il fungaiolo.
Silvia, raccontagli quella cosa del pantaloncino! Dice Orietta.
Ma no, non usciamo fuori tema, dice Bruno.
Io e lui ci siamo conosciuti all’hotel. Io lavoravo con mia mamma, lui veniva su in vacanza tutte le estati. Ha sette anni meno di me. L’avevo visto sempre come un ragazzino. Poi è successo qualcosa.
Silvia si è presa la scena e indica il marito.
L’avevo visto come un bambino fino al giorno prima. Poi non so. Non ti è mai capitato? Non ti è mai capitato che fino a un attimo prima guardi una persona, la vedi in un certo modo, poi basta un attimo e hai occhi completamente diversi? E non è più possibile tornare indietro all’immagine di prima. Hai presente? Ecco, a me è capitato quando l’ho visto con quei pantaloncini addosso, forse dipende tutto da quei pantaloncini, che ne so. Devo controllare, che secondo me in casa li abbiamo conservati da qualche parte.
Signora Maria, in che anno è morto il Mauro? Chiede Bruno, che forse è imbarazzato, non si capisce.
Nel 1979. 30 giugno del 1979. Si era sposato l’anno prima, il 19 giugno del 1978. Aveva 35 anni.
Quando ha aperto l’hotel aveva 25 anni, calcolo io mentalmente, mentre Giuliano, il marito di Orietta, che è seduto a fianco a me, mi passa l’arrosto.
Questo è il famoso arrosto della signora Maria! Lo cucinava anche ai matrimoni.
Quanto fa l’Atalanta?
Controllo.
Ancora zero a zero.
Quanto manca?
Fine primo tempo.
Quando è morto l’hotel non era già più del Mauro. L’aveva venduto al Nello nel 1974. I soldi li aveva la moglie, la moglie del Nello, era proprietaria di una profumeria in centro a Milano. La loro idea era vendere la profumeria e starsene quassù, tranquilli, con l’hotel. Se non che, nel frattempo, la moglie si è accorta che il Nello aveva l’amante. E l’ha mollato. Lui non ha più pagato. Così nel 1981 l’hotel è finito all’asta. All’asta l’ha ritirato il Colleoni, quello del Centro Moda Colleoni, in centro a Zogno, insieme con il geometra Amore, anche lui di Zogno. Mi hanno chiesto se ero disponibile a lavorare per loro e mandare avanti l’hotel, stipendiata. Ho detto subito di sì.
400 mila lire al mese, ci lavoravo tutti i giorni come se fosse il mio hotel. 400 mila lire non erano niente, però avevo la possibilità di tenere lì i bambini, che erano tutti piccoli.

La signora Maria beve un bicchiere d’acqua e si crea un intervallo di silenzio. Silvia mi dice che suo padre era morto nel 1980, un anno dopo lo zio. A quel punto la signora Maria era una casalinga con quattro figli, la più piccola, Maura detta Popi, aveva sette mesi. Non avevano un soldo, e quando Colleoni e il geometra Amore le hanno offerto di lavorare nell’hotel, l’hotel che era di suo fratello, che conosceva così bene, che era a due passi da casa, per lei è stata come la manna scesa dal cielo.
La signora Maria si pulisce le labbra con il tovagliolo e riprende: il Colleoni, dopo qualche anno, mi dice, signora Maria, noi ora facciamo il contratto e lo firmiamo; sopra c’è scritto che mi deve 15 milioni di lire di affitto all’anno, ma non deve rispettare quello che c’è scritto. Se riesce a darmi dieci milioni va bene. O anche cinque, o uno o niente. Non m’interessa. L’importante è che lei lo tenga da conto come fa adesso. Ho firmato. Nel 1985 mi hanno dato le licenze alla Camera di Commercio. E fino al 1997 l’ho portato avanti da sola.
L’arrosto è buonissimo, signora.
Prendine ancora una fettina.

Silvia mi racconta che ha due incubi ricorrenti. Il primo: sua madre, lei, sua sorella Orietta e suo fratello hanno preparato la sala per il cenone di Capodanno, la capienza è di 180 persone. Nevica troppo. Così sono costretti a buttare via tutto il cibo.
Il secondo: sempre Capodanno, i 180 ospiti sono tutti seduti in sala e non c’è niente di pronto da mangiare.

Bruno racconta di quando veniva arruolato come cameriere ai quei cenoni di Capodanno, qualche volta ha fatto anche il dj, nella discoteca del piano interrato.
Silvia e Orietta si divertivano a indossare le pellicce delle sciure milanesi, nel guardaroba, e si guardavano allo specchio imitandone l’accento.
Viene fuori anche la storia di un habitué che passava ore e ore al telefono, c’era una cabina al piano inferiore, in un locale attiguo a quello della discoteca, all’altro capo del telefono c’era la sua amante.

I ricordi, uno dopo l’altro, creano un vortice che dà l’impressione di potersi allargare all’infinito, ma poi, come sempre accade, si richiude su se stesso, si quieta, e siamo tutti ancora integri.La signora Maria ne approfitta per portare a tavola un piatto di formaggi, che inizia a fare il suo giro.

Signora Maria, quali erano i piatti che cucinava più spesso all’hotel? Chiedo io.
Eh, tanti.
Il suo preferito?
Li conosci i nosecc?
Faccio cenno di no.
I veri nosecc che si mangiavano da me, quando ero bambina, si facevano con le foglie di verza, quelle scure che si trovano solo in primavera e all’inizio dell’estate. Dentro la foglia si mette il ripieno, si lega per fare un pacchettino, si mette a bollire con delle fette di lardo nell’acqua.
Il papà, dice Maria ruotando lo sguardo sui suoi quattro figli, quel giorno che è caduto, aveva mangiato i nosecc. Era felicissimo.
Senza lasciare troppo silenzio in mezzo, riprende: Io cosa mi sono inventata all’hotel? I nosecc con le foglie di verza bianca: quelle ci sono tutto l’anno; e, invece che farli bollire, li facevo al forno, con il pomodoro.
Silvia aggiunge che una volta, con dei clienti, si è inventata la storia di un bisnonno, che aveva fatto la guerra in Russia, e che aveva importato il piatto da lì. Aveva funzionato. Per cui la riproponeva spesso: nosecc “alla russa”.
È iniziato il secondo tempo. Si riparte dallo zero a zero.

A volte d’estate, interviene la signora Maria, chiudevo alle 3 del mattino e lo trovavo ancora fuori, con i suoi amici. Indica Bruno. Così dicevo: a tutti quelli che trovo ancora qui alle 6 offro il cappuccino e la brioche, in cambio di qualche lavoretto.
A volte ce ne andavamo, dice Bruno, che se no venivamo messi a pulire tutto il salone. Altre volte invece, aspettavamo l’alba, lei ci offriva la colazione e poi ci faceva ramazzare, buttare i sacchi dell’immondizia o fare su e giù dalla cantina con le casse delle bibite. Però, la verità, e non lo dico solo perché è mia suocera, è che la sciura Maria è stata la seconda mamma per tutti noi.
Sai qual è il piatto che cucino più spesso, io? Mi dice Silvia.
La bresaola.
Bruno ride.
Nessuna di noi sorelle ama cucinare, odiamo i fornelli, è come se questa cucina ci avesse portato via nostra madre, dice Orietta, mentre Bruno mi fa vedere sul cellulare un video di Norberto Tarenghi, un musicista di San Giovanni Bianco, che veniva a suonare all’hotel tutti i capodanni.
Chissà se è ancora vivo.
Prova a cercare su Google.
Non esce niente.
Ho fatto la torta alle due creme, dice la signora Maria, prima di sparire di nuovo in cucina.
Con un tono di voce più basso Silvia mi racconta che l’hotel ha chiuso definitivamente il 30 settembre del 1997, era un martedì, la domenica prima c’era stato un pranzo di battesimo. I clienti erano andati diminuendo negli ultimi anni. L’affitto si era alzato. La proprietaria era diventata la moglie del Colleoni: voleva una cifra altissima, che non potevamo permetterci. È stato lì che mia mamma ha deciso di chiudere per sempre. È andata in depressione. Noi non ce ne siamo accorte, eravamo già grandi. Ce l’ha confidato il suo medico.
Il pensiero di farmi mantenere dai miei figli… La signora Maria è ritornata, con la torta, è come se avesse sentito quello che mi stava raccontando Silvia.
Per me era inaccettabile. Sono stata male, di un male che, non lo so. Stavo bene solo in casa, solo se non vedevo nessuno. Come vedevo una persona, mi prendeva un tremore, così, in tutto il corpo. Non dormivo più. Mi ricordo che un giorno, qui a casa, c’era mio nipote, il Marco, gli stavo portando il caffè, mi ha preso il tremore e ho rovesciato tutto il caffè sul pavimento. Era l’inizio dell’estate. Pochi giorni dopo ho seguito il consiglio del Don Giorgio, il parroco: mi ha detto, Signora Maria lei deve sparire, andare da un’altra parte, tra poco arrivano tutti i milanesi delle seconde case, e vorranno venire tutti a salutarla, tutti a parlare dell’hotel, del passato, di quello che è successo. Non ce l’avrei fatta. Così si è presentata l’occasione per dare una mano all’Isba. Io l’ho accettata. Me ne sono andata.
L’Isba era un grosso ristorante a Castelli Calepio, mi spiega Silvia.
E piano piano sono tornata a stare bene.

Siamo pronti per andare?
Finiamo il caffè e ci siamo.
Mamma, vuoi venire anche tu all’hotel?
No. Non riesco a vederlo così. Voi andate.
Sicura?
Sì.

III.
CIRCA DUE ANNI PRIMA

Il Bello dell’Usato, si chiama così il magazzino di mobili usati che ha creato Bruno. È a Gorle, vicino a Bergamo. Domani si festeggia l’inizio del 2020. Scatto una fotografia a una biscottiera a forma di torta, credo sia di ceramica. Poi a una borsa di pelle color amaranto, tavolini, lampade, sedute, complementi, vecchi libri, bicchieri, un grosso furgone, l’ufficio, il volto di Bruno. Quando torno a casa, sul cellulare, ho due ore di registrazioni che finiscono con lui che mi dice: Senti. Ho pensato che la storia da raccontare è quella di un hotel. Ci passavo tutte le estati. Ho conosciuto lì mia moglie. Lo gestiva sua madre, mia suocera, la signora Maria. Lasciami il numero, che una di queste domeniche organizziamo un pranzo su da lei, se non cade troppa neve.

Preferisco essere immaginato – Un poeta e i suoi motoneuroni

[Questo reportage ha una veste grafica speciale. E – in qualche modo – anticipa un progetto a cui abbiamo iniziato a lavorare e che, pian piano, vi sveleremo nei prossimi mesi.
Intanto, buona lettura
]

Apro la chat e invio un messaggio, e questo è più o meno quello che succede: un pacchetto di dati dall’app sul mio telefono viene codificato fino a diventare bit, che equivalgono a segnali elettrici, una serie di 0 e 1. I bit vengono trasferiti in forma di onde radio all’antenna cellulare più vicina a me, probabilmente quella che vedo ora fuori dalla finestra, sulla collina di fronte. Da qui i dati arrivano alla grande autostrada sotterranea e sottomarina che è Internet: circa 800.000 chilometri di cavi che attraversano i continenti e i fondali degli oceani e che portano informazioni da una parte all’altra del pianeta: da analisi mediche, foto di tramonti, messaggi d’amore, a transazioni finanziarie e meme di gatti. Adesso il mio messaggio viaggia criptato sott’acqua in forma di segnali ottici dentro filamenti polimerici e vetrosi. La fibra ottica. Poi esce dal mare e torna sulla terra, e arriva a uno dei centinaia di server del servizio di chat che sto usando, da qualche parte nel pianeta. Il server, che non è altro che un computer, riceve questi bit, gentilmente li decodifica e invia un segnale di conferma di ricezione; a me appare una spunta, vuol dire che il messaggio è arrivato da qualche parte. Il server immagazzina il messaggio e a quel punto lo inoltra al nodo successivo, finché non arriva al destinatario, un poeta che abita in una cittadina veneta a circa 850 chilometri da casa mia, di nuovo in forma di onde radio e impulsi elettrici: ancora 0 e 1. Quando succede questo a me appare un secondo segno di spunta: il messaggio è arrivato all’app del destinatario e posso iniziare ad aspettare la risposta.

Il tutto avviene in meno di un secondo. Così al poeta, che in quel momento si è appena svegliato, appare sullo schermo il mio pacchetto di bit decodificati: “Ciao Dario, posso venire a trovarti?”. E qui comincia la parte faticosa.

***

Oh mhicrocavvallo”, inizia così un’ode amorosa sull’innamoramento interspecie nei confronti di un “pony fassinoso”. Tra le centinaia di poesie che Dario Meneghetti ha scritto negli ultimi anni, questa è la prima che ho letto e resta una delle mie preferite: “Bachiamoci in bocca / mostriamo alli amici / facciamoli vedere / quanto siamo felici […] Ma lo devo pure urlare / in faccia a ‘sta ggente / che l’amore tra umagni / è robba da gnente”. Commuoversi e ridere allo stesso tempo, spesso senza sapere perché, riassume abbastanza il mondo poetico di Dario Meneghetti.

Altrove, quando non ci sono pony di mezzo, l’amore è disperato e metaforico, come nella terribile “Alba”: “Alba che sei la mia donna / abbi pietà / scagliami oltre l’indecenza / di questo insulso dolore / lontano dal linciaggio del tempo / che oggi grande è il bisogno”. L’Alba di cui parla è una figura femminile, quella luce che mette termine alla notte. E la poesia si conclude così: “Caduto in ginocchio / riempio la bocca di neve. / Alba che sei la mia donna / la neve si scioglie / come io vorrei sciogliermi in te. / Alba se sei la mia donna / portami via, / abbi pietà di me”.

Quando ho cominciato a parlare con Dario, la notte mi mandava i versi che scriveva per chiedermi pareri sulla versione migliore. Di questa “Alba” ne ho sette versioni diverse, ma penso che lui ne abbia scritto di più. Io, giusto per darmi un tono, riflettevo un po’ per poi dirgli “secondo me funziona di più la terza”, ma così, a caso. In realtà le trovavo tutte belle. Di sicuro non potevo restare indifferente a versi come “Caduto in ginocchio / riempio la bocca di neve”.

Parlare in chat, parlare di poesie, era l’unico modo di avere un contatto con lui. Dario, assieme ad alcuni amici, ha fondato una rivista, L’Imbranauta, che si presentava come “il funerale della letteratura”, ha scritto racconti e componimenti e pubblicato diverse raccolte di poesie; ma non lo vedrete ai reading né alle presentazioni dei suoi libri, e nemmeno ai festival dove le sue poesie vengono lette. E non rilascia interviste. Quindi conoscerlo da vicino non sembrava un’impresa facile. Le prime informazioni che ho avuto su di lui erano di persone che l’avevano conosciuto. Una cugina: “Mi ricordo una volta, ero andata a trovarlo a Venezia in piena estate. Camminava come un treno aprendosi un varco tra i turisti senza chiedere permesso, anzi semmai imprecando in veneziano se aveva fretta”.

Un suo amico: “Lo ricordo buttarsi di testa, come un tonno, sui sacchi delle immondizie per strada e fare lui stesso il sacco! Cantava sui gradini della Fenice, dopo qualche bicchiere di vino, con il pathos di una prima alla Scala. Ha rotto i confini tra quello che era pensabile e impensabile”.

Una volta in chat gli ho chiesto cosa si vedeva da casa sua e mi ha risposto così: “Lo schermo del computer. Il resto è trascurabile”. Certo, nella sua stanza c’è una finestra che vede con la coda dell’occhio, mi ha spiegato; ma a quanto pare non c’è niente di interessante da guardare. La vera finestra che gli interessa è lo schermo del computer, dove può scrivere le poesie. Lo schermo è la sua interfaccia con la vita, quella “realtà parallela dei pixel, dove in qualche maniera posso esistere anch’io come gli altri. Ora che più che visto, preferisco essere immaginato”.

Nelle sue poesie ci sono spesso versi che alludono a una condizione di prigionia. In una intitolata “A me stesso” sta scrivendo direttamente “dalla mia prigione di carne”. In un’altra è ancora un prigioniero: “sgranando i giorni / come perle del rosario / invento il mondo / rinchiuso / nella mia piccola Auschwitz”. Le emozioni ci sono, ma “sono dinamite bagnata / che dorme nel fondo”. Il mondo fuori è ricordo, dolore, o qualcosa di totalmente trascurabile, come la finestra di casa sua. Oppure, ancora, qualcosa di molto divertente. Ad esempio un microcavallo. Ma il dentro viene descritto così: “la sala è vuota / è solo jazz / solo nella mia mente”. Prigioni, sale vuote, campi di concentramento, ma anche l’immagine della trincea, situazione liminare tra esterno e interno, come nell’omonima poesia che si conclude così: “gutta cavat lapidem, per dio / peccato che la lapide / stavolta sono io”.

Nelle sue poesie si parla spesso di morte, ma non di morire: questo mai. “Che stupido sbaglio la morte / tanta fatica per niente / è troppo comodo morire / troppo stupido” […] / i cani della pioggia non bagneranno la mia tomba”. Su questo Dario è irremovibile: “niente deve finire / tutto deve ancora cominciare / post fata resurgo / mattino dentro mattino / tinto d’assurdo”. E a chi gli chiede come fa a vivere non sa rispondere, dice, per poi invece incidere su pixel i seguenti versi: “rispondendo di esistere / con il mio furibondo / piacere di vivere”.

Quando gli ho chiesto se vorrebbe morire mi ha risposto “No”. Dopo qualche minuto – siamo sempre in chat – ha aggiunto: “Siamo ben lontani dalla soglia. L’ho già vista”. Poi un giorno mi ha mandato un file enorme, centinaia di pagine, la sua autobiografia, il racconto della sua vita finora. Una serie di avventure picaresche ai limiti dell’assurdo – in realtà, spesso, ben oltre questi limiti – di un gruppo di giovani, lui e i suoi amici imbranauti, in una Venezia perennemente notturna, tra sbronze colossali, risse, continue cadute in acqua, scherzi atroci, abitazioni di parenti elegantemente distrutte da rave improvvisati, riviste letterarie nate in osterie, storie d’amore strazianti e continui e spassosi disastri annunciati.

Il libro è ambientato in gran parte negli anni ’90, quando ancora i giovani veneziani aggredivano la città bevendo e cantando e soprattutto bevendo, e in piena notte si poteva incontrare un giovanissimo tenore sotto l’effetto di funghi magici cantare a squarciagola, in mutande, qualche aria ottocentesca, abbracciato a una statua della quale si era perdutamente innamorato. Quell’eroico cantore ovviamente era lui, Dario. Ci sono pagine tragiche e molto, molto divertenti sulle sue avventure notturne con un barchino nei canali veneziani, tra mangiate pantagrueliche, bestemmie altrettanto abbondanti, viaggi comici, feste dove si rischiava la vita, pericolose arrampicate su antichi palazzi veneziani e moltissimi posti dove cadere. Questa vita in bilico non era solo metaforica, le cadute di oggetti animati e inanimati a Venezia erano molto frequenti. Una volta gli ho chiesto l’elenco degli oggetti caduti in acqua – a parte il suo corpo che, a quanto ho capito, si trovava più spesso in acqua che sulla terraferma – e mi ha risposto con un elenco: “Tre skateboard, trecentoventisette palloni, tre o quattro paia di occhiali, idem per i cellulari, almeno una dozzina di volte la dignità, e una camicia”.

L’amore che Dario ha per la Venezia di quel periodo è pari all’amarezza che ha per la Venezia di oggi. “È diventata invivibile verso il duemilacinque” spiega. “La pendenza verso lo sfacelo sociale è diventata sempre più ripida, poi come fanno tutte le discese l’accelerazione accumulata si è trasformata in frana. Da un momento all’altro un tracollo verticale. L’ho capito un giorno che sono andato a fare colazione verso la stazione ferroviaria e mi sono visto arrivare una muraglia di turisti tutta compatta e interminabile, come se fosse sbarcata la razza umana dalla giganave sul nuovo pianeta luna park”.

In una poesia descrive Venezia come “un’orchestra senza orchestrali, / suonata da un pubblico di sordi: / il teatro è sempre pieno, / ma il pubblico è triste”. In un’altraconclude così: “veneziano c’è chi lo nasce / e io lo fummo per scelta / perché amo tutto de ‘sta città, / pure ‘a puzza ca infetta / che oltre se stessa è stata civiltà, / un paradiso in mutande / nu cesso divino / unito al mondo da un ponte cretino”.

Prima di essere il poeta che conosco, Dario è stato un tenore dalla voce bella e potente. Se lo ricordano ancora i passanti che hanno avuto la fortuna di assistere ai suoi concerti improvvisati nel cuore della notte, non sempre con tutti i vestiti addosso, ma anche gli spettatori di alcuni prestigiosi teatri italiani, fra cui Bologna e ovviamente La Fenice di Venezia. Il racconto dell’incendio del 1996, visto da Dario da pochi metri, è una delle parti più strazianti del libro, dove si percepisce forse il vero amore di Dario: la musica. Mi spiega che ne ascolta anche otto ore al giorno. “Quando scrivo mi aiuta. Però ad un certo punto non sento più niente. Va bene qualsiasi musica, sono su altro pianeta. È un piccolo stato di trance, imparare ad astrarsi è vitale. Intendo anche senza musica: è essenziale, se non vuoi impazzire”. “E tu hai rischiato spesso di impazzire?”. “Non molte volte per fortuna, sono abile con le evasioni”.

Ho chiesto a Dario com’è avvenuto il passaggio dalle poesie “divertenti” a quelle più “serie” e la risposta è un po’ spiazzante: “Beh ora scrivo sempre da sobrio, non è una cosa trascurabile. Poi ho accumulato più esperienza cercando di mantenere tutte le mie prerogative”. Questo mantenere le prerogative si traduce in una perfetta convivenza del comico con il tragico: dopotutto l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. In lui coesistono costantemente. “Scrivere mi aiuta a convertire la merda in poesia, ma non voglio smuovere gli animi a compassione facendo bandiera del mio male, la sola idea mi ripugna. Tra le alternative che questa vita mi offre, lo scrivere è la migliore. Mi è sempre piaciuto, ma ora è qualcosa più che un hobby. È un gioco meraviglioso nel quale ritrovo la mia umanità. Posso esistere”.

Anche per questo, credo, Dario tiene molto alla sua autobiografia. Più che viverla per raccontarla, nel suo caso è corretto capovolgere i termini: raccontarla per vivere. Finché sta scrivendo, sta vivendo. Quando un giorno gli ho chiesto se, tra una poesia e l’altra, stava andando avanti con l’autobiografia, mi ha risposto seccamente: “Devo”. Mi aggiornava spesso sulle nuove poesie, io gli raccontavo di me, oppure gli facevo delle domande a cui lui non solo dava una risposta ma anche una poesia, poi un giorno è sparito, ha smesso di rispondere. Non è stata affatto una sorpresa. Fin dall’inizio avevo messo in conto che sarebbe potuto capitare. Sapevo che un giorno, un giorno qualunque, non avrebbe più risposto e che di lui mi sarebbero rimaste solo le poesie, l’autobiografia e la cronologia della chat.

***

Fin qua non ho detto com’è successo che un promettente tenore, colto e vulcanico, non abbia fatto carriera nei teatri e si sia chiuso in casa a scrivere poesie trovando del tutto “trascurabile” la finestra di camera sua. Il motivo sono i motoneuroni, cioè i neuroni responsabili del movimento. Quelli di Dario a un certo punto hanno smesso di funzionare. È successo circa una decina d’anni fa. All’inizio non poteva più usare le mani e ha imparato a scrivere con il naso: “Hai presente le galline quando beccolano il cibo da terra? Ecco. Io col naso facevo uguale però sulla tastiera del telefono. Ero diventato velocissimo”. Poi si è ritrovato in sedia a rotelle, e nel giro di pochi anni più nulla, niente voce, i movimenti possibili si sono ridotti al minimo. Non può parlare né mangiare, può solo muovere gli occhi. Sclerosi laterale amiotrofica. Al momento non esiste una cura.

Abbiamo affrontato subito l’argomento, quando gli ho detto che volevo scrivere di lui: “Purtroppo la SLA getta un’ombra fastidiosa su tutto quello che sono” mi ha detto. “Di certo non voglio nasconderla, ma non voglio nemmeno teatralizzarla”. Capivo cosa intendeva. Quando mi ha detto che era d’accordo nel raccontare la sua attività di poeta, ma “senza essere raccontato come ‘il poeta con la SLA’” l’ho prontamente rassicurato: “Il poeta con la SLA sarà esattamente il titolo dell’articolo, Dario”. Mi ha risposto con l’emoticon della risata.

Nell’autobiografia racconta di quando, dopo l’ennesima elettromiografia (“un rito voodoo dove la bambolina ero io”), un dottore, nel tentativo di confortarlo, gli ha detto che poteva scrivere un libro con gli occhi. “Guardi Stephen Hawking, ha scritto bei libri”. Dario pensa che il dottore abbia ragione, però: “Capivo l’imbarazzo, ma quella frase era un bicchiere di sabbia all’assetato: Sì ma io non so scrivere, faccio il cantante io, non sono mica un genio della fisica porca puttana, avrei voluto urlare, ma la lingua era ormai un hamburger stracotto e bofonchiare il mio disappunto con il futuro che mi si prospettava mi pareva stupido almeno quanto l’infelice uscita del dottore. L’unica cosa che resta da fare in questi casi è rifiutarsi di essere seri, tanto a cosa serve”.

Da un paio d’anni per comunicare usa un tracciatore oculare che comanda con lo sguardo. Davanti a sé ha uno schermo touch-screen con luci infrarosse che generano sulla superficie della cornea dei riflessi calcolando la direzione dello sguardo a partire dalla posizione relativa della pupilla. Grazie a questo strumento Dario può scrivere con gli occhi. A volte capita che non funzioni e che vada ricalibrato. “Per uno come me che ci scrive poesie e libri è una rottura. Ho una velocità che il computer non sopporta. Dopo un po’ va in crisi e scrivere con fluidità è impossibile. Il brutto è quando hai un’intuizione e non puoi scriverla subito oppure puoi ma devi riavviare e aspettare cinque minuti. Pensa all’autobiografia. Contando che spesso scyrivo tre volte la stessa pariola è come avessi script scritto mille pafghine, dioporccoqqwq. Ecco, sta partendo lad calibraszionej a dopo”.

Queste difficoltà hanno anche i loro risvolti creativi. Un errore di battitura diventa l’occasione perfetta perché il testo vada in un’altra direzione, come in una sorta di ipnotica scrittura generativa che prende forma man mano che viene scritta, senza meta, in maniera apparentemente casuale, trascinando il cervello del lettore in luoghi dove non era mai stato. Come nella poesia “M’illud…”, che comincia così: “Mlnlnlluminol… / nimillulido… / nell’umido del cesso / m’illumido d’incenso / illumido Vincenzo”.

A dire il vero, quella dell’imprevisto linguistico è una strada che Dario percorreva già da anni, molto prima della malattia: “Ho sempre giocato con le parole. Gli errori fanno sempre parte di quel gioco. In poesia i colti li chiamano idioletti, io non so. La dissoluzione della sfera semantica, come diceva uno che non mi ricordo più, è approdata alle sue estreme conseguenze. Destrutturata plasmata, deconcettualizzata stritolata, ridotta a puro suono. La parola è pongo nelle mani di un bambino, il pensiero dietro al gioco è che non c’è pensiero. Un rigoroso sabotaggio della lingua che sconfina nella musica. Il modulo espressivo è lo stesso di prima perché ho pestato la testa quand’ero piccolo. La SLA non c’entra un casso”.

A parte il microcavallo, tra i suoi primi testi che ho letto c’erano i componimenti pubblicati sulla rivista L’Imbranauta. Ricordo in particolare una serie di colloqui immaginari di persone che volevano essere assunte da Amazon, cose come questa: “Lavoro a grati io! Ci corro io al progresso! No a grati no perché batti la fiacca. Scudissiami! Meteme il zucaro nel radiatroie, sgonfiame i pnumatachi, tamponami! Smettila, cosa c’entra, lavora e taci. Sarò il tuo stop all’ora di punta…! Mi Amazon di lavoro!”. E ancora: “Ciao, sono Cubo Di Rubik! Prima ero disordinato, ma adesso lavoro come stufa a pellet alla Amazon Cuba Libre! È un cocktail celeste, ad asporto. Sono uscito da un brutto periodo: lavoravo per Deliveroo, la app che ti porta a casa i digeridoo. Con la bici sono andato addosso a un multiarticolato e quindi avevo qualche problema di lettura. Adesso prendo la pensione come discalculico”. E ancora: “Hello gais! Mai neim is Franco. Compass Franco. Mi consumer un po’ di all. Ai laik buy tut. I teik na sc’inca e one botton bat ai compr everi body. Alor mi assum amazon laik pozz pagà all mai laif a sbregacambial”. Una lingua che per raccontare l’assurdo usa l’assurdo, e dice la verità.

“Sono caduto nel paiolo dell’idiozia come Obelix in quello della forza, poi ho ricominciato con costanza dopo la malattia perché prima l’impulso espressivo lo sfogavo col canto. Poi l’uso delle mani è stato il primo stadio, per cui sono passato in breve tempo al naso. Con gli occhi ovviamente è meno spontaneo, meno immediato. Poi con l’andare del tempo il gap si è livellato. E ora è diventato quasi normale tranne quando smadonno perché la tastiera sscriveil cassoche vuole”.

Lo sanno bene le divinità in cielo, che Dario ha evocato più spesso dei tecnici dell’assistenza del computer.  Mentre parlavo in chat con lui cercavo di capire quanta fatica facesse a rispondere alle mie domande. “Ma ad esempio” gli chiedevo, “prima hai scritto ‘dio porfirio’, quanto ci hai messo a scriverlo?”. “Tre o quattro secondi. Ma se litigo con la tastiera che si scalibra di continuo è una rottura di balle e non riesci a fermare le idee che scappano.. Una parola la devo scrivere dieci volte bestemmiando il firmware… il firmamento. Allora a un certo punto me ne frego, se uno vuole capire mi capisce”.

E poi c’è il problema della posizione. Se la testa si muove, se ad esempio scivola sul cuscino, lui non può più comunicare. E non si tratta solo di scrivere poesie o facezie in chat con gli amici, ma anche – ad esempio – di chiedere aiuto in caso di vita o di morte. “Trovare la posizione sul letto ortopedico è una rottura fatta di mille aggiustamenti, perché devo essere dritto e centrato per scrivere. Se perdo la posizione…”

Se perde la posizione, oltre alle solite espressioni ingiuriose e irriverenti contro Dio, i santi e le cose sacre, arrivano in sostegno i badanti. Per trovare la posizione giusta ci mettono circa 10-20 minuti. “Prima di più, ora siamo migliorati”. Dario ha cercato di ottimizzare i tempi in tutti i modi: “Loro, i badanti, non parlano bene l’italiano. Per fare in fretta spesso usiamo delle abbreviazioni. Ad esempio BPLDL è “big pillow left down left” (cuscino grande sinistra sotto), RMROUT è “arm right out” (braccio destro fuori),  HANDLIN è “hand left inside” (mano sinistra dentro), o ancora ARMLUP “arm left up” (braccio a sinistra) e così via”.

La sua scrittura è vorticosa, fatta di collage di varie lingue e dialetti, veneziano in primis, ma anche romanesco, napoletano, latino e parole inventate; il tutto a un ritmo indiavolato. Leggerlo è come regalare alle proprie sinapsi un giro sulle montagne russe, scendere, prendere un altro gettone e fare immediatamente un altro giro, prima che l’effetto passi del tutto. Questa elettricità che trasmette è scritta una lettera alla volta, con gli occhi, stando attento a calibrazioni, testa che scivola, possibili soffocamenti. Gli chiedo: “Cosa succede se hai un’intuizione per dei versi bellissimi… e non sei davanti allo schermo, oppure il computer si blocca?”. “Ai versi mi tocca mettergli le manette, è un casino, sai quando sei in dormiveglia che ti vengono quelle robe fantastiche che poi fatalmente perdi per pigrizia… ecco. Fino a un po’ di tempo fa era un vero problema perché il pensatoio creativo era il cesso. Ci stavo tre ore, mangiavo anche in cesso per ottimizzare gli spostamenti. Molte cose le scrivevo in testa, poi cercavo di raggrupparle in temi e organizzarle in maniera di aver delle parole chiave di richiamo per far riaffiorare il tutto. Ho scritto na roba su sta faccenda”.

Ed è, ovviamente, una poesia: “Lo scopo della vita / qualunque esso sia / basta uscire dal cesso / con una poesia”. Quando diceva che cercava di “trasformare questa merda in poesia” era metaforico fino a un certo punto. Nella sua autobiografia c’è un capitolo intitolato “pausa merda”.

Si racconta di una settimana passata con una diarrea continua. Com’è successo? Dario parla di “pura intuizione”, una di quelle cose da vero artista. “In realtà è tutta questione di tempismo, di saper stare sul pezzo e approfittare di quei rari momenti di grazia un po’ alla Isacco Newton, solo che al posto della gravità, si postula il secondo principio del pannolone stracolmo di Merdagora da Efeso”. Nonostante “la brillante idea di cagarmi addosso quindici volte” si dimostrerà forse non così brillante, lui continua a scrivere poesie, mentre ondate di merda arrivano a ripetizione. “Ormai dignità, pudore, imbarazzo, vergogna, sono tutte prerogative umane che da tempo ho abbandonato, trascendo me stesso la maggior parte del tempo rifugiandomi nel mondo delle idee, l’immanenza non mi riguarda più. Non sono qui, tranne quando costretto dal dolore o dal fastidio di dover interagire con l’esterno, mi tocca tornare alla realtà. Per il resto sono altrove, abito altri mondi da dove nessuno mi può sfrattare, nemmeno la morte”. Interviene Javed, uno dei suoi due badanti, ma ormai anche un amico, che vorrebbe pulirlo a tutti i costi. “No! Rispondo deciso attraverso il sintetizzatore vocale del computer – we clean later – gracchia baritonale la voce di Vittorio, quello che vive dietro la tastiera oculare”. In questa situazione assurda il pensiero di Dario è rivolto proprio al badante: “Se penso che Javed c’è venuto a piedi dal Pakistan per finire a pulire sto disastro merdizzato di relitto umano, provo più pena per lui che per me stesso. Ma lui non fa una piega, sembra non fargli schifo niente, è impermeabile all’orrore lui, perché c’è venuto a piedi dal Pakistan, e per uno così, la merda è solo un dettaglio”.

Con Javed Dario ha un bel rapporto. Tra loro parlano un inglese semplice, ma sta cercando di insegnargli anche l’italiano. La notte chiacchierano, a volte guardano film o video su Youtube, si prendono per il culo a vicenda. Un incontro bizzarro tra due persone molto diverse: un ateo veneziano e un pashtun mussulmano. Ma non sempre il rapporto con i badanti è stato privo di problemi. “I soldi non bastano. Spesso un malato di SLA si può permettere giusto un badante totalmente improvvisato che non sa parlare italiano o chiamare il pronto soccorso. Non sono preparati, vengono sovraccaricati di responsabilità e schiavizzati”. La SLA è un lusso che non tutti si possono permettere e la questione dei soldi è sempre di più un problema. Da vero poeta, Dario è rimasto spesso a secco di quattrini, anche ora. Alcuni suoi amici hanno organizzato raccolte di fondi, visto che i soldi che lo Stato dà ai malati non sono assolutamente sufficienti. In un post su Facebook Dario ha scritto così: “La questione è semplice nella sua atrocità, i soldi, a chi dare questi maledetti soldi, e qui scatta la polemica sulle priorità mentre la gente condannata ad un’esistenza devastata resiste al suicidio assistito per paura o perché spera in un miracolo della ricerca. Questi noi non hanno certo scelto di ammalarsi, ed essendo bisognosi di assistenza h24 spesso si trovano a mendicare per poter sopravvivere”.

Quando Dario dice che “l’immanenza non mi riguarda più, non sono qui, tranne quando costretto dal dolore” mi vengono in mente immediatamente i sogni, dove si è qui e altrove allo stesso tempo. “Sogno spesso” mi dice. “A volte nel sogno mi dico che è bello muoversi, mentre mi muovo. I sogni sono un luogo dove esistere mi è ancora concesso. Nell’ultimo sogno consideravo la straordinarietà di essere in mezzo al Canal Grande in braccio ad una mia ex morosa che aveva le gambe lunghe trenta metri. Ma guarda che meraviglia mi dicevo, questo è proprio un bel sogno. Poi le gambe sono diventate trampoli per razionalizzare il sogno e allora mi sono svegliato”. E in sogno gli capita anche di cantare, cosa che in effetti fa anche da sveglio. Quando si astrae dal presente con la musica, gli capita di cantare dentro di sé, nel suo teatro interiore, ma non con la sua voce. “Canto spesso, quando ascolto arie poi è peggio. La voce non è come se fosse solo la mia, è una specie di archetipo, è la somma di tutte le voci e neanche una”. Una voce che io non ho mai sentito, oggi sostituita da Vittorio, il sintetizzatore vocale.

***

Quando Dario è sparito ho passato un paio di settimane a controllare la chat in attesa di un suo messaggio. Ero venuto a sapere che era stato ricoverato a causa di un’infezione. Una sera, dall’ospedale, mi manda una poesia a cui sta lavorando. Ma poi sparisce di nuovo. Ho il contatto di una sua parente, dunque mi faccio coraggio e chiedo che succede. Mi dà un sacco di dettagli ospedalieri terribili, si parla di un’infezione grave, Dario non è più in grado di respirare autonomamente; ma si dicono tutti ottimisti. Io penso all’eventualità che mi appare più ovvia. Ma poi ricordo anche che Dario parla spesso di morte ma non di morire, e allora anche io mi spingo ad essere ottimista. Segue un lungo silenzio dove ogni giorno guardo la chat per vedere l’ultimo accesso, ma lo stato indica “last seen a long time ago”. Brutto segno.

Diverse settimane dopo nella chat appare questo messaggio: “:-D:-/:'(ªªªªª[¥#@.com##{¥º§»§:-D_º]£º_:'(@}}@¥;-)£ }}.com\_}}.it]ªª:-/@@@”. “Evviva” rispondo. “Sei vivo!”. Dario replica con uno sticker dell’abbraccio. Gli chiedo se può comunicare. Risponde con dei cuoricini. Ne deduco che non può scrivere, ma è vivo e riesce a usare gli occhi. “Come va con l’infezione? Rispondi pure con uno sticker che cercherò di interpretare” e lui risponde con una ragazzina dall’espressione imbronciata, circondata da fiamme. Ok, ho capito. E poi, scompare di nuovo, ancora una volta. Il mio ottimismo auto imposto inizia a vacillare. Di nuovo silenzio. Mesi di silenzio assoluto dove ogni giorno penso che forse non parlerò mai più con lui. Finché, una sera di fine primavera, mi arriva un messaggio: “Passato tutto. Sto meglio. Mi ci vorrà un po per tornare al livoellodip hrima”. Dopo aggiungerà: “Mi davano tutti per spacciato. Ma mi son detto: no casso, decido io quando”. In effetti, tra quelli che lo davano per spacciato, c’ero pure io.

Gli chiedo dell’esperienza dell’ospedale, dove la morte l’ha guardato in faccia più volte e credo abbia intuito anche lei che di morire, Dario, non ne aveva nessuna voglia. Come c’era da aspettarsi, ha già trasformato quell’esperienza terribile in scrittura: “Questa volta sono cinque i mesi che non scrivo. Non ho potuto, sono stato segregato nei sevizi pubblici. È stata una cosa improvvisata senza premeditazione” scrive. “Un giro in ambulanza fa sempre la sua porca figura con un bell’effetto drammatico. In giro c’era sempre il Covid per fortuna, così le strade erano libere, infatti arrivammo in ospedale a velocità smodata purtroppo, perché un cambio di prospettiva fa sempre bene a uno che al massimo ne ha una di trenta centimetri davanti al computer. Assetato di cielo com’ero, nei pochi metri fino all’ambulanza, bevetti subito una pinta di nuvole”. Il testo descrive  tutto quello che gli è successo nei mesi in ospedale, costantemente sul punto di morire, o di essere ammazzato, ovviamente nel modo più spassoso possibile. “Mi proposero di provare un catetere subclaviale spettacolare” racconta. Nonostante i problemi con le deglutizione – il motivo per cui aveva già da tempo un “tubo per mangiare da cui tutto ciò che entrava, usciva quasi direttamente” – si procurava dello zabaione di nascosto, che, introdotto clandestinamente in ospedale, riusciva a mangiare senza soffocare. A causa dell’aria condizionata gli vengono due bronchiti. Non il massimo, per uno che fatica a respirare: “Alla fine delle forti insistenze, una dottoressa dei Marine, riuscì a chiudere le bocche della ventilazione con giornali e tavole di legno, come Mac Gyver, quello che aggiustava tutto con uno stuzzicadenti e un po’ di dentifricio”. Ma è solo l’inizio.

Durante una Tac gli causano una frattura. “Quando vengono a ritirarmi, restano sorpresi dalle lacrime di dolore. Non capiscono cosa sia successo e mi rimettono sul letto girandomi sulla spalla rotta. Perfetto. Mi viene da vomitare dal male, ma non posso perché soffocherei. È stato bellissimo, ne è valsa la pena. Quando finalmente riesco a raccontare l’accaduto fanno facce inorridite e sono tutti convinti della necessità di una denuncia. Io no, sono stato fortunato, avrò qualcosa da raccontare per anni”. Poi, tra continui rischi di soffocamento, arriva un’altra infezione. “Di quel periodo ricordo solo i sogni. Fu una guerra onirica surrealista”. Sogna anche di essere morto. “Nessuno sa, in effetti, come mai io non sia morto. Trentotto chili di disperazione persa, tutti i dottori mi davano per spacciato. Potevo finirla lì e invece niente. Una furiosa voglia di vivere mi legò di nuovo a questo straccio di esistenza terribile”. Dopo tanti mesi in ospedale torna a casa. “Avevo fatto le gattarigole alla morte e mi era andata bene. Una volta a casa vivevo avvolto nel limbo dei sopravvissuti. Cose come relazionarsi con il mondo erano difficili e ingarbugliate dalla lanuginosità delle coltri che permeavano la realtà e che si ispessivano ad ogni mio tentativo di attraversarla”.

***

Avevo proposto a Dario di andarlo a trovare subito, all’inizio della nostra conversazione. A quella domanda non aveva risposto, in un anno abbiamo parlato di molto altro, di poesia, musica, di quanto faccia ridere la lettera U, e lui è stato molto occupato: è stato in ospedale dove non è morto, ha scritto tonnellate di poesie, e pure io penso di aver fatto qualcosa nel frattempo. Ma una sera, esattamente un anno dopo il primo tentativo, gli faccio di nuovo quella domanda. Eravamo rimasti qua, a quel lungo percorso che, tra onde radio, segnali elettrici e segnali luminosi, attraversando nuvole, terra e acqua, arrivava sullo schermo di casa sua, davanti ai suoi occhi, in forma di “Ciao Dario, posso venire a trovarti?”. 

Cos’è successo dopo? Più o meno questo. I motoneuroni ancora funzionanti hanno portato a rotazioni dei globi oculari di Dario. Queste rotazioni sono rese possibili da diversi muscoli che abbiamo intorno agli occhi. E grazie a questi muscoli gli occhi di Dario si muovono e scansionano in una frazione di secondo il mio messaggio. Sappiamo che il processo di lettura procede per salti e pause: gli occhi analizzano alcuni caratteri velocemente, soffermandosi su alcuni punti chiave. Queste pause sono necessarie anche per inquadrare una parola allineandola al meglio con l’area più sensibile dell’occhio, il centro della retina, che si chiama fovea. È qui che avviene l’analisi dettagliata degli stimoli visivi. Il cervello gestisce gli spostamenti dello sguardo su ciò che valuta realmente importante in quel momento. Se ad esempio Dario, mentre legge il mio messaggio in chat, vede con la coda dell’occhio – l’area para-foveale – un pony che attraversa la sua stanza, è molto probabile che distoglierà lo sguardo dallo schermo e inquadrerà con la fovea l’adorabile cavallino. Ma, non essendoci microequini in casa, più probabilmente valuterà come importante il mio messaggio in chat e in particolare la parola “trovarti”, parola in cui l’esplorazione visiva si fisserà un po’ di più (300 millisecondi, più o meno), il tempo necessario ad acquisire le informazioni necessarie. Per fare tutto questo intervengono diverse aree del cervello in maniera sinergica: quelle che si occupano della programmazione e controllo del movimento, la scelta della posizione o dell’oggetto di interesse, la coordinazione dei muscoli extraoculari. Una volta che l’immagine viene formata e in parte già elaborata dalla retina, si trasforma in una serie di segnali elettrici, che vengono inviati al cervello attraverso il nervo ottico per essere interpretati e rielaborati dalle regioni cerebrali deputate, come la corteccia visiva, chiamata anche Area 17. Il nervo ottico di fatto è una continuazione del sistema nervoso centrale ed è costituito da fibre ottiche: non lunghe migliaia di chilometri come i cavi di Internet, ma solo circa cinque centimetri, visto che occhio e cervello sono molto vicini.

A questo punto, dopo la conversione degli stimoli luminosi in informazioni neurali, il cervello codifica il pacchetto di dati arrivato, ed elabora una risposta. Sempre grazie ai muscoli extra-oculari, Dario muove gli occhi, sceglie due singole lettere sullo schermo a infrarossi e circa due secondi dopo la domanda “Ciao Dario, posso venirti a trovare?”, sul mio telefono a 850 chilometri di distanza appare la risposta: “Sì”. E io compro un biglietto per una cittadina veneta che non avevo mai sentito nominare.

“È a cinque minuti dalla stazione… sempre dritto”, queste le indicazioni. Da fuori riconosco il civico, una casa a pian terreno; vedo una finestra con le ante socchiuse, seminascosta da un oleandro in fiore. Dev’essere la finestra che Dario considera trascurabile. Fuori c’è il sole, passano due ragazzine che ascoltano musica che non conosco mentre parlano di come si è comportato male un loro amico il giorno prima. Vedo passare anche un paio di persone in bici, vecchie signore con i cani, ogni tanto qualche automobile. In effetti non c’è granché da guardare. Sono in leggero anticipo, per cui fisso la finestra socchiusa e controllo più volte l’orologio. Poi, attraverso la strada e suono il campanello. Apre la porta un ragazzo, Giovanni, che intuisco essere uno dei badanti di Dario.

Non so perché mi immaginavo di dover aspettare in una sorta di sala d’attesa, magari qualche minuto, poi magari fare delle scale, passare attraverso diverse stanze; invece immediatamente Giovanni, con la porta d’ingresso ancora spalancata sulla strada, apre una porta scorrevole e mi fa cenno di entrare. Al centro della stanza c’è Dario sul letto, le luci sono tenui, in totale contrasto con il forte sole all’esterno, e c’è un piacevole fresco dato dall’aria condizionata. Dario solleva lievemente le sopracciglia in segno di saluto. Dalle lenzuola sbuca solo la testa, accuratamente posizionata su vari cuscini in modo da essere allineata al visore oculare di fronte a lui. Non vedo nessun’altra parte del corpo.

“Beh, finalmente ci vediamo” dico. Vedo un abbozzo di sorriso, esattamente quel “ridere dentro la maschera” che mi aveva descritto, un po’ come quando si cerca di trattenere una risata. Sono un po’ impacciato, ma mi sembra di aver esordito bene: almeno non ho chiesto come stai. A dire la verità avevamo parlato in passato, in chat, della domanda “come stai?” e aveva risposto così: “Devo portare pazienza perché in fondo è una innocente formula rituale di cortesia, anche se a volte mi infastidisce perché come vuoi che cazzo stia uno con la SLA? E mi appesantisce il rispondere perché mi tocca pensare alla mia situazione qua, mentre la maggior parte del tempo cerco di essere altrove”. Ma adesso siamo entrambi qua, niente chat, niente fibra ottica, niente stickers. Ci possiamo guardare negli occhi per la prima volta. 

Mi colpiscono subito la barba ben curata e lo sguardo forte e intenso. Vedo i suoi occhi muoversi, mentre sto in piedi imbambolato e mi guardo intorno, osservo vari cassetti con un sacco di dispositivi medici, macchinari che ignoro, tubi, cavi, flebo, e il murale di una persona sdraiata su una nuvola dipinto sulla parete sopra il letto. Dopo un paio di secondi di silenzio, in cui l’unico rumore è quello del respiratore collegato alla trachea di Dario, la voce del sintetizzatore vocale mi dice: “Siediti sulla poltrona”.

Mi siedo a fianco a lui, osservo le lettere che sullo schermo davanti ai suoi occhi si illuminano quando le sceglie per comporre le parole che il sintetizzatore vocale poi legge. Non usa gli spazi, scrive tutto attaccato, per risparmiare tempo. Non avevo mai pensato alla fatica che facesse quando parliamo a distanza in chat, o quando scrive le poesie, con tutti quegli spazi, quegli a capo. Per lo stesso motivo usa la K al posto del CH, perché è più vicina alle altre lettere che gli servono più frequentemente e perché è un carattere invece di due, quindi meno tempo, maggiore velocità. È una comunicazione in tempo reale, ma con una leggera differita, quasi come se parlassimo in chat ma nella stessa stanza. All’inizio è strano, poi ci si abitua e si può chiacchierare normalmente. Dario non è certamente nella voce del sintetizzatore, a cui non a caso ha dato un nome, Vittorio, per separarlo ancora di più da sé. È più nelle parole che usa, nel sorriso leggero, appena accennato ma allo stesso tempo espressivo e luminoso, e nello sguardo così vivace.

Parliamo per alcune ore. Finalmente possiamo chiacchierare a pochi centimetri l’uno dall’altro. Noto una mosca che svolazza nella stanza. Ogni tanto gli si poggia sulla faccia. “Non ti dà fastidio?” chiedo. Qualche secondo di silenzio, le lettere che una alla volta diventano arancioni, poi la risposta: “Mi fa compagnia. Quando mi entra nel naso invece mi fa incazzare”.

Quando me ne vado ho la sensazione che avremmo potuto parlare ancora per diverse ore. E questa sensazione non ce l’ho solo io; appena arrivo in albergo ci scambiamo dei messaggi e scopriamo di avere avuto entrambi le stesse paranoie: lui aveva paura di annoiarmi, io avevo paura che si stancasse. Potevo restare di più, potevamo parlare ancora. Dario conclude così: “Vabbè, facciamo che la prossima volta vengo io da te”.

La patria che non c’è – Gli occitani d’Italia

Questo reportage è stato pubblicato originariamente in Stiamo scomparendo – Viaggio nell’Italia in minoranza, il nostro primo libro, ora esaurito.
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Il cielo è plumbeo, la strada sale, s’aggomitola in tornanti e controtornanti, e sale, taglia un fitto bosco scosceso di pini e neve, e sale, fino a che la mia auto buca la coltre di nuvole. Qui sopra c’è il sole. Parcheggio. Mi tolgo le scarpe, indosso un secondo paio di calze sopra le calze, m’infilo gli scarponi. Mi guardo intorno. C’è solo un cane; lo seguo. Sto attento alle lastre di ghiaccio.
Ho il suo numero, ma il cellulare quassù non prende. Non ho il suo indirizzo, né so come sia fatto il suo volto.
Il cane – è l’unica forma di vita che ho incontrato dopo aver parcheggiato, ho pensato di seguirlo – mi guida fino a una casa e si ferma, si accuccia sulla neve, ha il pelo bianco e quasi si mimetizza. Decido di suonare il campanello. «Cercavo Franco Baudino».

Elva, provincia di Cuneo.

Il viaggio ha avuto inizio tre giorni fa, di mattina, in un’aula sotterranea dell’Università di Torino. Matteo Rivoira e Aline Pons mi attendevano seduti, con uno degli enormi volumi dell’Atlante Linguistico Italiano aperto sul tavolo: c’è una carta geografica, non ci sono i nomi delle città; riconosco l’arco alpino, ad ovest c’è la Francia, individuo il Po e ne seguo il corso con gli occhi, fino all’altezza – credo – di Torino. La carta non è completamente muta: fradel surèla, c’è scritto a nord del grande fiume. Scavalcandolo, un paio di centimetri a sud, fratel surèla. Punto verso ovest, verso le Alpi Cozie e le Alpi Graie, frel surèla, frer sor, con gli occhi mi sposto ai piedi dei monti, quasi al confine con l’Auvergne e la Provenza, frair sorre, frair suore, fraire sorre.
Sulla carta sono disegnate le isoglosse, linee di confine che hanno tracciato i linguisti dopo aver percorso i luoghi, aver incontrato le persone, casa per casa, nei campi, nelle piazze, nelle botteghe, nelle fabbriche, nelle osterie e aver chiesto loro: come si dice qui, nella tua lingua, fratello, come si dice sorella, come le chiami le forbici, qual è la parola per indicare il vento, la pioggia, l’aratro, l’agnello, la lucertola, la morte, come declini il verbo sputare al presente indicativo, il verbo mungere, come si dice lunedì, giovedì, domenica, Natale, Pasqua. Se ne andavano in giro con un questionario – i linguisti, all’inizio del Novecento – e un quaderno su cui appuntarsi le risposte. Poi prendevano una carta geografica e sopra ci tracciavano le isoglosse unendo i luoghi in cui a un significato corrispondeva il medesimo significante, a un concetto la stessa parola.
Una a può diventare una e, se di mezzo c’è un fiume ostico da attraversare o una palude ora bonificata, un movimento di pochi millimetri in su e in avanti della lingua nel cavo orale, la a si trasforma in e e come tale viene tramandata, pronta a evolvere di nuovo.

San Martino di Stroppo, provincia di Cuneo.

«Che cosa sai dell’occitano?» Mi domanda per prima cosa Matteo Rivoira, che è caporedattore dell’Atlante Linguistico Italiano e ricercatore qui a Torino; la sua famiglia è originaria della Val Pellice.
Dico che so che è una lingua romanza, che deriva dal latino, come l’italiano. Che la lingua d’Oc è quella dei trovatori provenzali, della lirica cortese che fiorisce oltralpe appena scavalcato l’anno Mille, la lirica d’amore che poi si trasferisce in Sicilia, alla corte di Federico II, dove – in un certo senso – la letteratura italiana ha il suo periodo d’incubazione, prima di diventare matura e splendente in Toscana, con i poeti dello Stilnovo. Che è Dante che l’ha etichettata per primo, gli ha dato un nome: oc era il modo in cui i poeti del sud della Francia dicevano . So che nello zaino mi sono portato un volume di poesie di Arnaut Daniel, forse il più grande fra i trovatori di Provenza, nato a metà del XII secolo; un’edizione Einaudi, di quelle che portano i versi direttamente in copertina:

Ieu sui Arnatz qu’amas l’aura
e chatz la lebre ab lo bou
e nadi contra suberna.

Io sono Arnaut che stipa i suoi granai di vento
va a caccia della lepre con un bue
e nuota contro la marea che sale.

«Le varietà che classifichiamo come occitano» mi dice Rivoira, «sono parlate in un territorio molto vasto – che va dai Pirenei fino alle Alpi – da una fetta molto piccola della popolazione. In Piemonte in Alta Valle di Susa, Val Chisone, Val Germanasca, Val Pellice, Valle Po, Val Varaita, Valle Maira, Valle Grana, Valle Stura, Valle Gesso, Val Vermenagna. E poi c’è un piccolo paese in provincia di Cosenza, Guardia Piemontese: l’hanno fondato dei profughi valdesi, fuggiti nel XII secolo da Bobbio Pellice, per la fame e le persecuzioni; laggiù, qualcuno parla ancora oggi il guardiolo, un occitano con influsso calabrese».

Pomaretto, Valli Valdesi, provincia di Torino.

Aline Pons viene dalla Val Germanasca; mi racconta che ha finito da poco il dottorato, che la sua è una famiglia valdese e occitanofona, che lavora a uno dei fratelli minori dell’Atlante Linguistico Italiano, l’Atlante Linguistico Etnografico del Piemonte Occidentale. «Mia madre ha fatto parte del Movimento Autonomista Occitano, il MAO. Erano gli anni intorno al Sessantotto. In fondo, io credo, fu soprattutto una lotta contro l’emarginazione della gente di queste valli. E la lingua, la loro lingua diversa dal piemontese, veniva a taglio, divenne un’arma». Rivoira subito si accoda: «Tu immagina queste valli dove le strade, se erano arrivate, servivano alle ultime persone rimaste per scendere in pianura. Immagina questa gente sistematicamente considerata arretrata, piemontesi figli di un dio minore, senza risorse, senza simboli forti intorno a cui aggregarsi. Parlavano una lingua che non era l’italiano ma non era neanche il piemontese. Parlavano patois, si diceva così, dal francese patoier, gesticolare, da patte, zampa. Noi parliamo a nostro modo, hanno sempre detto loro, la generazione dei nostri nonni. Poi ecco che alla fine degli anni Sessanta, dalla Francia, arriva un intellettuale, un esiliato – mi riferisco a François Fontan – che prende questa emarginazione, che è anche linguistica, e la ribalta. Va in giro per le valli, di piazza in piazza, e dice al figlio del contadino, del pastore, del fabbro: guarda che tu non parli così perché sei più arretrato degli altri. Tu parli così perché sei l’erede di una grande civiltà che ha avuto inizio dall’altra parte delle Alpi, un millennio fa. La tua lingua non è quella della stalla, ma quella delle corti provenzali del Medioevo, dei trovatori, la prima vera grande lingua letteraria, dopo il latino, prima dell’italiano». «La riscoperta dell’occitano nelle nostre valli» continua Aline Pons «fu soprattutto riscatto sociale. Il riscatto dei nostri genitori, della loro generazione».

«La tua lingua non è quella della stalla, ma quella delle corti provenzali del Medioevo»

“MAO”, mi appunto sul taccuino; e, di fianco, con una freccia, “François Fontan”; per ricordarmi di chiedere qualche informazione in più in seguito

Franco Baudino, a Elva.

«Franco Baudino?»
Sì, avevo appuntamento con lui ma non riesco a contattarlo, il mio cellulare non prende, spiego alla signora – avrà una sessantina d’anni – che mi ha aperto la porta di casa.
«Lo chiamo dal telefono di casa, dev’essere ancora su alla baita».

La signora è la moglie di Franco Baudino e pare che in questo paese, Elva, vivano solo loro due e il cane dal pelo bianco. Secondo l’ISTAT gli abitanti erano 114, nel 2001. Ora sono una ventina, ma non si vedono e non si sentono. Nel 1901 erano 1319. In mezzo ci sono state due guerre mondiali – con la linea del fronte poco lontana – che hanno falciato due o tre generazioni abili alle armi. Poi è arrivato il Dopoguerra, la Ricostruzione, il Boom, e altre generazioni sono state inghiottite dalle fabbriche a valle, la Michelin a Cuneo, la FIAT a Torino con tutto l’indotto nella pianura intorno. A Elva, fino alla metà del Novecento, si mettevano gli scarponi ai morti, prima di seppellirli. Hanno aperto una strada nella roccia, tra Elva e la provinciale del fondovalle, nel 1956, con gli scalpelli e la dinamite, ampia quanto un’auto, che portava giù, alle fabbriche; a metà del percorso c’era una nicchia con una statua della Vergine e una scritta “Madonnina del Vallone proteggi il viandante”. Quella strada ora è impercorribile, c’è stata una frana nel 2014 e la provincia ha deciso di chiuderla, si è costituito il “Comitato per la riapertura del Vallone”, c’è una pagina Facebook “Riapriamo la strada del Vallone di Elva in Valle Maira”, piace a 1217 persone. Ma la strada resta chiusa; ce n’è un’altra, la vecchia mulattiera risistemata, lunga quasi il doppio, quella che ho percorso io, senza incontrare nemmeno un’auto in senso opposto. Nessuno è più tornato ad Elva, dopo il Dopoguerra, la Ricostruzione e il Boom. È un cimitero di case vuote e bosco che avanza e si mangia i prati e le strade che si crepano a causa del ghiaccio. Qualcuno viene d’estate, per il fresco; d’inverno i tetti delle case crollano sotto il peso della neve. Mi hanno detto che sono rimasti solo tre bambini, i figli dei gestori del rifugio a duemila metri; fanno la scuola parentale: imparano a casa, dai genitori, e sostengono gli esami nelle scuole a valle, insieme a tutti gli altri. Le elementari hanno chiuso una ventina d’anni fa. A Elva, la fonte principale di ricchezza, dall’Ottocento fino al Boom, fu la raccolta dei capelli.

Tatiana Barolin, vive a Bobbio Pellice, in Val Pellice.

Gli uomini, i caviè, scendevano a valle, si spingevano in tutta la pianura padana, fino al nordest, alla ricerca di donne a cui comprare i capelli, tagliarli, portarli via. Qualcuna temeva di consegnare al caviè, insieme ai capelli, qualcosa in più, un certo potere sulla sua persona; ma la fame, quasi sempre, finiva per convincerle. Le chiome finivano in un sacco di iuta, e da tutta la pianura giungevano ad Elva. Qui venivano lavorate. E trasformate in parrucche da vendere a Torino, a Parigi, a Londra, a New York, a nobili, alto-borghesi, attrici, magistrati. I capelli delle poveracce su teste nuove, distinte, eleganti. Una piccola industria che ha dato da mangiare a tutto il paese, per quasi due secoli, fino agli anni Cinquanta. In un’inchiesta condotta per conto del Banco di Santo Spirito di Roma, nel 1987, Elva risultò il comune più povero d’Italia, a pari merito con Santomenna, in provincia di Salerno. Arrivò un giornalista, trovò il sindaco che spazzava la strada dalla neve, seduto sopra una colossale ruspa gialla, lo intervistò, quello gli rispose che mica era la fine del mondo là sopra, era la fine della strada asfaltata, ma non la fine del mondo. Che tutti là sopra avevano le bestie. Poche bestie, ma tutti. Che la statistica che li vedeva come i più poveri d’Italia gli sembrava un po’ fasulla. Che la realtà era un’altra. Che si è poveri quando si ha fame e nessuno là sopra aveva fame. Che a Elva si vive come si vive. Come si è sempre vissuto.
Quel sindaco sulla ruspa gialla colossale era Franco Baudino, a 39 anni.

Dronero, provincia di Cuneo.

«L’ho sentito, mi ha detto che sta scendendo» mi dice la moglie che riappare alla porta. «Ti conviene andargli incontro. Qui è casa di mio fratello; casa nostra è in borgata Martini. Devi proseguire dritto sulla strada da cui sei venuto, per un paio di chilometri; appena inizia a scendere, trovi una specie di garage sulla destra: svolta lì, prendi la strada sterrata, c’è uno spiazzo alla fine. Deve averlo pulito dalla neve». La ringrazio. Mi sorride. Il cane resta impassibile, accucciato, quasi tutt’uno col bianco sotto di lui.

«Negli anni Sessanta sognavamo una nazione occitana, libera, indipendente, repubblicana, dai Pirenei alle Alpi»

Nel MAO, il Movimento Autonomista Occitano, ha militato Franco Bronzat: ho cenato a casa sua, a Torre Pellice, la prima sera di questo viaggio. Ci hanno militato anche Ines Cavalcanti e il marito Dario Anghilante; da loro, a Dronero, sono stato a cena il secondo giorno. Prima, a pranzo a Ostana, ero stato da Fredo Valla, anche lui da giovane era iscritto al MAO.

Tutto ebbe inizio con l’arrivo di François Fontan a Frassino (Fràise, in occitano) in Val Varaita, oggi 200 abitanti, nel 1901 più di 2300, il paese di Dario Anghilante.

«Fu nel 1963 o nel 1964, non abbiamo mai potuto stabilire l’anno con esattezza» mi ha detto mentre il piatto di pasta concia gli fumava davanti agli occhi. «Nel 1959, in Francia, Fontan fondò il PNO, Partito Nazionalista Occitano. Durante la guerra di Algeria prese posizione per il Fronte di Liberazione. E nel medesimo tempo pubblicò un libro in cui scrisse che l’Occitania non è certo l’Algeria, d’accordo, ma è comunque una colonia, una colonia interna della Francia, e che urge un processo di decolonizzazione, urge liberarsi e creare una nuova nazione. Per giunta lui era pure un omosessuale dichiarato; in quegli anni…».
«L’avevano già avvicinato, gli avevano fatto capire che stava iniziando a dare fastidio» mi ha detto Peyre, il figlio di Dario e Ines che avrà una trentina d’anni e suona in un gruppo di musica tradizionale occitana e s’accalora quando parla. «Sarebbero state sufficienti un paio di persone discrete. Sarebbe stato sufficiente raggiungerlo sul lungomare di Nizza, dove abitava. Un coltello, una pistola o quattro schiaffoni; lo butti in mare e il dissidente scompare. E magari qualcuno può dire che è stato un incidente, o un balordo, o un delitto a sfondo sessuale».
«Insomma, lui fiuta la cattiva aria» ha ripreso il padre, «E mentre è in corso il processo a suo carico si trasferisce nel mio paese, in forma d’esilio. All’inizio conobbe Antonio Bodrero, detto Barba Tòni, il più grande poeta delle nostre valli; viveva anche lui a Frassino. Il MAO è nato così: Fontan era la parte intellettuale e Bodrero quella sentimentale».
«Arriva qui dalla Francia e trova un mondo senza coscienza» ha attaccato Ines, dopo aver riempito l’ultimo piatto. «Nessuno sapeva di parlare occitano, anche se lo parlavamo quasi tutti. Fontan ha iniziato a formare dei giovani, a radunarli, e io e Dario eravamo tra quelli».
Il nipote di Ines e Dario – deve avere quattro o cinque anni – rideva sul divano, davanti alla televisione, guardando un cartone animato con un ingombrante paio di cuffie wireless in testa.

Ines Cavalcanti, responsabile dell’associazione Chambra d’Oc di Dronero, in provincia di Cuneo

«Nazionalismo, in Italia, è una brutta parola». Mi ha detto Fredo Valla mentre, a pranzo, quello stesso giorno, vuotavamo una scodella coi fagioli del suo orto d’alta quota. «Perché si confonde il nazionalismo di liberazione con quello di dominio. Negli anni Sessanta sognavamo una nazione occitana, libera, indipendente, repubblicana, dai Pirenei alle Alpi. La scoperta dell’Occitania, per me e per la mia generazione fu l’occasione per scoprire il mondo. Si liberavano i popoli oppressi dell’Africa e dell’Asia; e noi ci mettemmo in testa che sarebbe arrivato anche il nostro turno, che la decolonizzazione sarebbe proseguita anche in Europa. Guardavamo ai baschi, ai catalani, agli irlandesi, ai curdi, agli armeni. François Fontan ci aprì, per la prima volta, una finestra sul mondo; due, tre finestre, dieci».
«E oggi?» gli ho chiesto io.
«Ci sono momenti in cui la storia procede veloce e momenti in cui avanza molto lentamente; ora siamo in uno di questi. Oggi l’occitanismo è un ideale indolenzito, in sonno. Se quando la storia ricomincerà ad andare veloce noi non saremo pronti, se non avremo nel cassetto qualche proposta… Non ci resterà più nulla. Ci resterà solo il folclore ad uso dei turisti».

«Nessuno sapeva di parlare occitano, anche se lo parlavamo quasi tutti»

 «A quei tempi l’obiettivo era un’autonomia nel quadro del dettato costituzionale» mi ha detto Franco Bronzat, a tarda notte, la notte prima, mentre bevevamo un bicchiere di Malvasia che ha imbottigliato lo scorso autunno nella sua cantina, «Creare una regione autonoma, come il Trentino o la Valle d’Aosta. Poi è arrivata la Lega Nord. E si è mangiata tutto». Si è mangiata anche Antonio Bodrero detto Barba Tòni, che da occitanista è diventato piemontesista e poi leghista: candidato alle elezioni in Piemonte nel 1990, consigliere regionale nel 1992. «Qui da noi la Democrazia Cristiana prendeva il 50-60% ad ogni elezione. Tutti voti che poi sono finiti a Bossi, che veniva a fare le sue stronzate sul Monviso, a raccogliere l’acqua della sorgente del Po, a Crissolo, Criçol nella nostra lingua, per portarla in processione e versarla nella laguna di Venezia».

Dario Anghilante

Ines Cavalcanti è nata a Elva nel 1951. È vice-presidente della Chambra d’Oc, un’associazione che si occupa della tutela, promozione e diffusione della lingua e della cultura occitane. Suo marito, Dario Anghilante, è un attore e musicista. Il figlio, Peyre, un musicista e un traduttore. Allo stesso tavolo con noi, quella sera, c’era Andrea Fantino, laureato in Antropologia Culturale ed Etnologia, fotografo, videomaker.
Fredo Valla è un intellettuale di montagna; suo nonno ha fatto lo zoccolaio, l’arrotino e il cacciatore; suo padre il fabbro. Lui si è iscritto a Geologia a Torino. Ha scoperto l’occitanismo, nel 1984 ha deciso di tornare in quota, di trasferirsi a Ostana (Oustano, in occitano). Ha fatto il giornalista e il reportagista. Ha iniziato a girare documentari. Con Giorgio Diritti ha scritto Il vento fa il suo giro, il film è ambientato proprio a Ostana.
Fredo vive con suo figlio, Peyre – in queste valli è un nome molto diffuso – che fa la terza media a Paesana, un quarto d’ora di macchina da Ostana; l’anno prossimo sarà più dura, le scuole superiori sono a Saluzzo, un’ora e mezza di pullman, toccherà alzarsi presto, ma ci penserà a suo tempo. Peyre ha scelto il Liceo Artistico.
Il nipote di Ines e Dario, quello con le cuffie wireless in testa, invece, credo che frequenti ancora l’asilo.
Franco Bronzat è uno scrittore e linguista e mi ha cucinato la mustardela, un insaccato fatto con parti di testa di maiale e di gola, cotenna, fegato, polmoni e rognoni, disossate, macinate, poi inondate di sangue fresco – sempre di maiale – con aggiunta di sale, pepe nero, cannella, noce moscata, chiodi di garofano. È un piatto molto antico di queste valli. Franco ha lavorato per quarant’anni alla RAI; effettuava rilievi per l’installazione dei ripetitori e trattava con i proprietari dei terreni. Sua moglie faceva l’insegnante, nel 1990 ha avuto un ictus, aveva 36 anni, loro figlio ne aveva 9, Franco si era iscritto a Lettere all’università – una seconda volta, dopo aver interrotto gli studi di Geologia – aveva finito tutti gli esami, mancava solo la tesi. Claudia, la moglie, non è più autosufficiente da allora. Lui è riuscito a laurearsi comunque, con una tesi sul confine linguistico tra il gallo-italico e il gallo-romanzo, nel territorio del pinerolese e del cuneese. Mi ha mostrato i faldoni in cui sono raccolti tutti i suoi quaderni di quegli anni, battuti a macchina, appuntati a mano, con le sue inchieste linguistiche: come si dice rododendro, fuoco, paletta da cenere, falce, dita dei piedi, polvere, ho una giacca nuova, girerò il mondo, ci crederò quando lo vedrò. È nato a Torino, i genitori erano della Val Chisone, scesi in pianura per lavorare. Mi ha raccontato che una volta, in seconda o terza liceo, nell’ora di letteratura l’insegnante aveva letto una poesia di Arnaut Daniel. Che lui aveva alzato la mano: «Professoressa, io capisco tutto quello che c’è scritto». E lei: «Che lingua parli?». E lui: «Patois». E lei: «Sì, ma questo è occitano. È una lingua morta». E lui: «Sarà morta per lei. Ma a me sembra la stessa roba che parliamo noi a casa».

Francois Fontan è morto all’Ospedale di Cuneo il 19 dicembre del 1979, in seguito a un ictus. Anche Antonio Bodrero, detto Barba Tòni, è morto a Cuneo, il 16 novembre 1999.

Oncino, provincia di Cuneo.

 «Piacere, Franco Baudino».
La stretta di mano è vigorosa, me l’aspettavo. Gli occhi invece, sono di bimbo, guizzano appena sotto la fascia nera da cui sbucano i capelli bianchi, scarmigliati, indomabili; le basette s’infilano sotto la fascia e si ricongiungono coi baffi.
«Vuoi un genepì?».
Apre lo sportello della stufa, che è rimasta accesa, e ci infila dentro un paio di tocchi di legno. «Lo fa un signore che abita qui sopra. Io, però, non lo posso più toccare dal marzo del 1971». Gli domando il perché. «Ne ho bevuto troppo a una festa per il Carnevale».
Chiude lo sportello. Ride. Mi versa un bicchiere e a una mia domanda sul Movimento Autonomista Occitano mi dice che lassù, negli anni Sessanta, erano quasi tutti insensibili a quelle cose, alla politica; che loro, lassù, si parlava a loro modo, e che quando si scendeva a valle quasi ce ne si vergognava. Che adesso le cose sono cambiate, l’occitano – con la bandiera con croce gialla su fondo rosso appesa fuori dai bar, dalle locande, dagli alberghi – è diventato un buon marketing.

A Elva, la fonte principale di ricchezza, dall’Ottocento fino al Boom, fu la raccolta dei capelli

«Non sono mai venuto via da Elva. Mio nonno è nato nella baita da cui sono sceso ora. Sto sistemando il tetto: l’acqua, la neve, il ghiaccio avevano iniziato a fare danni. Anche le due sorelle di mio nonno sono nate lì, parliamo del 1870, 1880. Io sono stato eletto sindaco di Elva due volte. Anche mia madre è nata qui, non si è mai spostata, ha sempre lavorato i capelli. Li lavorava nella bottega della sorella del grande Pietro Isaia, il più grande caviè di Elva. Emigrò alla fine della Grande Guerra, aprì degli atelier a Londra, Parigi, New York, Buenos Aires. Lo conoscevano come Jean Pierre Isaia. Un fiuto, un senso incredibile per gli affari. È morto nel 1973, a 89 anni, non so dove. Ai tempi della prima guerra mondiale si era già comprato una motocicletta. La sorella invece non se n’è mai andata; per lei lavorava mezzo paese».

Maria Luisa Ponza, vive a Villar Acceglio, in Val Maira

Vuoto il bicchiere di genepì, lui me ne versa subito un altro, senza chiedere, con un gesto automatico. Poi si alza, apre un cassetto, inizia a frugarci all’interno mentre, di spalle, continua a parlarmi.
 «Il grande Pietro Isaia… La motocicletta se l’è comprata coi soldi di uno spaccio che aveva aperto in prima linea: pensa il fiuto, il fiuto per gli affari! Ebbe un figlio in Inghilterra che diventò pilota della RAF. Forse ci ha sganciato qualche bomba sulla testa, al tempo della seconda guerra».
Chiude il cassetto. Si volta. Ha in mano un biglietto da visita col volto di una donna in primissimo piano, un solo occhio, molto felino, seducente, l’altro è coperto da una cascata di capelli ricci tra il biondo e il ramato che si spande fino al margine sinistro. «Tieni. Questi sono gli ultimi parenti vivi dell’Isaia. Sono i nipoti della sorella, che ha sposato un Somà. Stanno a Saluzzo, in via Bodoni: fanno ancora parrucche; ma ormai il capello sintetico ha soppiantato quello naturale: li fanno in Cina, costa meno». Mi infilo il biglietto da visita “Somà, dal 1954, Parrucche – Extensions – Capelli” nel portafoglio. Controllo che il registratore, appoggiato sul tavolo, continui a funzionare correttamente.

«Che non sono mai andato via da Elva, in realtà non è vero. Nel 1971 mi sono trasferito a Cuneo. Mi avevano assunto alla Michelin. Era un giovedì: ho fatto giovedì e venerdì; il sabato poi la fabbrica chiudeva e si tornava a casa. La sera sono di nuovo a Elva e, per caso, passa uno di Prazzo, che aveva le bestie e faceva il formaggio. Mi dice, Avrei proprio bisogno che vieni una settimana da me a falciare il fieno. Ho detto subito di sì. Il lunedì ero da lui e non ci pensavo più alla Michelin. Comunque mi sono tolto lo sfizio: in quegli anni tutti scendevano in pianura e l’ho provato anch’io. Mi ricordo perfettamente la faccia di un addetto a una macchina: quei due giorni è stato sempre seduto con una matita in mano. Qualcuno gli passava una gomma. Lui la metteva sotto la macchina, la chiamavano “la balorda”. E con la matita segnava se c’erano dei difetti. Se era a posto, impilava la gomma da una parte; altrimenti la mandava indietro. Poi gli arrivava un’altra gomma. E un’altra. E un’altra. E un’altra. E un’altra. Otto ore così. Lo guardavo – io ero l’ultimo arrivato, spostavo pneumatici da un posto all’altro e basta – e pensavo: come fa un uomo a fare una cosa del genere tutto il giorno tutta la vita? Il mio numero di matricola alla Michelin era il 5121; me lo ricordo ancora oggi. E ancora oggi quando entro dal gommista mi prende la nausea in fondo alla gola».

Franco Baudino ha una figlia, con cui ho fatto colazione stamattina a Dronero, un po’ più a valle. Simonetta, si chiama. Tiene corsi di musica e suona la ghironda; nell’Ottocento era lo strumento dei suonatori ambulanti, in tutta la Francia e nelle valli occitane – quando ancora non sapevano di essere occitane – del Piemonte.

Daniele Landra, apicoltore a San Michele di Prazzo

«L’ultimo grande suonatore ambulante fu Giovanni Conte, detto Briga, di Lottulo, in Valle Maira. È morto nel 1933». Simonetta è timida, delicata. Dice le parole essenziali, non una di più. «Raccontano che il Briga se ne andava in giro con la sua ghironda, una grancassa sulla schiena, dei piatti sopra la grancassa, dei sonagli alle caviglie e sul cappello. Suonava tutto insieme. Partiva a piedi, da solo, viaggiava per settimane, attraversava valichi, passava in Francia, ritornava».

«Il mio numero di matricola alla Michelin era il 5121; me lo ricordo ancora oggi. E ancora oggi quando entro dal gommista mi prende la nausea in fondo alla gola»

Gli acciugai di Celle Macra, facevano il percorso opposto, dalla Francia alla Val Maira. In principio erano commercianti di sale; lo acquistavano ad Aigues Mortes, in Camargue: era un bene prezioso, serviva per la conservazione dei cibi, per prevenire le malattie, per conciare le pelli. I contrabbandieri lo nascondevano sul fondo delle casse piene di acciughe. Poi qualcuno iniziò a rendersi conto che le acciughe piacevano alla gente di pianura, a Cuneo, a Torino, a Milano, che le acciughe avevano un valore. E diventarono la ricchezza del paese, come a Elva i capelli.
Dalla Val Maira – e dalla Val Varaita e dalla Valle Po e dalla Valle Stura e dalla Val di Susa – alla Francia transitavano anche i bambini, nella stagione estiva: venivano affittati per badare al bestiame sui versanti francesi.
Dalla Francia alla Val Pellice, alla Val Chisone, alla Val Germanasca – nel Medioevo – giunsero i valdesi, perseguitati oltralpe; che anche qui vennero perseguitati, dai Savoia, fino al 1848. I cimiteri, fino alla metà del Novecento, erano divisi in due da un muro: da una parte i cattolici, dall’altra i valdesi. A Luserna San Giovanni, ancora oggi, l’edificio della chiesa valdese e quello della chiesa cattolica si guardano, a poche decine di metri: nel Cinquecento erano divisi da una palizzata.
Tra la Valle Po e la Francia, dodici anni prima della scoperta dell’America, venne costruito il primo traforo alpino della storia, il Buco di Viso, scavato nella roccia, lungo circa 100 metri, oggi circa 75 per via dell’erosione dei fianchi della montagna. Questa la tecnica costruttiva: sulla parete rocciosa si accatastava della legna, gli si dava fuoco, per indebolirla; poi gli si gettava contro, con forza, una soluzione di acqua bollente e aceto. Si procedeva con picconi e martelli. Dalla Provenza e dal Delfinato, attraverso quel traforo, passavano nel Marchesato di Saluzzo stoffe, broccati, cavalli, e sale soprattutto. Dal Marchesato alla Francia, transitavano vino, riso, canapa e olio di noce.
Dalla Francia – nell’Ottocento e fino alla Grande Guerra – giungevano sui versanti italiani molti mercanti, e compravano violette di montagne dalle ragazze e dalle bambine, che le raccoglievano, erano molto profumate, ed economicamente redditizie. E con i soldi della vendita delle violette le ragazze e le bambine riuscivano a pagarsi la dote, che si chiamava fardello.
Dall’Italia – attraverso il Colle della Scala tra Bardonecchia (Barduneice, in occitano) e Briançon – transitano ogni giorno, verso la Francia, una decina, una dozzina, una ventina (dipende dai giorni) di africani, per lo più francofoni. Passano il confine. A qualcuno hanno dovuto amputare i piedi per il gelo, all’arrivo. Con la bella stagione, con lo scioglimento delle nevi, le autorità temono di rinvenire dei cadaveri di cui sarà impossibile stabilire l’identità.

Pomaretto, Valli Valdesi, provincia di Torino.

«Gli avi mi hanno raccontato» mi dice Franco Baudino, mentre carica la stufa prima di uscire di casa con me, «che un tempo qua a Elva era tutto coltivato. I prati erano sgombri di rovi, i sentieri puliti. Tutti gli alberi venivano potati ogni tre anni. Le foglie le prendevi, le mischiavi con il secondo fieno e ci facevi il cibo per le bestie. Le foglie di olmo davano un buonissimo latte. Se avevi un bel larice non lo tagliavi, ma lo tenevi per il giardino. Adesso è tutto in malora: quando non c’è più l’uomo, la natura si riprende tutto». Appena fuori, sulla soglia, Franco mi indica un punto a metà del suo stinco: i capelli di sua madre, sciolti, le arrivavano fino a lì; li teneva sempre raccolti, li ha venduti solo due volte nella vita. Camminiamo fino al municipio. «Ho 70 anni, quest’anno. Tanti amici della mia età sono partiti per l’altro mondo. All’inizio è dura pensarci, ma poi ci si abitua. Io, prima di passare dall’altra parte, ho ancora tutti i prati verso la cresta di San Michele – la vedi? – ho ancora tutti quei prati là da pulire».

San Martino di Stroppo, provincia di Cuneo.

Risalgo in auto, i vetri hanno intrappolato il tepore del sole. Metto in moto. La strada scende, buco in senso opposto la coltre di nuvole, il cielo torna plumbeo, tornanti e contro-tornanti, la pianura, l’autostrada verso Milano. Negli ultimi quindici anni, Franco Baudino si è occupato di toponomastica; ha chiesto agli ultimi anziani rimasti in paese i nomi di tutti i prati di cui conservavano il ricordo, i pascoli, gli spiazzi, le radure, i nomi dei canali, delle vie, viuzze, steccati, degli incroci, delle frane, dei cantoni, delle conche, creste, cengie, delle balze, degli strapiombi, degli avvallamenti, degli speroni. Li ha fatti stampare sopra venti tavole con le fotografie aeree di Elva, che ora sono esposte in una sala del municipio. Ad ogni luogo corrisponde un nome. Qualcosa, inevitabilmente, è restato muto, innominato, perché gli anziani non ne conservavano più il ricordo.
Un nuovo Adamo, un Adamo al contrario che ridà i nomi alle cose cavandoli dall’oblio; mi balena questo pensiero mentre guido in autostrada, mi segno “nuovo Adamo, Adamo al contrario” sul blocco note del cellulare. Mi fermo in autogrill per un caffè. Parcheggio. Mi sfilo gli scarponi, tolgo il secondo paio di calze, infilo le scarpe.

Il tempo, le regole, il resto – Miriam Camerini, futura rabbina

Dicembre è il mese in cui spesso cade Hanukkah, la festa delle luci.
Una festa che dura otto giorni e che ti ricorda di essere fedele a te stesso, perché se non ti tradisci nulla ti fermerà e la tua luce brillerà a lungo. È la festa del calendario ebraico che sento più vicina. Quando vivevo a Roma,  il primo giorno di Hannukah andavo in piazza Barberini, dove troneggiava un candelabro gigante, per assistere all’accensione della prima candela.

Il dicembre 2020 mi vede in una nuova città nel pieno di una pandemia che ha condizionato le abitudini di miliardi di persone. Mi sono trasferita a Bologna nel marzo 2020. Chiusa in una casa di una città che non conoscevo, ho visto per la prima volta l’aurora boreale. Mi ero appena svegliata e osservavo dal cellulare una telecamera fissa a Churchill, una città canadese affacciata nella baia di Hudson. Quando sono iniziati a comparire i bagliori verdi è stato sorprendente, non così magico come lo avevo immaginato; la telecamera puntava a una porzione di cielo fra due piloni, un’inquadratura sbilenca abbastanza buttata via e il verde tipico delle luci d’inverno appariva acido e ferocemente irreale. Era l’alba del primo dicembre; dopo lo stupore mi sono accorta di aver premuto un tasto inavvertitamente e di aver quindi assistito a un evento registrato avvenuto chissà quando. Gli eventi in differita non mi piacciono.

In quelle settimane smorzava la mia solitudine una serie di eventi sul ruolo delle donne nell’ebraismo condotti da Raffaella Di Castro, una mia vecchia conoscenza romana, l’avevo conosciuta durante una cena nel dicembre 2011, a casa di Nathalie, una cantante israeliana. Proprio mentre ci apprestavamo a mangiare, Nathalie si ricordò che in quei giorni ricorreva Hanukkah e cantò una bellissima canzone, che conoscevo solo in parte, senza saperne riprodurre le parole.

Nove anni dopo, quella mattina del primo dicembre 2020, iniziata con un misto di meraviglia e delusione, Raffaella intervistava Miriam Camerini, una giovane donna italo-israeliana che sta studiando per diventare rabbina. «Se si trova una porta aperta, che è sempre stata chiusa, perché non varcarla?», diceva Miriam commentando la sua decisione di intraprendere gli studi per diventare una guida spirituale, descrivendo la posizione tradizionale della donna all’interno dell’ebraismo senza recriminazioni e senza accondiscendenza. «Una donna nella religione ebraica non è tenuta a rispettare le regole che deve seguire un uomo, questo perché è considerata non pienamente padrona del proprio tempo. Tradizionalmente, infatti, il suo ruolo all’interno della famiglia mal si concilierebbe con gli innumerevoli obblighi religiosi e con uno studio intenso».
Il tempo, infatti, e la sua organizzazione costituiscono la struttura portante attorno alla quale si sviluppa l’intera esistenza ebraica. Vivere l’ebraismo richiede una forte attenzione a momenti precisi del giorno e dell’anno. Basta pensare allo Shabbat, la ricorrenza settimanale che proibisce agli ebrei ogni azione creatrice.

«Se si trova una porta aperta, che è sempre stata chiusa, perché non varcarla?»

Miriam mi incuriosisce moltissimo, è diretta, quasi brusca, sorridente, volitiva. Lascio un messaggio come commento al video in cui esterno il desiderio di parlarle, mi risponde subito invitandomi a contattarla. Al telefono mi appare sospettosa, mi dice con chiarezza: «Non mi piacciono i titoli che recitano la prima rabbina in Italia». Durante la telefonata non riesco a presentarmi, forse da qui deriva la sua diffidenza; come si fa a definire una persona come me che non è un maschio e non è una femmina, non è un giornalista ma non è un non giornalista? Rimango quindi nel vago, in una posizione scomoda più per l’interlocutore che per me. Miriam, però, non si scompone e nonostante dopo il primo minuto io sia diventata quasi disfasica, accetta di farsi conoscere.
Mi racconta come, in realtà, non sappia dove la porterà il percorso che ha intrapreso, poiché la scuola che ha deciso di seguire rappresenta un unicum nel panorama dell’ebraismo ortodosso. Inoltre, le sinagoghe ortodosse disposte ad assumere rabbini donna sono praticamente inesistenti.

Usare l’aggettivo “ortodosso” è importante. Mentre l’ebraismo dall’esterno appare come un blocco unico, un monolite, a guardarlo da vicino, da dentro, è un insieme complesso e sfaccettato di punti di vista, scuole e orientamenti. Un po’ come il frutto di melograno, dove convivono la molteplicità dei semi con l’unicità del frutto. Nell’ebraismo riformato le rabbine donne sono ormai comuni, mentre in quello ortodosso no. La religione ebraica, come tutte le religioni e come tutti gli organi di potere, ha dato solo recentemente spazio alle donne, Miriam suggerisce di analizzare la situazione del rabbinato contestualizzandola e vedendola come lo specchio dei cambiamenti che stanno interessando la nostra società per intero. «Siamo in un’epoca in cui le donne studiano, è normale che vogliano studiare anche Torah».

Prima di terminare la chiamata, fissiamo un incontro telematico per il tre marzo, subito dopo il Purim, la festività del calendario ebraico che ti insegna che la sorte può essere rovesciata; che qualcosa di terribile si può convertire in qualcos’altro. Il giorno in cui è nata Miriam era proprio la notte del Purim.
Pochi giorni dopo le invio un’email in cui elenco gli argomenti che mi piacerebbe toccare. Mi impegno moltissimo nella stesura, ho bisogno di riscattare la telefonata incerta. Alla mia email estremamente formale, Miriam risponde con informalità ed entusiasmo, spiazzandomi.

Le settimane che precedono il nostro incontro cerco materiale su di lei in rete e scopro che ha diretto spettacoli teatrali, che collabora con il Centro culturale Primo Levi di Genova per il quale produce un video alla settimana in cui affronta temi artistici, culturali, religiosi, che scrive su un mensile delle edizioni San Paolo.
Miriam quindi è una regista che sta diventando rabbina, una ebrea ortodossa che scrive su un giornale cattolico.

Il tre marzo preparo la mia postazione, mi sistemo sul tavolo della sala dove solitamente lavoro, cercando un’inquadratura pulita per il mio incontro virtuale. Faccio anche una doccia. Alle due sono già davanti al computer; l’appuntamento è alle due e mezza. Mentre rileggo le mie domande e qualche appunto, Miriam mi chiama al telefono, con circa venti minuti di anticipo. È amichevole, allegra, disponibile. Il nostro incontro Skype è saltato. È a Parigi, si è attardata dall’altra parte della città e non ha fatto in tempo a raggiungere casa.
Ha appena intervistato Delphine Horvilleur, una rabbina francese della corrente progressista, e l’intervista le ha preso molto più tempo del previsto. Mi propone di optare per una telefonata. Quindi cerca un posto tranquillo da cui poter parlare e opta per i Giardini del Lussemburgo.

Servendomi di Google Street View entro nei Giardini da Boulevard Saint Michel e mi ricordo all’improvviso che anni prima proprio da quelle parti mi cadde in testa il riccio di una castagna. A Parigi ho vissuto per qualche mese e di quei giorni mi torna alla mente soprattutto una piscina Art Nouveau con una vasca di acqua calda e il desiderio di imparare a nuotare in stile libero. I miei amici francesi nuotavano tutti molto bene perché il nuoto è inserito nei programmi ministeriali come materia d’insegnamento.
Nei Giardini del Lussemburgo, però, credo di non esserci mai entrata con il mio corpo.  Camminandoci, grazie a Street View,  scopro un posto altezzoso, curato, con l’erba corta e i cespugli ordinati, di quei giardini dove le piante non coprono lo sguardo, ma lo sguardo spazia lontano e controlla tutto. Ecco le sedie verdi in ferro battuto. Forse Miriam è seduta su una di queste mentre parla con me, forse vicino al laghetto, o accanto a una delle tante statue, chissà se vede l’imponente palazzo che ospita il Senato o se si è invece rifugiata fra gli alberi. Spostandomi con il mouse mi accorgo che intorno al nucleo centrale ordinato ci sono file di alberi che danno al posto un’aria più selvaggia e meno compassata. Decido che Miriam mentre parlava con me doveva essere proprio tra quegli alberi.

Inizialmente discutiamo di mizvot, ossia di regole. Miriam ha lavorato con molte persone non religiose, mi chiedo come abbia fatto – soprattutto all’inizio, quando non era lei a dirigere, quando era dipendente – a rispettare tutte le regole dell’ebraismo.  “Avete troppe feste” è una frase che ho sentito dire spesso ai datori di lavoro.

«Questo all’inizio mi ha preoccupata» mi confessa Miriam. «Ho temuto a lungo che osservare le regole mi avrebbe tenuto lontano dal teatro, ma non è stato così. Quando avevo ventun anni ero assistente alla regia di uno spettacolo di Cesare Lievi, all’Opera di Zurigo. Avevamo la prima in autunno e io non sapevo come dirgli che oltre lo Shabbat avevo tantissimi giorni in cui non potevo lavorare. Quando glielo dissi mi rispose: Ma io lo so benissimo, in questo periodo c’è Rosh Hashana (capodanno ebraico), Kippur, Sukkot. Ho capito che quando le persone hanno il coraggio di uscire allo scoperto e chiedere, ti viene detto di sì. È quello che è capitato alla regina Ester, prendere consapevolezza di se stessa e chiedere».

«Una donna nella religione ebraica non è tenuta a rispettare le regole che deve seguire un uomo, questo perché è considerata non pienamente padrona del proprio tempo»

Ester è la protagonista della festa del Purim. Secondo le Scritture, era stata scelta come sposa dal re persiano Assuero, ignaro della sua appartenenza al popolo ebraico. Il più alto consigliere del re, Amman, era un uomo dominato dal culto di sé e non sopportava che gli ebrei che vivevano nel suo regno non si inchinassero al suo passaggio. Istigò così il re a pianificare un eccidio ai danni del popolo di Abramo. Ester, che fino a quel momento aveva taciuto le sue origini, decise di affrontare il marito intercedendo per la sua gente, e rischiando così la sua stessa vita. Era infatti proibito a tutti, anche alla regina, comparire davanti al re senza essere stati convocati; la punizione per una simile intrusione era la condanna a morte. Nel vedere la regina presentarsi al suo cospetto, Assuero reagì con comprensione, dandole ascolto. In questo modo il piano di Amman fu sventato e  il popolo ebraico  si salvò.
Ester quindi è colei che fa in modo che la sorte possa essere rovesciata a proprio vantaggio e Miriam mette l’accento sull’azione che rende questo possibile: l’uscire allo scoperto, chiedere.

Mentre parliamo, Miriam mi dice di avere un’urgenza e interrompiamo la conversazione. Mi richiama poco dopo, aveva notato una persona con qualche difficoltà motoria nel parco che le sembrava aver problemi nel maneggiare il cellulare e lei voleva assicurarsi che non ci fosse bisogno di lei.

«Non mi piacciono i titoli che recitano la prima rabbina in Italia»

La nostra conversazione riprende dove era rimasta, sull’importanza del prendere consapevolezza dei propri bisogni, del saper chiedere e del sapere cosa chiedere. «Proprio questa è stata l’azione che ha permesso la nascita del beit-midrash Har’El, la scuola di rabbinato che sto seguendo a Gerusalemme. C’era una persona che voleva studiare regolarmente e seriamente alachà, la normativa ebraica, l’applicazione dei precetti. Ha chiesto al rav (rabbino) Herzl Hefter di guidarlo in questo percorso, il rav ha risposto affermativamente, preferendo però creare un gruppo. A quel punto anche alcune donne si sono aggiunte e il rav ha accettato».

Miriam è nata a Gerusalemme, ha la doppia cittadinanza, italiana e israeliana. È venuta a conoscenza del Beit Midrash Har’El grazie a un amico, un ebreo ortodosso, esperto di Islam e di lingua araba, attivista per la pace, residente a Gerusalemme.
«È stato solo durante il primo anno di Università che sono entrata veramente in contatto con il mondo non ebraico, avendo frequentato le scuole dell’obbligo all’interno della comunità. Scelsi il mio percorso: Lettere e Storia del teatro e attraverso quello mi si aprì un nuovo mondo; non solo conobbi persone non ebree, ma per la prima volta ero a contatto con  persone che provenivano da tutti i quartieri di Milano e non solo dal centro, dove sono cresciuta. Solo in quel momento capii che non tutti avevano un genitore medico, per esempio. Fu un passaggio fondamentale. Nello stesso tempo, in questo nuovo ambiente variegato io divenni all’improvviso l’ebrea».

Proprio in quegli anni Miriam porta sia la sua ebraicità all’università, sia la “sua università” nella sua comunità, organizzando uno spettacolo teatrale con i suoi compagni di corso che sarà poi finanziato proprio dalla comunità ebraica. Mettere in contatto mondi diversi è un tratto costitutivo del modo di essere ebrea di Miriam. Decisivo nel suo percorso è stato l’autunno del 2017, quando in una settimana si è trovata per ben tre volte a parlare di ebraismo a platee ogni volta diverse: ai cattolici gesuiti nel centro culturale San Fedele, nel centro di Milano; ai musulmani, in un incontro con l’Imam Tchina proprio nei mesi bui in cui l’amministrazione voleva negare la moschea alla comunità islamica; a un’amica ebrea, ex compagna di scuola, che le aveva chiesto aiuto per la stesura di una lezione di Torah.
È in quella settimana che Miriam matura il desiderio di approfondire ulteriormente i suoi studi religiosi, di avere maggiore legittimazione. Nel dicembre di quell’anno è a Gerusalemme per chiedere di essere ammessa nel Beit Midrash Har’El.

La chiacchierata tra noi è intensa, i discorsi si sovrappongono, si intrecciano, ma non si perdono mai. Parliamo della diffidenza che si genera quando si fanno scelte fuori dal comune, della difficoltà che ha avuto in quanto donna a trovare un rabbino che volesse prepararla per l’esame di ammissione alla scuola rabbinica, di classi sociali.

Alcune comunità italiane, pochissime in realtà, l’hanno bandita dalle loro sinagoghe, «È una situazione che ha vissuto anche Delphine Horviller, lei aveva contro soprattutto le donne ortodosse. È difficile uscire dalla situazione di schiavitù, Moshe uscendo dall’Egitto ha dovuto a un certo punto fronteggiare la rabbia degli ebrei stessi». Alla schiavitù purtroppo ci si abitua e una costrizione, spesso, è sentita come una protezione e chi rompe le regole spesso viene vissuto come minaccioso, Miriam però non sembra avere paura. Parliamo di coppie e di amore e finiamo poi per parlare ancora di regole e prassi.
«La prassi la studio e la vivo con libertà. La adatto a me, poi cambia nell’arco degli anni. Le halachot (leggi) sono un’opportunità, forse non importa ad Hashem (D-o) se trasporto di sabato, ma importa a me. Le halachot sono la scala che io creo con D-o».

«È difficile uscire dalla situazione di schiavitù, Moshe uscendo dall’Egitto ha dovuto a un certo punto fronteggiare la rabbia degli ebrei stessi»

Dopo due ore di conversazione, durante le quali faccio fatica a prendere gli appunti, Miriam mi dice di essere stanca e mi chiede se possiamo sentirci in un’altra occasione. Il nostro scambio termina su un punto interessante che non riprenderemo più: l’identità di genere. Le chiedo cosa significhi e come vada interpretata secondo lei la legge ebraica: Non sia arnese da uomo indosso a donna, né vesta un uomo abito da donna.
Terminata la conversazione, spengo il telefono per un po’ e resto in camera a guardare le travi del soffitto.
Mi chiedo se Miriam sia o no una voce fuori dal coro, ma mi ha risposto proprio lei qualche ora prima «Tutti ci sentiamo Faust rispetto a qualcosa, per altri invece siamo completamente in un sistema».

L’appuntamento successivo ce lo diamo per il mese di aprile.  Per il 19 esattamente, non ci diamo però un orario preciso. Alle otto di sera del 19 di aprile mi dice che è disponibile a parlare.
Preparo la mia postazione velocemente.
Mi sono trasferita da poco e la mia camera da letto è piena di scatoloni, sistemo un cuscino sul pavimento e pongo il computer sul letto, accendo la telecamera per controllare che si veda solo la parete bianca; nel frattempo inizia a diluviare, abito in un sottotetto e temo che la pioggia diventi una colonna sonora invadente. Siamo in primavera, ma a Bologna l’aria è autunnale.

Quando inizia la conversazione di Miriam sento solo la voce profonda e importante, lo schermo resta nero per un po’, poi iniziano ad apparire alternandosi ora un occhio, ora una mano, l’amaca blu sulla quale è sdraiata, una macchia gialla che forse è la sua camicia. È ad Arad, una cittadina nelle zone desertiche del sud di Israele, non lontano dal mar Morto, ospite dei suoi cugini per qualche giorno.
Il contrasto è forte, io sono chiusa in una stanza con un maglione spesso, lei è all’aperto in maniche corte, nel mezzo del nulla, avvolta dalla notte afosa e da un silenzio totale; solo per un attimo, sullo sfondo, mi sembra di intravedere una casa bianca di quelle basse a tetto piano

«Amos Oz ha abitato a lungo qui» mi dice. Di Amos Oz ricordo soprattutto una affermazione: “Scrivo perché le persone che amavo sono già morte. Scrivo perché da bambino avevo molto potere di amare e ora il mio potere di amare sta per morire. Io non voglio morire”.
Sarà il deserto, sarà la notte, ma la conversazione è diversa rispetto a quella parigina, ha tutta un’altra temperatura.
«In Israele mi sento un po’ padrona di casa e sento che non devo sempre volergli bene. I miei hanno avuto entrambi un rapporto intenso con Israele anche se profondamente diverso. Entrambi furono portati qui da un sogno. Mio padre inseguiva l’ideale religioso, per cui Israele era la terra dei precetti; mia madre il sogno socialista dei kibbutz in piena rottura con la borghesia. Si sono sposati nel 1979, nel 1983 sono nata io. Erano gli anni della guerra del Libano. Un trauma. Israele era diventato l’aggressore. Così è cambiato tutto dentro di loro e sono tornati in Italia. La terra promessa per loro doveva essere altro. Io l’ho sentita quella delusione. Non si può vivere di un ideale che ci si è fatti, qualunque realtà sarà sempre meno esaltante di un’idea». Quello di Miriam non è un discorso politico, non è una dissertazione storica, non ha la pretesa della verità, è solo biografia.

Il discorso è mangiato da Israele che come Miriam mi ricorda «è la terra che divora i suoi abitanti» e solo alla fine accenniamo alla sua scuola che finalmente ha ripreso le lezioni de visu dopo la massiccia campagna vaccinale. La sua scuola che sta facendo una rivoluzione senza gridarlo, dove lo studio rabbinico  è affrontato tradizionalmente tramite lezioni frontali, ma anche usando il metodo havruta che prevede che i testi vengano affrontati da due studenti insieme. Discutendo, approfondendo e negoziando. Il suo compagno di studi è un cantore che viene dagli Stati Uniti.
Ci salutiamo dopo circa un’ora e mezza di conversazione, ad Arad la notte è ancora più scura e a Bologna ancora piove.

A fine maggio ci sentiamo ancora una volta, siamo su Skype, ma senza telecamera a causa della scarsa connessione. La camera l’accendiamo alla fine velocemente, il tempo di commentare che i suoi capelli sono cambiati, sono molto più chiari e molto belli. Stemperiamo così una telefonata difficile, ma molto emotiva.
Si trovava a Meron durante il pellegrinaggio in cui sono morti 45 Haredim (i cosiddetti ebrei ultra ortodossi) e porta ancora con sé la sensazione di claustrofobia di quella notte. È a Gerusalemme mentre parliamo. C’è la guerra. Questa volta la parola Israele è l’elefante nella stanza. Finiamo, però, per parlarne velocemente e con tristezza, la guerra fa male a tutti. «Non mi definisco una sionista», dice Miriam. Poche parole, che dicono molto. E si finisce a parlare di bundismo, un movimento operaio nato a fine ‘800 in Europa orientale, che incoraggiava gli ebrei a combattere per i propri diritti lì dov’erano, senza spostarsi. «Certo è strano, parlare della Polonia e della Lituania di fine Ottocento; pensarli da qui, dal sogno sionista», commenta Miriam. Parliamo di quello che poteva essere e non è stato, ma anche di quello che non poteva essere e invece fortunatamente è.

Dicembre 2021. È il settimo giorno di Hanukkah  quando mi metto alla guida di un’auto che mi è stata prestata per raggiungere di persona Miriam, con la speranza di accendere l’ottavo lume dell’hanukkia (il candelabro a otto braccia che si usa durante questa festività) insieme.
Miriam è nel monastero di Camaldoli, un paesino arroccato tra colline e montagne a est di Arezzo, dove da più di quarant’anni si tengono “I colloqui ebraico-cristiani”, un evento che promuove il dibattito interculturale e consta di laboratori, convegni, spazi di riflessione e di preghiera.

«I miei hanno avuto entrambi un rapporto intenso con Israele anche se profondamente diverso. Entrambi furono portati qui da un sogno»

Arrivo poco dopo mezzogiorno e riusciamo a incontrarci solamente verso l’una. Trascorro il tempo nella caffetteria del monastero, un locale spazioso e silenzioso , con tavoli ampi di legno massello scuro; nel tavolo accanto al mio un sacerdote e un ragazzo parlano dell’ultima cena, gli presto un orecchio fingendo distrazione.
L’arrivo di Miriam ha qualcosa che mi ricorda un cartone animato di Myazaki, apre la porta a vetro del bar, ci infila dentro la testa e mi guarda con due occhi giganti, uno sguardo un po’ complice e un sorriso larghissimo che non mi aspettavo.
Nel refettorio servono il pranzo, così mi invita a unirmi a loro.

Vicino e lontana. Da quando l’ho conosciuta Miriam l’ho avvertita in alcuni momenti vicinissima e in altri lontanissima e anche nel momento in cui prendo posto accanto a lei a tavola continuo a sentirla così e proprio così siamo anche posizionate, sono immediatamente alla sua destra ma non così prossima, a causa dei distanziamenti imposti dalla pandemia.

Nel tavolo con noi siedono fra gli altri un ragazzo che ho avuto già occasione di sentire in alcune dirette dell’UCEI (unione delle comunità ebraiche italiane) e un sacerdote.
Si parla di Talmud, di scritture. «Forse ciò che è più importante nell’ebraismo è proprio la continua indagine, il perenne mettere tutto in discussione, ogni trattato del Talmud finisce con il sintagma hadran alakh, di nuovo a te, che dà proprio indicazione chiara di questo spirito ebraico, in cui si è disposti a ritornare su tutto. In cui niente è scritto nella pietra», osserva Miriam. «Dici che si riaprirà la Ghemarà?» scherza il sacerdote. L’atmosfera è rilassata, i discorsi scorrono velocemente, sento di perdere dei passaggi perché non conosco molte delle cose di cui si sta parlando; ma i commensali sono inclusivi, soprattutto la coppia che siede alla mia destra. Finito il pranzo, Miriam mi invita a raggiungere l’eremo passeggiando, ma inizia a piovere e temo il ritorno in auto con il buio e la pioggia. Rinuncio così all’idea di accendere le candele insieme. Prendiamo un caffè al bar e mentre lo sorseggiamo Miriam mi dice «L’Hanukkah è proprio questo, avere un’identità forte da mettere però in contatto con gli altri. È la luce interna che porti fuori.  Non è un caso che l’hannukkia vada posta proprio davanti alla finestra. Deve essere vista da tutti. Il contatto non deve far paura, non è una minaccia. Per questo amo trascorrere l’Hanukkah in questo posto. L’Hanukkah è la festa dell’identità e per ironia della sorte è la festa più contaminata. Negli Stati Uniti  sono state create parole che la fondono con il natale, Crismukka per esempio. Non ha senso chiudersi, la contaminazione è normale e non costituisce minaccia. Il teatro inizialmente nel Talmud era condannato, era un elemento appartenente ai greci e percepito come completamente estraneo. Invece poi c’è stato modo di riempirlo di altri significati, di appropriarci di questo contenitore, ed è diventato un altro modo per vivere e mostrare l’identità ebraica. Basta pensare che, in Israele, la frase che si dice quando si vuol chiedere un bis al termine di uno spettacolo teatrale o di un concerto è la stessa che abbiamo evocato a pranzo, quella con cui terminano i trattati del Talmud, hadran alakh, ritorneremo». La vita sembra non essere mai estranea ai rovesciamenti.

Miriam paga anche per me mentre ci raggiunge la coppia simpatica dei commensali; sono pronti per la scarpinata verso l’eremo. Io invece sono pronta a rimettermi in viaggio mentre la pioggia si sta trasformando in neve.

Storie di orsi e uomini

Io ho veduto degli orsi nel mio paese,
e non ho veduto degli uomini che nell’Eldorado.

(Voltaire, Candido, o l’ottimismo)

1. Antefatto

Due uomini parlottano a bassa voce in un fuoristrada mentre abbassano i giri del motore finché il rombo non si spegne nella notte. Sono anni che girano questi boschi, sono anni che imbracciano fucili, ma l’eccitazione della prima volta non è ancora consumata dall’esperienza. Anton Marincic e Marko Jonozovič sono fermi ai confini di una radura della riserva di caccia di Jelen-Sneznik; attorno a loro il silenzio del bosco è coperto solo dal frinire dei grilli. Lo sterrato alle loro spalle scricchiola mentre appaiono due fasci di luce che scorrono sugli abeti e sui faggi dinarici. È l’autocarro degli italiani. Marincic, un uomo nel vigore degli anni, dai tratti marcatamente slavi ma dai modi mediterranei, ripensa al primo incontro con quello strano gruppo. Si sono presentati qualche anno prima, pieni di progetti ambiziosi e di buoni propositi. Col tempo, si è sviluppato un rapporto di fiducia tra la sua équipe e quella italiana. Tra alcuni membri sono nate anche sincere amicizie. Ma il mattino dopo i sentimenti conteranno poco. Sarà un giorno decisivo in cui anni di preparazione daranno un esito secco: il successo o il fallimento. Potrà contare sulle sue forze? Avranno tutti la presenza di spirito necessaria? E, in fondo, perché porsi queste domande? Del resto tutto è frutto della mano dell’uomo, anche questa riserva, anche questa immensa distesa di alberi. Oggi sta all’uomo mantenere gli ecosistemi che lui stesso ha creato, o come dice Marincic: “l’uomo non può pretendere di proteggere la natura lasciandola agire liberamente”.

Nella foto di apertura, Bruno Viola, presidente della ADGP (Associazione per la Difesa del Patrimonio Zootecnico dai Grandi Predatori) in alpeggio sopra Mezzana, Val di Sole.

Il mattino dopo il bosco è avvolto da una luce accecante. Gli italiani sono tre: Andrea Mustoni, biologo, Edoardo Lattuada e Cristina Fraquelli, veterinari. Toccherà agli sloveni sparare. Le due équipe costeggiano il carnaio circolare, attraversano la radura e si rifugiano sulle altane che ne circondano il perimetro. Il sole è già alto quando si sentono i primi bramiti. Il laccio di Aldrich si è dimostrato, ancora una volta, uno strumento semplice e affidabile. Marincic stringe gli occhi per inquadrare meglio la scena. Vede l’orso divincolarsi mentre cerca di liberare il carpo superiore dalla trappola. Ormai non può più sfuggirgli. Insieme a Jonozovič scende dall’altana e, con passo calmo e il volto irrigidito dalla concentrazione, si avvicina. È grosso, ma non è lontanamente paragonabile al mastodonte che aveva incrociato a Medved-Kocevje. Si può fare. Guarda Jonozovič che è già pronto a sparare, ma con un gesto autorevole gli fa segno di aspettare. Imbraccia il fucile, misura il respiro ed esplode un colpo dal suo sparasiringhe. Mentre al suo sparo fa eco quello di  Jonozovič, Marincic si rilassa e smette di controllare il respiro. Ora è tempo di tirare fuori lo spumante e brindare al successo.

Ferruccio, per tutti è Ferro, in dialetto, Fero. È l’autoproclamato custode della Val di Tovel. Vive e si nutre di quello che il bosco gli mette a disposizione; conosce gli animali e le loro abitudini; negli anni ha intrapreso alcune battaglie con l’amministrazione provinciale per tutelare l’incontaminazione della Val di Tovel.

L’orso pesa 99 chilogrammi, ha tra i tre e i quattro anni ed è in ottime condizioni di salute. Viene dichiarato idoneo per il trasferimento in Italia. Mentre Marincic versa il Brut nel bicchiere dei presenti e abbraccia i colleghi italiani, Jonozovič si ferma a riflettere sul suo collega. Ha un portamento austroungarico, quasi da personaggio rothiano, ma su quel substrato si sono posati i rivolgimenti politici del suo paese. Sul volto di Marincic si vedono i sedimenti della Jugoslavia di Tito e si legge il futuro della Slovenia come membro dell’Unione Europea. È un disallineato che non ha riserve nel collaborare con chiunque dimostri il suo amore e il suo rispetto per i boschi a cui ha dedicato la vita. Quel giorno è intimamente felice. L’orso andrà a ripopolare le montagne del Trentino. Questo è il destino di Masùn, l’animale che hanno preso quel giorno, e battezzato col nome della radura dov’è stato catturato. Sarà trasferito nella Val di Tovel, munito di collare radio e osservato finché non sarà accertata la riuscita della sua introduzione nell’habitat trentino. Questo è il destino che sarà condiviso da altri nove compagni.

La radio ricevente del segnale VHF emesso dalle marche auricolari e dai primi modelli di radiocollare.

2. Prologo, o di come Déodat Dolomieu scopre le Dolomiti mentre gli orsi iniziano a scomparire.

Sul finire del mese di giugno del 1750 nacque nel Delfinato il figlio del marchese di Gratet. Gli diedero il nome di Déodat e, il giorno del suo terzo compleanno, fu iscritto all’Ordine dei Cavalieri di Malta. Questa decisione comportava due cose: avrebbe fatto vita da militare e, facendo vita da militare, avrebbe viaggiato molto. Nel corso della sua carriera Déodat Guy Silvain Tancrède Gratet de Dolomieu, questo il suo nome completo, compirà studi di chimica e di scienze naturali per rivolgersi infine alla geologia. Il padre che lo avrebbe voluto generale del Re di Francia, gli concesse di dedicarsi agli studi universitari a patto che entrasse in servizio come cavaliere di Malta. Raggiunto questo compromesso, de Dolomieu iniziò a viaggiare interessandosi più al salnitro della Bretagna, all’arsenopirite del Portogallo e al granito dei Pirenei che non al mestiere delle armi. Infine si congedò per dedicarsi solo alla scienza e fuggì in Italia. Qui si calò nell’Etna, descrisse con precisione mai raggiunta prima gli effetti dei terremoti e la resistenza delle abitazioni alle onde sismiche. Nel 1789, mentre sedeva in un’osteria di Roma, lo raggiunse una lettera in cui gli veniva data una funebre notizia: quasi tutti i suoi parenti erano caduti vittime dei primi moti della Rivoluzione. In quegli stessi anni, un’altra Rivoluzione, quella industriale, sta muovendo i suoi primi passi e con essa la deforestazione. Alcuni mesi dopo la morte dei parenti, Dolomieu è tra le Alpi del Tirolo —  ai tempi dette Monti Pallidi  — e mentre passa per l’Alpe di Siusi riconosce un genere di roccia calcarea che aveva già notato in alcuni palazzi di Roma. Gli abitanti del posto la chiamano “occhio di gatto”, la curiosità scientifica di Dolomieu lo porta a sottoporla a diversi esami chimici: scoprirà che quel minerale è fosforescente per collisione e quasi inerte agli acidi; ne invierà dei campioni al collega svizzero Nicolas Théodore de Saussure. Fu Saussure, in una lettera del 1792, a dare a quello strano minerale il nome di dolomia. Bisognerà aspettare fino al 1918 perché il nome del minerale battezzi anche parte delle Alpi orientali italiane.

Marche auricolari per il rilevamento della posizione degli orsi.

Intanto Dolomieu torna in Francia, tenta di rincasare nel castello del padre, ma si ritrova spogliato di ogni possedimento. Per vivere comincia ad insegnare, fa una carriera fulminea e diventa Ingegnere minerario all’École nationale supérieure de mines. Ormai prossimo alla pensione, viene convinto da un amico chimico ad imbarcarsi per una destinazione segreta, una Eldorado di minerali mai studiati prima. Il 19 maggio 1798, a Tolone, sale su una delle 300 navi da guerra sotto il comando del Primo Console, Napoleone Bonaparte. Arrivato in Egitto, sopravvive a innumerevoli scontri a fuoco, ma non riesce a concentrarsi sugli studi; troppo preso a salvarsi la vita. Sulla via del ritorno naufraga poco lontano dalle coste della Calabria, viene preso prigioniero dall’Ordine di Malta, che aveva disertato anni prima. La prigionia dura due anni, interamente trascorsi nelle carceri di Messina. A salvarlo è Napoleone. Quando conquista l’Italia e cede il Regno di Napoli ai Borbone, il Primo Console fa scrivere in una clausola che Dolomieu sia liberato. Malato, provato dalla prigionia e dalle torture ripara dall’unico parente in vita, una sorella nascosta tra le Alpi del Delfinato. Qui muore poco dopo, trascrivendo la sua ultima opera. Negli stessi anni in cui Dolomieu ha attraversato la Terra e negli stessi luoghi dove ha scoperto la dolomia, sono attestate le prime estinzioni locali di una specie animale che ha convissuto con l’uomo almeno mezzo milione di anni e che ha le sue origini nel Pleistocene, l’ ursus arctos o orso bruno. Durante la primavera del 1790, quella in cui venne scoperta la dolomia, gli orsi scompaiono definitivamente dalla Val Pusteria.

Fototrappola presso la bocchetta delle Grole sul Carega. È utilizzata per il monitoraggio dei grandi carnivori in quota.

Duecento anni dopo, l’orso bruno è quasi scomparso da tutto il Nord Italia, gli ultimi membri, che naturalisti e scienziati contemporanei hanno significativamente battezzato “popolazione relitta”, sono stati avvistati a nord e a est delle Dolomiti di Brenta. I relitti sono isolati dagli altri orsi dell’arco alpino orientale. Nel 1996 viene avviato un progetto per la tutela dell’orso bruno. Il progetto si chiama Life Ursus, è promosso dal Parco Naturale Adamello Brenta in collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale (ISPRA) e finanziato dall’Unione Europea. Nel 1997, gli scienziati coinvolti nello studio di fattibilità del Progetto Life Ursus confermano l’estinzione biologica dell’orso trentino: sono rimasti tre esemplari, ormai troppo vecchi per riprodursi.

Il sole è spuntato da appena qualche minuto, Angelo scende dal suo Jimny e tira fuori “il lungo”, un vecchio cannocchiale militare sovietico. È con il lungo che Angelo in primavera scova le orse uscire dalla tane con i piccoli.

È qui che nella primavera del 1999, in una radura dell’Alta Val di Tovel, da un Iveco Daily scende un giovane orso che scoppia di salute. Si chiama Masùn e arriva da una radura slovena dove è stato catturato qualche ora prima. A lui seguiranno Kirka, Daniza, Jože, Irma, Jurka, Vida, Gasper, Brenta e Maja. Questi dieci orsi saranno chiamati, dai responsabili del Parco Naturale Adamello Brenta, i fondatori.

Alta Val di Tovel.

3. Di come una minima popolazione di umani ha deciso il ritorno di una minima popolazione di orsi.

Nel torrido agosto 1997, il centro indagini dell’Istituto per le Ricerche e l’Analisi dell’Opinione Pubblica di Milano fa suonare 1512 telefoni tra la popolazione dell’area interessata al progetto di reintroduzione dell’orso bruno. Si tratta del sondaggio numero 97085C condotto dall’Istituto, il titolo è “Opinioni ed atteggiamenti nei confronti dell’orso nel Parco Naturale Adamello-Brenta”. I 1436 rispondenti non sono una riproduzione in scala degli abitanti dell’area, il campione è stato modificato per dare maggior peso ad alcuni soggetti: in particolare apicoltori, agricoltori e cacciatori. Nelle maglie del campionamento finisce anche Andrea Mustoni, coordinatore di Life Ursus che, credendosi vittima di uno scherzo telefonico, risponde al sondaggio fingendosi fortemente contrario alla reintroduzione dell’orso.

Le analisi delle feci sono uno degli strumenti per determinare lo stato di salute, la dieta e l’appartenenza genetica degli orsi.

Con l’eccezione di Mustoni, le persone dicono sì, in massa, alla reintroduzione dell’orso. In Trentino poi, e nella zona del Brenta ancora di più, gli abitanti conoscono bene la condizione dell’orso e la sua ormai prossima estinzione e allo stesso tempo si dicono consapevoli dei rischi connessi al ritorno del più grande carnivoro d’Europa. Una sola risposta alle 23 domande formulate lascia intravedere un’increspatura: si rileva un significativo aumento del favore alla reintroduzione degli orsi se vengono garantiti interventi preventivi per gli “orsi problematici”. Un orso viene definito problematico se provoca danni, o è protagonista di interazioni uomo-orso con una frequenza tale da creare problemi economici o sociali e richiedere un immediato intervento risolutivo. L’orso lo vogliamo, ma con un radiocollare trasmittente.

L’antenna per la triangolazione del segnale VHF utilizzata per il monitoraggio degli orsi. Oggi per il tracciamento viene utilizzato il segnale GPS che fornisce dati sulla posizione degli animali in tempo reale e direttamente sul computer, facilitando così il compito delle squadre di controllo.

L’opinione pubblica rimane quieta fino al 2002, quando avviene il primo “fatto di sangue” legato al progetto di reintroduzione. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno succedono due cose, una in cielo e una in terra. Il telescopio della CalTech di Los Angeles avvista un oggetto transnettuniano grande come un terzo della Luna. Il planetoide viene ribattezzato Quaoar, come il Dio dei nativi Tongva che avrebbe creato gli animali e le piante danzando perché afflitto dal vuoto dell’esistenza. Poche ore dopo, nel comune di Ronzo-Chienis in Val di Gresta un orso — che secondo le ricostruzioni della scientifica potrebbe essere Masùn, Jože o Daniza — entra in una porcilaia e sbrana una scrofa e sei maialini. I giornali cominciano a discutere della possibilità del rimpatrio immediato degli orsi sloveni e la Giunta provinciale chiede che l’Istituto per le Ricerche e l’Analisi dell’Opinione Pubblica di Milano prepari una nuova indagine entro il 2003. La nuova ricerca, numerata S03150C e intitolata “Indagine conoscitiva sull’accettazione dell’orso nella Provincia di Trento”, rivela che i duemila trentini, intervistati con il criterio della randomization, conoscono il progetto Life Ursus, ne apprezzano gli obiettivi e la stragrande maggioranza correrebbe a votare favorevolmente se venisse chiesto “lei è favorevole o contrario alla permanenza degli orsi in Trentino.” Nessuno riporta gli orsi in Slovenia, restano in quella che ormai è casa loro. Negli stessi mesi il parco del Brenta effettua un’indagine tra una popolazione di potenziali turisti italiani: la permanenza dell’orso sarebbe, secondo un’altra piccola-grande maggioranza, una ragione decisiva per scegliere il parco come luogo dove passare le vacanze a fare trekking, rafting e mountain biking.

Replica di una trappola tubo utilizzata per la cattura e il rilascio degli orsi introdotti dalla Slovenia con il progetto Life Ursus presso la “casa dell’orso” di Spormaggiore.

Passano nove anni e il Servizio Foreste e Faune della Provincia Autonoma dispone una nuova indagine demoscopica che sia “comparabile a quelle del 1997 e 2002”. Se simile nelle domande, questa terza ricerca è però completamente diversa dalle precedenti negli esiti. Innanzitutto, non è commissionata al famoso istituto di Milano, ma viene condotta dalla società a responsabilità limitata OGP pubblicità, con sede a Trento. Ma soprattutto, l’indagine scompare. Viene commissionata e condotta, i risultati arrivano all’amministrazione provinciale già nel marzo del 2011, ma non vengono comunicati. Nel settembre, un consigliere dell’opposizione presenta l’interrogazione 3043 dal titolo “E la consulenza sulla presenza dell’orso che fine ha fatto?”, sostenendo che l’amministrazione stia nascondendo la verità, ovvero che i trentini degli orsi ne hanno abbastanza. Solo a questo punto il presidente Lorenzo Dellai gli risponde riassumendo i risultati. Sembra vero, ora solo il 30% dei rispondenti si dice favorevole alla presenza dell’orso e la maggioranza chiede che i plantigradi si stabilizzino demograficamente. Al netto del riassunto riportato dal presidente della PAT, lo studio ad oggi è introvabile, e non sapremo mai se fu un’errata formulazione delle domande, una impropria costruzione del campione statistico o il sentimento dei trentini, particolarmente insofferente in quei giorni, a creare questa anomalia.

Marco è il custode della Val di Tovel alle dipendenze dell’ufficio di custodia forestale del comune di Ville d’Anaunia.

L’obiettivo del progetto di reintroduzione Life Ursus era che gli orsi bruni tornassero in Trentino. Si era deciso che l’orso sarebbe dovuto tornare come MPV, ovvero Minima Popolazione Vitale. Una MPV è una popolazione che ha alte probabilità di sopravvivere entro un termine ragionevole di tempo, diciamo un 99% in un lasso di 40 generazioni di orsi bruni, ovvero 1000 anni. Per divenire vitale, una minima popolazione deve raggiungere tre obiettivi. In primo luogo, deve essere demograficamente in grado di sopravvivere a cali asistematici di fertilità. In secondo luogo, deve evitare consanguineità, che è causa di malattie genetiche tali da portare all’estinzione entro alcune generazioni. Infine, deve sviluppare capacità di resilienza a fattori esterni, ovvero deve essere in grado di sopravvivere a eventi quali la scomparsa di interi boschi o l’ostilità umana. Al successo nella creazione di una MPV si lega l’area di reintroduzione. L’ MPC, il Minimo Poligono Convesso, è la superficie vitale occupata da un orso, detta anche home range. La dimensione di MPC dipende dalla qualità dell’area in cui gli animali vengono immessi. La combinazione tra lo spazio disponibile adatto alla vita dell’orso nell’area del Trentino e le necessità di raggiungere una MPV ha portato ad indicare in 50 orsi la popolazione minima.

Angelo è stato prima idraulico e poi stradino. Oggi è in pensione. Ha scoperto e mappato 76 tane di svernamento dell’orso bruno. Qui è ritratto nella tana da lui chiamata “la vedetta”, dove ha ritrovato alcuni resti ossei dell’Ursus spelaeus, l’orso delle caverne, vissuto tra i 20.000 e i 50.000 anni fa.

Della popolazione dei fondatori e dei suoi discendenti sappiamo quasi tutto. Se nel mondo esistono circa 200 mila orsi bruni, gli orsi della popolazione trentina sono esposti ad un’attenzione e ad una cura paragonabile ai progetti pilota di terraformazione di Marte o della Luna, in cui team di poche decine di volontari vengono studiati in ogni dettaglio per anni. 

I grattatoi sono dei punti specifici del bosco, generalmente tronchi di conifere, su cui gli orsi strusciano la schiena. Questa attività ha lo scopo di segnalare la propria presenza nella zona ai conspecifici.

Gli orsi non sono solo seguiti in alcuni casi con radiocollari, marche trasmittenti e rilevatori di mortalità, sono poi indirettamente tracciati con foto trappole, trappole per il pelo e prelievi di feci con successiva analisi genetica e organica. Quando sono catturati perché problematici, o curati perché feriti, vengono studiati come se fossero in laboratorio. L’enorme mole di dati raccolti dal Servizio Foreste e Faune confluisce ogni anno in un Rapporto sui Grandi Carnivori della Provincia Autonoma e viene utilizzato da ricercatori per rispondere a domande scientifiche e gestionali di grande complessità. Alcune tesi di laurea si sono occupate di valutare se la dispersione dell’orso dalla core area delle Dolomiti di Brenta sia dovuta alla densità degli orsi presenti. In altre parole, ci si è chiesti se gli orsi comincino a stare stretti e si stiano muovendo sempre di più in cerca di spazio vitale. L’analisi dei dati georeferenziati ha dimostrato l’assenza di una correlazione tra densità e mobilità. La distinzione rilevante che va considerata è tra femmine e maschi: le prime sono filopatride, ovvero tendono a rimanere costantemente nell’area dove sono nate o dove tendono a riprodursi; i secondi invece tendono a coprire maggiori distanze, principalmente per cercare nuove femmine con cui riprodursi. Considerato questo fattore, gli studi effettuati sembrano indicare che lo spazio disponibile nel Brenta non sia finito e che quindi la popolazione potrebbe anche aumentare.

A maso Simon in val Sporeggio, Pio Malfatti ha trovato un metodo tutto suo per proteggere le arnie dalle scorribande degli orsi.

4. Svolgimento, come gli orsi si sono rapidamente moltiplicati o di come la politica e i media, quando parlano di orsi, fanno il gioco dell’uomo.

Nel 1945, il CLN fonda quello che rimane il più diffuso quotidiano atesino: oggi si chiama Trentino in provincia di Trento e Alto Adige in provincia di Bolzano. È dalle colonne di questo giornale che leggiamo di come gli orsi lentamente iniziano a moltiplicarsi, alcuni uomini ne gioiscano mentre altri iniziano ad averne paura. Una sera primaverile del 2008 i guardacaccia del Cantone svizzero dei Grigioni spianano i fucili per eliminare JJ3, uno dei discendenti di Jurka, che si è imprudentemente spinto fino ai boschi di Lenzerheide. “Bum, bum. JJ3 è morto così, seguendo il triste destino del fratello maggiore Bruno, ucciso a fucilate in Baviera nel giugno del 2006” si legge nell’edizione del 16 aprile 2008. L’articolo è permeato di un certo rammarico per l’uccisione dell’orso nato in Trentino, ancora nessuno però teme l’orso. Ancora nessuno vuole che venga eliminato. E nemmeno lo temeva 1600 anni prima un tale Romeo o Remit o Romedio, un nobile di origini tirolesi che, dopo essersi recato a Roma in pellegrinaggio, stava tornando a Thaur, dove era nato. Stanco, Romeo si inerpica su un pinnacolo di roccia — dire stanco nel V secolo non è dire stanco nel XXI secolo —dove si immerge in profonda meditazione. Mentre è preso a riflettere e pregare, un grosso orso molla due zampate al cavallo di Romeo, che senza scomporsi si avvicina all’orso, lo ammansisce e gli sale in groppa. Sarà a cavallo di quest’orso che Romeo scenderà a valle e si presenterà a Vigilio, terzo vescovo della diocesi di Trento. Nel 2010, in quella che oggi è chiamata la Valle di San Romedio, pare che l’orso lo volessero ancora; sicuramente lo voleva Marco Bertagnolli, ai tempi assessore di Sanzeno, che commentava: “Quando arriverà l’orso, faremo una grande festa in tutti i paesi del circondario.” Ma l’entusiasmo di Bertagnolli evidentemente non è condiviso da tutto lo spettro politico trentino se nel luglio del 2011 i NAS devono irrompere a Imer per fermare i banchetti di una sagra.  Si tratta della festa di alcuni esponenti locali della Lega Nord che per manifestare a favore del rimpatrio degli orsi “sloveni” a casa loro, hanno pensato di importare carne di orso dalla Slovenia per offrire braciole d’orso ai sostenitori e al contempo significare, con un temerario rovesciamento burchiellesco, la loro contrarietà al progetto — peraltro di matrice europea — Life Ursus. La carne sarà sequestrata nonostante solo due giorni prima il senatore leghista Sergio Divina dichiarasse che fosse stata importata secondo le più stringenti norme sanitarie e aggiungesse che: “La gente di montagna, in questi ultimi anni, ha dovuto cambiare le abitudini di vita e comportamentali proprio per la paura dell’orso.”

Il 25 Giugno 2021, con una delibera della giunta provinciale della PAT, si firma la possibilità di abbattimento per gli orsi definiti “problematici”. Qualche giorno dopo, a Trento, coordinati dal centro sociale Bruno, scendono in piazza i movimenti antagonisti, antispecisti e animalisti per protestare.

Si scopre l’anno successivo che la gestione degli orsi è uno dei temi su cui si scontrano lo stato centrale e la Provincia Autonoma di Trento: nel 2012 il giornalista Robert Tosin ci informa che “è finita la luna di miele tra i trentini e gli orsi” e accodandosi all’allora presidente della PAT Lorenzo Dellai individua la radice dei problemi nel fatto che “il progetto Ursus di fatto è controllato da Roma tanto che esiste pendente un ricorso al Consiglio di Stato per un provvedimento adottato da Dellai in merito alla cattura di un orso”. Le cose vanno sempre più veloci: nel 2014 Monica Frassoni, co-presidente fino al 2019 del Partito Verde Europeo,  deposita una denuncia alla Commissione Europea contro “il Ministero dell’Ambiente, la Provincia Autonoma di Trento e ogni altro organismo e/o ente pubblico la cui responsabilità dovesse sussistere”. La PAT è accusata di aver violato le direttive europee “per la protezione dell’orso bruno e per la conservazione degli habitat naturali”. A Palazzo Chigi siede ancora Matteo Renzi, ma sono gli ultimi singulti europeisti a difesa dell’orso. A marzo 2018 la Lega esce dalle elezioni nazionali con il miglior risultato di sempre e qualche mese dopo conquista anche il governo provinciale di Trento. A essere proclamato presidente della PAT il 3 novembre 2019 è Maurizio Fugatti, commercialista di Avio che, tra le altre cose, era tra i partecipanti della grigliata di braciole d’orso a Imer. Non passa molto tempo dall’insediamento del nuovo governo provinciale prima che la posizione della PAT sulla questione dell’orso cambi. Fugatti ha deciso di agire con mano ferma dove i suoi predecessori, Lorenzo Dellai e Ugo Rossi, si erano barcamenati tra dichiarazioni a favore di agricoltori e apicoltori e posizioni accomodanti verso associazioni ambientaliste e agenti del turismo. A gennaio 2019 l’assessora all’agricoltura, foreste, caccia e pesca Giulia Zanotelli cancella la presentazione del Rapporto Grandi Carnivori, che dal 2007 viene presentato annualmente al Museo delle Scienze di Trento. “La necessità di trovare una decisione che non metta in difficoltà il governo nazionale (dove all’anima leghista pronta agli abbattimenti si oppone l’anima pentastellata decisa a sostenere la tutela dei grandi carnivori) e che permetta di muoversi in Trentino con ‘disinvoltura’ deve essere stato l’argomento decisivo per cancellare la presentazione del rapporto. Perché probabilmente Fugatti e Zanotelli preferiscono tenere bassi i riflettori, non trovarsi di fronte ai numeri in pubblico” commenta in quei giorni Paolo Mantovan dal Trentino.

La manifestazione del 3 Luglio 2021 a Trento vede uniti attivisti di diverse associazioni del panorama animalista italiano per la campagna “Stop Casteller”.

Maurizio Fugatti è circondato dai microfoni di numerosi emittenti locali. È la mattina del 15 luglio 2019. Alla sue spalle si staglia una rete elettrosaldata ed elettrificata ad alto voltaggio. 7000 volt, con scariche della durata di 100-300 milionesimi di secondo ogni 1,2 secondi.  “Era impensabile una cosa di questo tipo, con questo soggetto è accaduto. Adesso siamo di nuovo alla ricerca. È chiaro che nel momento in cui si dovesse avvicinare a edifici abitati i forestali hanno il mandato di intervenire a vista. Anche prevedere l’abbattimento perché a questo punto qua la pericolosità è accertata” dichiara. Si parla di M49, un orso nato nel 2016 che da poco meno di un anno ha catturato l’attenzione politica e mediatica per aver condotto in Val Rendena sedici tentativi di effrazione in manufatti antropici, 40 uccisioni di animali tra mucche, cavalli, pecore e galline, ed infine alcuni incontri ravvicinati con l’uomo. È il prototipo dell’orso confidente o pericoloso, non teme l’uomo, le sue case e le sue tecnologie. Ha rotto finestre, abbattuto porte, scavalcato mura e addirittura scansato con agilità i colpi della carabina di un pastore che gli si era parato davanti. Catturato la mattina del 15 luglio, M49 fugge dopo nemmeno due ore, scavalcando la recinzione della prigione.

Manifestazione del 3 Luglio 2021, Trento, sempre per la campagna Stop Casteller.

Quella fuga rocambolesca è la prova della convinzione più profonda di una parte della comunità trentina. Non si può convivere con gli orsi, vanno cercati, braccati, raggiunti, cacciati e infine uccisi. Dal 22 luglio sull’orso pende l’ordine di abbattimento, laddove lo si ritrovi in una situazione di pericolo per l’uomo. Nei mesi seguenti, però, la sua cattura si rivela un compito più difficile di quanto preventivato dalla Giunta leghista trentina. Mentre si susseguono gli avvistamenti e i forestali lo inseguono lui appare e scompare come una presenza spettrale. Sbuca sui versanti della Marzola, nel centro abitato di Mattarello e nel giardino di una pizzeria, per poi puntare verso Nord e sparire. Un mese dopo vengono rinvenute le sue tracce a Faedo, in provincia di Bolzano, ma M49 è introvabile. La sua fuga richiama l’attenzione nazionale e il Ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, propone di battezzarlo Papillon, il soprannome del criminale e scrittore francese Henri Charrière. In Trentino intanto, al fianco degli animalisti, si creano nuovi sostenitori di M49, l’orso che è fuggito dal controllo dell’uomo e che sta ridicolizzando il governo provinciale. Tra le voci che inneggiano all’eroica fuga di Papillon troviamo Rovereto Violenta,  Fronte Operaio per la Rivoluzione Socialista in Trentino, Trento alienation ッ,  Gli ultrasuoni in S. Maria Maggiore: tutte pagine Facebook della sinistra giovanile trentina che celebrano quello che ormai è visto come lo scontro tra la scaltrezza di un giovane orso e l’ottusità dei rappresentanti della Lega trentina. Mentre la lotta della propaganda si consuma sulle sue gesta, M49 scompare di nuovo, fino a marzo 2020 quando viene avvistato a Molina di Fiemme. Ad aprile il comunicato numero 884 dell’Ufficio Stampa della PAT ha un tono che suona ormai scorato, recita: “Ora è possibile che l’animale rallenti gli spostamenti e frequenti con più assiduità la zona a lui nota. Le attività di cattura dell’orso in applicazione dell’ordinanza di rimozione, mai sospese pur risultando assai difficili su di un animale in costante e rapido spostamento, sono ora concentrate in tale area”. Sanno dove si trova (tra la Val di San Valentino e la Val Breguzzo), ma quest’orso sembra ormai guidato da forze superiori, quasi fosse un protetto del dio Quaoar. Un dio il cui pianeta era stato scoperto nella stessa notte del 2002 in cui un avo di M49 aveva commesso la prima predazione certificata di un capo di bestiame di proprietà degli uomini. Nessuno crede più di riuscire a catturarlo.

Il 28 Aprile 1998 il Ministero dell’ambiente firma il decreto che autorizza in via definitiva il Parco Naturale Adamello Brenta al rilascio degli orsi sloveni in territorio Trentino.

“M49 ha rilasciato la seguente dichiarazione: ‘Per quarantatré anni della mia vita cosciente sono rimasto un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto la bandiera del marxismo. Se dovessi ricominciare tutto dapprincipio, cercherei naturalmente di evitare questo o quell’errore, ma il corso della mia vita resterebbe sostanzialmente immutato. Morirò rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile. La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente che nei giorni della mia giovinezza, anzi è ancora più salda.’ M49 LIBERO SUBITO”, cosìla pagina Fronte Operaio per la Rivoluzione Socialista in Trentino ha commentato la cattura di M49 avvenuta il 29 aprile 2020. Sembrava il tramonto di un ideale di libertà, il Convegno di Bologna della sinistra trentina. Dopo la cattura, M49 è stato tenuto sotto sorveglianza strettissima da una squadra di forestali. Vengono chieste consulenze a esperti, tra i quali spiccano i nomi di veterinari di fama internazionale come Djuro Huber e Frank Goeritz. Trasportato in una trappola tubo è stato reimmesso nel recinto del Casteller da cui era fuggito 289 giorni prima, un comprensorio composto di tre aree di circa 50 metri quadri l’una. Nelle settimane successive è stato castrato. Per aumentare la sicurezza i tecnici hanno limato le sbarre di cinta su cui M49 si era arrampicato per rendergli impossibile la fuga. Come ulteriore norma di sicurezza gli hanno stretto al collo un radiocollare che lo renderebbe rintracciabile se dovesse fuggire di nuovo. Nel corso dei mesi di maggio gli articoli del Trentino lo hanno descritto come mansueto e appagato al punto da titolare, il 6 maggio, “A M49 ora piace il parco del Casteller”.

6 Agosto 2021, 20:43:27. Orsa maggiore.

Ma il 27 luglio 2020 Papillon è scappato di nuovo. Questa volta non si è arrampicato, ha divelto l’inferriata che lo separava dalla libertà ed è fuggito, ancora una volta, sulla Marzola. Di nuovo i feed, i notiziari, i giornali locali sono esplosi di notizie su M49. Di nuovo sono scoppiate grida di giubilo e invocazioni all’abbattimento. Il presidente della regione si è detto certo che i forestali potranno ricatturare l’orso celermente. È probabile che succeda, dal momento che l’orso ha il radiocollare.

Centro faunistico di Spormaggiore.

Non resta che sperare che M49 punti a Nord, sempre più a Nord, che scavalchi le alpi e raggiunga il villaggio di Sachrang, in Baviera, dove è cresciuto l’uomo che meglio potrebbe raccontare la sua storia. Quell’uomo è Werner Herzog e scrutando M49 con il suo sguardo fisso da esistenzialista tedesco lo guarderebbe negli occhi e gli direbbe qualcosa del genere: “È come una maledizione che pesa sull’intero paesaggio. Chiunque ci si addentri ha la sua parte di questa maledizione, quindi siamo maledetti da ciò che stiamo facendo qui. È una terra che, se esiste, Dio ha creato con rabbia. Questa è l’unica terra in cui la creazione è ancora incompiuta. Se ci guardiamo intorno, c’è una sorta di armonia: è l’armonia travolgente dell’omicidio collettivo”.

FINE

Postfazione

I fatti descritti in questo reportage si fermano al 27 luglio 2020. Il testo è stato concluso il 29 luglio a Trento e letto pubblicamente il 30 luglio a Rovereto. Nel giro di un anno le storie degli orsi e degli uomini sono proseguite.

L’11 agosto 2020 la Provincia ordina la cattura dell’orsa JJ4, che ha aggredito due cacciatori per difendere i suoi cuccioli. Successive sentenze del Consiglio di Stato e del Tar vieteranno di confinare l’orsa, per preservare l’incolumità dei cuccioli. Il 7 settembre 2020, dopo 42 giorni di fuga, M49 è catturato sul Lagorai e condotto nuovamente al Casteller. Ad attenderlo ci sono M57, reo di aver aggredito un carabiniere in agosto, e l’orsa DJ3, rea di aver ucciso una pecora dieci anni prima. Nel settembre, i carabinieri forestali del CITES (il servizio forestale del Trentino è autonomo e dipendente dalla Provincia, mentre i carabinieri forestali sono un corpo nazionale) ispezionano il Casteller ed evidenziano forte stress psicofisico nei tre orsi.

Vicino a Malga Bael si trova “il chiodo”, una tana di svernamento lunga circa dieci metri. Qui Angelo ha trovato la mandibola semi fossilizzata di un orso bruno. La datazione al carbonio la colloca a 5000 anni fa. Generazione dopo generazione gli orsi continuano a scegliere gli stessi luoghi per trascorrere il periodo del letargo.

Il 25 aprile 2021, DJ3 è trasferita all’Alternativer Bärenpark Worbis della Turingia e riceve il nome di Isa. Nel parco incontra Jurka, uno dei dieci orsi fondatori. Lei stessa è figlia di un’altra fondatrice, Daniza. Il 9 giugno i carabinieri forestali effettuano una seconda ispezione al Casteller. Il 26 giugno 2021 la giunta Fugatti definisce le nuove linee guida per la gestione degli orsi. Due sono le novità: l’eliminazione (opzione K) può essere attivata anche nei confronti di orsi che provocano danni al patrimonio e il cui comportamento non si corregge; per procedere con l’eliminazione è obbligatorio un parere dell’ISPRA, ma esso non ha più carattere vincolante. Si prevede poi la costruzione di altre due aree di contenimento. Comunicativamente è passato il messaggio di una linea di maggiore durezza nei confronti degli orsi, anche se poco è cambiato nella sostanza. Il primo luglio l’orso M62, fratello di M57, è stato sedato e radiocollarato a seguito di ripetute razzie di cassonetti nella zona di Andalo. Il 12 luglio l’orsa F43 è stata spaventata con cani da orso e pallottole di gomma e quindi sedata e radiocollarata a seguito di atteggiamenti di confidenza con gli umani, non ultimo il furto di fragole da una serra in Val Concei. A fine agosto cinque associazioni animaliste depositano tre ricorsi al TAR Trentino per la cancellazione delle nuove linee guida, definite “un intollerabile strumento di morte”.

Secondo l’annuale Rapporto Grandi Carnivori, pubblicato a fine aprile, nel 2020 sono nati 22-24 cuccioli, sono morti 2 esemplari (uccisi da altri orsi) ed è scomparso un cucciolo. La popolazione ha probabilmente superato i 100 orsi.

Il 29 Giugno 2021, nei boschi ai bordi del comune di Andalo, con una trappola tubo e un’esca alimentare di siero di latte viene catturato M62. Sul posto restano erba schiacciata e peli di orso.

Nota degli autori

Il testo è una narrazione reportagistica. Le citazioni e i discorsi diretti in corsivo sono dichiarazioni ed estratti riportati su diverse testate locali (in particolare il Trentino, l’Adige e il Dolomiti). L’antefatto prende ispirazione da fatti reali ed è stato rivisto alla luce delle osservazioni di Andrea Mustoni, che era presente alla cattura di Masùn, ma è romanzato. L’ultimo paragrafo della quarta sezione, dove M49 incontra Werner Herzog, è puro frutto dell’immaginazione degli autori.

Desideriamo ringraziare Andrea Mustoni, biologo e responsabile dell’unità Ricerca scientifica ed educazione ambientale del Parco Adamello Brenta, che ci ha fornito un’attenta consulenza e il racconto in prima persona di alcuni dei fatti qui raccontati. Ci scusiamo con lui per averlo trattenuto lontano dai suoi boschi per qualche ora.

Ringraziamo, sentitamente, il Nuovo Cineforum Rovereto, per aver commissionato la scrittura e lettura dal vivo di “Storie di Orsi e Uomini” in occasione del festival Osvaldo 2020.

Galassia Orabona

«Questo è uno degli angoli più belli del mar Ionio, uno dei posti più belli del mondo» dice Luigi disegnando nell’aria un gesto che abbraccia la costa fin dove l’occhio può arrivare. Il mare è tanto blu da sembrare finto; c’è chi fa il bagno, chi pesca, chi prende il sole e chi sta all’ombra dei pini piegati dal vento.
«E tu vieni spesso qua?»
«No, mai»
«Perché?»
«E che vengo a fare? Non ho tempo».

Luigi non ha tempo perché ha una missione importante da portare avanti. E, per quanto il Salento sia bello e casa sua sia a pochi metri dal mare, non può concedersi inutili distrazioni dalla sua marziale routine quotidiana.
Luigi Orabona adesso ha 78 anni e ha da poco terminato il suo romanzo L’Iveonte. L’ha iniziato a 18 anni e l’ha portato avanti esattamente per sessant’anni, dal 1961 al 2021.

Originario di Parete, in provincia di Caserta, ha lavorato per decenni a Varese, prima alle Poste e poi come maestro elementare, insegnando scienze e matematica. Dopo la pensione si è spostato per qualche anno nel suo paese natale nel casertano, e infine ha trovato il suo buon ritiro qua, nel profondo sud, in questo Salento metafisico, leggermente appartato dal casino dell’ultraturismo, in un posto che si chiama “Vacanze serene”. Luigi abita a Nardò, in via Omero.
«E a Varese sai dove abitavo? In via Dante».
Dovunque si trovasse, prima e dopo aver conosciuto sua moglie – l’amatissima Lisa Beatrice – qualunque lavoro facesse, qualsiasi piega prendesse la sua vita, Luigi per sessant’anni ha scritto, ogni giorno, il suo romanzo.
Ma chiamarlo romanzo non rende. Le numerose volte che gli ho chiesto di riassumerlo o di spiegarmelo non ne siamo mai venuti fuori. La definizione migliore che mi ha dato è «Dentro c’è tutto». Pausa. «Tutto».

Ho iniziato a parlare con lui mesi fa, anche se ero sulle sue tracce da oltre un anno. Non è stato facile scovarlo: è apparso ogni tanto sulle cronache locali e anche nel web si trovavano indizi della sua esistenza. Discussioni in alcuni forum, poesie, commenti, trafiletti sui quotidiani. Nei pochi articoli a lui dedicati nel titolo è sempre specificato “maestro elementare”. A corredo una sua foto con la faccia seria, quasi imbronciata, e nell’occhiello qualche dettaglio folkloristico da personaggio fuori dalle righe. La figura del maestro elementare è un topos del giornalismo capace di evocare quella provincia italiana fucina delle cose più strane ma rassicuranti, perfetta per gli articoli tappabuchi dei rotocalchi.
Più raccoglievo indizi e più mi chiedevo chi fosse veramente questo Luigi Orabona. Esisteva davvero? Poi ho trovato un numero di telefono.

Luigi Orabona adesso ha 78 anni e ha da poco terminato il suo romanzo L’Iveonte. L’ha iniziato a 18 anni e l’ha portato avanti esattamente per sessant’anni, dal 1961 al 2021.

«Hai spazio in casa?» mi chiese in una delle prime telefonate.
«Sì, abbastanza. Perché?»
«Perché voglio regalarti il mio romanzo».

Qualche giorno dopo il corriere ha suonato, sono andato ad aprire e ho sollevato un pacco molto pesante che ho faticosamente trascinato in salotto: otto grossi volumi dal dorso giallo per un totale di 8800 pagine. Messi in piedi uno sopra l’altro gli otto tomi dell’Iveonte sono alti quasi mezzo metro e pesano 10 kg: più o meno quanto un bambino di tre anni.

«Sono 14 milioni e 276mila caratteri, questo significa che è il romanzo più lungo della storia. È più lungo della Ricerca del tempo perduto di Proust, ed è lungo 11 volte i Promessi Sposi».
I numeri sono un’ossessione per Luigi; per ogni volume tiene sempre conto di quanti caratteri ci sono, quante parole, quante pagine, quanti capitoli.
Se dovessimo valutare solo le dimensioni dell’opera e l’incredibile ambizione, usando come metri di giudizio il peso e le dimensioni della sua fatica letteraria, Luigi Orabona sarebbe senza dubbio il più grande scrittore italiano vivente. Eppure, al netto di una ferrea disciplina, sembra averlo fatto senza sforzo, mosso da una passione bruciante e da una vera e propria “urgenza”: parola quasi sempre abusata, ma in questo caso aderente alla realtà. Per Luigi scrivere è davvero una questione di vita o di morte, una necessità fisiologica.
«Io ho bisogno dello scrivere, come i miei polmoni hanno bisogno di ossigeno. Restare senza scrivere è come vivere senza sogni e senza ideali».

Sessant’anni di lavoro, oltre 1300 personaggi per centinaia di trame ambientate in più galassie, “le quali vengono a incastonarsi nella trama principale dell’epico racconto come preziosi episodi permeati di raro pathos” come scrive lo stesso Luigi nella quarta di copertina.

Spesso si parla di romanzi-mondo: ecco, quello di Luigi è un romanzo-galassia.
Ma di cosa parla? Se volessimo limitarci a definizioni da critici letterari si potrebbe dire che è un’epopea mitologica, un romanzo fantasy con avventure e storie d’amore fuori dal tempo, con un eroe protagonista, Iveonte. Ma non siamo critici letterari, e ancora meno siamo gente che vuole limitarsi. Luigi è il contrario del limite: quando parla dell’Iveonte lo presenta semplicemente come “la più avvincente epopea di tutti i tempi”, letteralmente una reinvenzione dell’universo, e quando parla delle sue opere dice che per farle “ci vorrebbero dieci cervelli di Leonardo”. A volte sono sette, a volte di più: diciamo che usa il cervello del genio fiorentino come unità di misura della fatica, dell’impegno, dello sforzo intellettuale e dell’abnegazione necessaria per concentrarsi per tanto tempo su qualcosa di così intricato e complesso.

«Bello eh?» mi chiede ancora indicando il mare.
«Bellissimo».
«Andiamo via?»

Il mare è bello, ma il sole inizia a picchiarci la testa e decidiamo di andare a casa sua, che è davvero a due passi. Un giardino curatissimo con un lastricato in pietra, aiuole, siepi, palmizi e piante in fiore circondano una villetta a un solo piano, normalissima. Mentre parlo con sua moglie Lisa Beatrice vago con lo sguardo alla ricerca di indizi. Ci sarà qualcosa che lascia intuire che qua, dentro questa casa, è stato scritto un romanzo di oltre 14 milioni di caratteri e una trama impossibile da riassumere? No. Tutto è incredibilmente normale. Esattamente come Luigi: un simpatico signore in tuta da ginnastica, cordiale e per niente serioso come appare nelle foto, che ama le battute e i giochi di parole. Eppure non mollo: il diavolo è nei dettagli, ci dev’essere qualcosa.

«Bevi il caffè?»
«No, grazie. Un bicchiere d’acqua va bene».
In salotto c’è un mobiletto con ninnoli vari, piccole creazioni di cristallo, bomboniere, souvenir. Poi una credenza con i servizi di piatti, bicchieri e porcellane. Nella libreria enciclopedie di ogni genere, di quelle che si usano più per arredare che per essere consultate; ma nessun altro libro a parte quelli scritti da Luigi.
«C’era un’altra libreria», mi spiega Lisa Beatrice, «ma l’abbiamo messa via».
Alle pareti quadri di nature morte e paesaggi qualunque, poi un mazzo di carte («la sera, dopo cena, giochiamo a Scala quaranta»), qualche oggetto indispensabile, un divano e un televisore («non lo guardiamo quasi mai») e poco altro. Non è la scenografia che mi aspettavo.

“Sono 14 milioni e 276 mila caratteri, questo significa che è il romanzo più lungo della storia”

Più fisso quegli oggetti così normali più capisco che forse è proprio questa la chiave del mondo di Luigi, l’ex maestro elementare che per tutta la vita ha vissuto migliaia di altre vite in diverse galassie. Più la sua vita qua, sul pianeta Terra, era normale e ordinaria, più era spettacolare ed epica la vita di Iveonte, l’invincibile guerriero. La sua ordinaria quotidianità sembra inversamente proporzionale a quella dell’epico e avventuroso mondo del suo romanzo.
«Io sono portato a scrivere soltanto ciò che è considerato inconoscibile oppure è frutto della mia pura fantasia» mi dice mentre apre il frigorifero più grande che io abbia mai visto per prendere il latte. E aggiunge: «I personaggi di Iveonte non sono ispirati a persone realmente esistenti. Quando lavoro, volo sopra il mio bianco cavallo alato, desideroso di estraniarmi dalla realtà e di rifugiarmi nel mio mondo interiore».

Questo significa che quando Luigi lavorava alle Poste, Iveonte si impossessava della Spada dell’Invincibilità nel Castello Maledetto e Kron ordinava ai gerark di distruggere l’impero dell’Ottaedro. Quando Luigi andava a fare le gite con la sua classe o partecipava a un collegio docenti, Iveonte combatteva eroicamente il malvagio mago Zegovut nella sua dimora di Illuxis. E mentre faceva un trasloco, spostando pacchi e scatoloni, Iveonte incontrava Tupok, il signore del Potere Cosmico, nel regno di Potenzior.

Quando tento di approfondire questo aspetto, quello della sua doppia vita, lui non mi segue, sminuisce, sorride, non pare interessato.
E va bene: cerco indizi altrove. Ad esempio tra le sue poesie. Perché, oltre ad avermi regalato l’Iveonte, Luigi mi ha inviato anche una sua raccolta di centinaia di liriche con migliaia di versi. «La raccolta in totale comprende 720 poesie e 27.760 versi. La mia intenzione è di terminarla e in quel caso arriverei a superare i 30.000 versi, ovvero il doppio di quelli della Divina Commedia, che ne ha 14.223».

Comunque, mentre in aereo sorvolavo la Puglia per andare a incontrarlo, leggevo queste sue poesie. Ne ha scritte soprattutto d’amore, tanto da definirsi “il poeta dell’amore”. Ma ce ne sono anche altre più introspettive. Una si intitola “Voglia di non essere”, che tra i primi versi dice: “voglio sentirmi libero / senza preoccupazioni, / svincolato perfino / dalla mia reale esistenza. / In realtà intendo vivere / completamente privo / di qualsiasi sensazione, / immerso nell’essenza / del mio non essere / e avvinghiato stretto / a ciò che non esiste / per smettere di sentire / attraverso i miei sensi”.
In “Sono stanco” esordisce con: “Sono stanco / di continuare a sentirmi dire / che la vita va presa per ciò che è”.
Ancora, in “Vivere di sogni”, ricorda di quando “Ragazzo e spensierato, / ero solito rintanarmi nelle favole della nonna”, per poi ripercorrere l’infanzia, la giovinezza e l’età adulta, dove “Adulto e pensieroso / trascorrevo la mia vita / dedito ai miei doveri”. E infine (ma si potrebbe continuare) in “Sentirsi poeta”: “Sentirsi poeta / è come vivere un’altra esistenza / parallela a quella normale / e dedita alla quotidianità”.
Il mondo dell’Iveonte da una parte; e la vita quotidiana, il tempo che passa, il lavoro, le bollette da pagare, dall’altra. Da una parte la fila al supermercato e il bollo auto, dall’altra la circoscrizione spaziale di Maser e Iveonte che eroicamente libera Rindella dalla malia dello sciamano Turpov.

Luigi versa il latte nel caffè e io gli chiedo quanto c’è di autobiografico in quelle ottomila pagine e quanto la sua vita esterna abbia influito nelle vicende del romanzo: praticamente nulla, dice subito.
«Nell’andare avanti con il mio Iveonte io navigavo nel mare della fantasia; invece gli eventi che mi coinvolgevano si svolgevano nella realtà, a volte amara a volte accettabile».
Allo stesso tempo, ammette che il personaggio di Iveonte, l’eroe protagonista dell’epopea, ovvero il guerriero invincibile, è quello che avrebbe voluto essere: «Ho creato il mio Iveonte appunto per fargli compiere quelle gesta che non mi sono permesse nella vita quotidiana. E poi, non è un nome bellissimo? È la prima cosa che ho pensato, il nome. Sapevo che l’eroe doveva avere un bel nome. Così ho inventato Iveonte. Poco tempo fa ho scoperto che c’è una ragazza nera su Facebook che si chiama così, Iveonte Whait, ora adolescente».

“Sono stanco / di continuare a sentirmi dire / che la vita va presa per ciò che è”

Quando Luigi ha iniziato l’Iveonte, scriveva a mano su quaderni, per poi ricopiare tutto con la macchina da scrivere. All’epoca aveva letto Salgari e Verne, ma fu la lettura dei poemi epici a fargli capire che non poteva accontentarsi di una sola vita, di un solo paese, di un solo pianeta, di una sola galassia.
«In realtà L’Iveonte non è il primo romanzo che ho scritto. Alle scuole medie scrissi sui quaderni circa trecento pagine dal titolo Le genti del Continente Maledetto attraverso i secoli che narravano le gesta degli abitanti dell’ipotetico continente scomparso di Lemuria. Non so che fine abbia fatto. In seguito alla lettura dei poemi l’Orlando Furioso di Ariosto e la Gerusalemme Liberata di Tasso decisi di crearne uno tutto mio, desideroso fin dall’inizio di farlo diventare l’opera epica più accattivante e coinvolgente di tutti i tempi».

Dalla piccola Parete, paesino in provincia di Caserta che all’epoca aveva quattromila abitanti, Luigi si trasferisce al nord, dove lavora per otto anni alle Poste. È là che conosce Lisa Beatrice. Si incontrano nell’agosto del 1973 e si sposano sei mesi dopo, nel marzo del 1974.
«Al matrimonio non invitammo nessuno, né parenti né amici. Ci fecero da testimoni il sagrestano della parrocchia e la signora che suonava il piano».
Successivamente verrà assunto come maestro elementare, lavoro che ha amato molto e che ha portato avanti con passione per 36 anni, senza però mai smettere di vivere in quell’altrove, senza mai smettere di scrivere.
«Eccettuate le rare volte che uscivo di casa con mia moglie, mi dedicavo alla scrittura delle mie opere per l’intero pomeriggio, ossia fino alle 20».

Molte ore, per decenni, necessarie a costruire un mondo incredibilmente complesso. Non solo per le tante avventure e i tanti personaggi, ma anche per la precisione maniacale con la quale Luigi ha inventato ogni singolo fantasioso dettaglio. Per averne un’idea basta sfogliare quelle che possiamo definire le pagine gialle dell’Iveonte, dove sono spiegati personaggi, creature e città presenti nel romanzo. Luigi ha inventato centinaia di pianeti e stelle, villaggi, popoli, etnie, gerarchie, luoghi misteriosi come la Valle dei sogni reali, dove si accede solo durante il sonno, ma dove ogni fatto avviene realmente, o il Varco Intercosmico, cioè il tunnel di comunicazione tra due universi paralleli.
I mostri sono descritti nei minimi dettagli: i Vectus ad esempio sono mostri stellari e “hanno un’estensione in lunghezza di venti metri e un diametro del corpo di cinque metri; mentre le loro braccia sono lunghe sei metri. La loro velocità è uguale a quella della luce, mentre la loro potenza distruttiva è di primo grado e può distruggere un’intera montagna. La gittata massima del loro potenziale energetico è di mille chilometri”.
Ci sono poi centinaia di oggetti parte dell’immaginario iveontiano, come lo “spost”, un “aggeggio manuale, usato dai sovrintendenti dei kosmicon per trasportare un mostro da un punto all’altro dell’impero. Una volta acceso, esso emette un raggio verde regolabile in lunghezza, che riesce a muoversi agevolmente all’interno dell’oculum per eseguire l’operazione accennata”.
Per non parlare della mappatura delle galassie e dei singoli luoghi, incredibilmente dettagliata. Ad esempio, l’Impero del Tetraedro, ovvero la parte di Kosmos in cui si stabiliscono le divinità benefiche, è formato da diciassette galassie suddivise in quattro circoscrizioni. Di ognuna conosciamo i singoli pianeti, le singole città e villaggi. Dietro un lavoro di questo tipo ci sono migliaia di ore a ticchettare sui tasti e uno spirito a metà tra il cartografo e l’impiegato del catasto.

Luigi mi spiega che negli anni è diventato sempre più difficile gestire tante trame e sottotrame, romanzi dentro altri romanzi, migliaia di luoghi, vicende intricate, nomi che spesso cambiavano e una linea narrativa così lunga: basti pensare che il protagonista, Iveonte, appare solo dopo 600 pagine.
«Tenevo sempre aggiornati i tre elenchi di nomi in ordine alfabetico, volendo evitare di creare dei doppioni».

La svolta arriva nel 2000, quando compra un computer. Da lì in poi tutto diventa più facile: cercare e sostituire un nome e tenere sotto controllo tutte le linee narrative. La parte più facile, dice, è scrivere: «Non programmo mai niente. Riparto sempre a occhi chiusi, completamente all’oscuro di quanto sto per scrivere. Quando digito la prima lettera, è come se io gettassi un secchio d’acqua su un terreno in pendio. Così, allo stesso modo dell’acqua che va formando tanti rivoli nel suo incessante scorrere, così la fantasia comincia a intrecciare le varie trame della mia impetuosa narrazione».

Gli chiedo se ora che ha finito l’Iveonte non senta un vuoto, visto che ha passato sessant’anni non solo a costruire minuziosamente quel mondo, ma a viverci dentro.
«Se devo essere sincero, al termine della mia immensa opera, non avverto alcun vuoto dentro di me, per la semplice ragione che gli episodi e i personaggi che la popolano sono rimasti nella mia mente e nel mio cuore, come se stessi assistendo al loro svolgersi in una situazione reale».
«E come hai capito di essere arrivato alla fine?»
«Ho preso coscienza della conclusione dell’opera non appena un senso di nostalgia e amarezza ha iniziato a pervadermi».
Nel finale Kronel, che è una divinità che si trasforma nella spada di Iveonte e se ne innamora, propone all’invincibile guerriero di andare nel tempo futuro a sconfiggere la cattiveria e il Male. Iveonte però rifiuta perché preferisce godersi finalmente la gioia e la tranquillità della propria famiglia.
«Da una parte avrei voluto che la storia continuasse, ma poi ho accettato la volontà del mio eroe, anche perché la mia tarda età non mi avrebbe permesso di affrontare le infinite peripezie a cui sarebbe andato incontro. E poi dovevo ultimare la Raubser».

E infatti Luigi, da quando ha terminato l’Iveonte, invece di riposarsi, si è dedicato completamente alla sua opera più ambiziosa: La Raubser, una lingua artificiale, che conduca l’umanità al monolinguismo.
Ha dedicato l’impresa ai “futuri bambini del nostro pianeta, con l’augurio che possano essi trovarsi un giorno nella condizione d’imparare la medesima lingua”. Frase che in Raubser si dice così: “Hai kurobik dont du aipl bulpes, voil guzev be udr paiur setalis gu kus unil oxeop ut taesi xez ser”.

L’idea iniziale, dice lui, gli è venuta perché aveva difficoltà a imparare altre lingue. Dunque, tipico ragionamento oraboniano, perché non inventarne una? È il 1993. Non contento di aver creato un gigantesco mondo immaginario dove vivere, Luigi decide di intervenire anche in questa realtà, nella dimensione dove vive con sua moglie, dove lavora, dove deve “prendere la vita per ciò che è”, quella “a volte amara a volte accettabile”, per migliorarla a suo modo. E allora ecco che si imbarca nell’invenzione di una nuova lingua, La Raubser. “La lingua artificiale che non teme confronti”, nonché “la più grande opera dell’ingegno creata fino ai giorni nostri” come da presentazione in pieno stile oraboniano.
«Direi che è una lingua quasi perfetta in ogni sua parte, risultando anche scientifica, come non lo è nessuna lingua parlata» spiega.

“Ho preso coscienza della conclusione dell’opera non appena un senso di nostalgia e amarezza ha iniziato a pervadermi”

Dopo aver pranzato con delle buonissime lasagne ci spostiamo nel suo studio. Mi immagino pareti ricoperte dalle mappe delle galassie da lui inventate e da incomprensibili scritte in Raubser; schemi complessi che collegano tutti i personaggi dell’Iveonte, oggetti bizzarri, pile di libri e manoscritti, fogli sparsi ovunque. Invece entriamo in una stanza spoglia e anonima, molto ordinata, direi minimalista. C’è una piccola scrivania con un computer portatile, una stampante e un telefono. Niente di cartaceo in giro, a parte due rubriche. Luigi, infatti, non legge mai sulla carta e ha buttato tutti gli appunti e i dattiloscritti dell’Iveonte e delle altre sue opere. Alla mia domanda «Perché?» risponde semplicemente «E che me ne facevo?». Lisa Beatrice conferma: «Butta tutto! A momenti butta anche le mie cose!». Alle spalle della scrivania il quadro di un gatto; al centro dello studio un divano e poi una piccola libreria che contiene ovviamente L’Iveonte, ma anche il gioco “Il paroliere”, i DVD della serie Il Trono di Spade. E nient’altro.
Mentre accende il computer Luigi si lamenta ancora del poco tempo a disposizione per portare avanti i suoi progetti. Completata la grammatica e la parte scientifica della Raubser, sta portando avanti il vocabolario, ma le parole sono tante e il tempo mai abbastanza. «Io alle 6 di mattina a volte inizio già a lavorare. Per me ogni ora di sonno è un’ora tolta alla vita. Dicono tutti: il sonno fa bene, il sonno è vita. Mah, per voi. Per me è una perdita di tempo!».
Gli chiedo se, a parte gli sporadici articoli sui giornali, qualcuno si è seriamente interessato alla Raubser
«No. Ad essere sincero, non ci sono stati né studiosi, né linguisti né curiosi a voler conoscere qualcosa sulla lingua da me creata. Ricordo solo che nel 1997 uno studente universitario di lingue mi scrisse una lettera».
Questo avrebbe forse demotivato chiunque, ma non Luigi, che è andato avanti con metodo e abnegazione totale e, invincibile guerriero amanuense e traduttore, ogni giorno si dedica alla stesura del vocabolario, seguendo una routine precisa. Esce raramente, cammina nel cortile di casa mezz’ora la mattina e mezz’ora la sera. Per il resto del tempo si dedica a inventare parole. «In media sei ore al giorno, dipende». Quando piove e non può camminare fuori allora mette della musica e balla da solo nel suo studio per mezz’ora.

Una volta davanti al pc, non resisto alla tentazione di chiedergli di creare una parola in Raubser insieme. È presto fatto: ci sono ancora molte parole non tradotte, quindi ne prendiamo a caso una: subbia.
Sì, nemmeno noi sapevamo cosa volesse dire e siamo andati a cercare nel dizionario: la subbia è uno scalpello a punta quadra per la lavorazione della pietra o di materiali duri.
«Non è proprio una parola fondamentale» osservo.
«Ma vanno tradotte tutte» mi fa notare Luigi. «Tutte» aggiunge.

Dunque traduciamo subbia in Raubser e ora il vocabolario ha una parola in più: “arfub”, ovvero subbia, infilata tra “arfosi” (osannare) e “arfukaof” (ortomercato).

Uno dei tanti punti di forza di questa lingua, secondo Luigi, è la sua semplicità. Concependo le regole grammaticali ha puntato alla facilità di pronuncia e all’economicità. L’idea era di mettere in una parola più informazioni possibili usando il minor numero di segni grafici. Inoltre, non voleva che fosse una lingua statica, ma anzi una lingua che permetta di “essere applicata secondo le proprie esigenze” e che “consenta ogni evoluzione possibile”.
Ad esempio, in Raubser è possibile esprimere concetti astratti o complessi per cui in italiano dobbiamo ricorrere a più parole – o anche crearli. “Simpatia per il lavoro” in Raubser è semplicemente “boilur”.

Una delle intuizioni più semplici e interessanti è quella per la quale ogni coppia di vocaboli che esprimono due concetti opposti si leggono al contrario. Per capirci, amore in Raubser è “met”, odio è “tem”. Oppure bianco è “favet”, e dunque nero è “tevaf”, grande è “dret”, piccolo è “terd”. E così via.

Ma non è tutto.
«Secondo te, come potevo ottenere nei nomi degli animali e delle piante, costituiti da poche lettere, la loro genealogia, comprendente la loro famiglia, il loro ordine, la loro classe, il loro tipo (nei primi) e la loro divisione (nelle seconde) di appartenenza?» mi chiede Luigi, come se io potessi rispondere. «Prima c’è dovuto essere tutto uno studio approfondito della tassonomia animale e vegetale. Lo stesso lavoro c’è stato per ottenere nei nomi degli elementi chimici, anch’essi costituiti da poche lettere, il loro simbolo, il loro numero atomico, il peso atomico e altre notizie che li riguardavano».
Ad esempio, acqua in Raubser è “ebas”. Poche lettere, che ci dicono però molto: B e S sono idrogeno (xavaB) e ossigeno (navaS). La E iniziale significa che gli atomi di idrogeno sono due, mentre la A che l’atomo di ossigeno è uno. Dunque, abbiamo la parola, ma anche la formula chimica.

Un metodo simile lo utilizza per la parte geografica. I nomi degli Stati ci danno diverse informazioni, come il continente di appartenenza, la loro sigla, i kmq di superficie e perfino la posizione della capitale indicando latitudine e longitudine. Il Modesmac, che forse in italiano conoscete come Brasile, ci indica che appartiene al continente americano (le ultime due lettere, AC), la grandezza del territorio e la posizione della capitale Brasilia. Anche qua, basta imparare delle regole piuttosto semplici e saper leggere in Raubser. Cosa che al momento ovviamente sa fare solo Luigi.

Luigi ha anche risolto l’annoso problema del plurale maschile in italiano: c’è il genere promiscuo, dunque ad esempio i neonati maschi sono “li bent”, le neonate femmine “li bentien”, i neonati al plurale sia maschi che femmine “li bentiel”.

Mentre scorre le pagine sul computer appaiono migliaia di parole ancora da completare. «Non ho difficoltà a creare parole: considera che nell’Iveonte ho inventato 1845 nomi, tra personaggi e luoghi». In effetti, scorrendo l’infinita lista dei nomi e dei luoghi dell’Iveonte si rimane affascinati dalla varietà e dall’inventiva: Kenust, Beriesk, Pornuk, Dolren, Admur (dio degli omosessuali), Kronel, Nurdok, Kreop (dio degli strapazzi, ex dio delle illusioni), Loifen, Oskup, Puzzud, Rapos, Parakosm (universo parallelo di Kosmos), Opirgos, Landipur, Xoran e così via. Il suo gatto invece si chiama Pippo.

“Hai kurobik dont du aipl bulpes, voil guzev be udr paiur setalis gu kus unil oxeop ut taesi xez ser”

«Io e mia moglie non abbiamo avuto figli. Ma forse è stato destino: questo mi ha permesso di avere più tempo per scrivere».
Chiedo a Lisa se ha letto l’Iveonte: «Certo, due volte! E mi è piaciuto molto».
Lei è la sua lettrice ufficiale da sempre, di tutte le sue opere, e l’ha aiutato a correggere alcuni refusi e a rendere più scorrevoli alcuni passaggi. Ma chi altro ha letto i 15 milioni di caratteri dell’Iveonte? La colossale epopea è stata letta di sicuro da una loro vicina di casa, («l’ha letto tutto d’un fiato», mi dice Luigi) e da una “amica di Facebook”, sua lettrice appassionata da vent’anni che negli anni ha seguito l’evolversi di questa galassia-libro. Di altri lettori o lettrici, non abbiamo notizie certe.
Gli chiedo se in tutti questi anni qualcuno, un collega magari, un amico o un parente, si sia interessato all’Iveonte, e anche alle sue poesie e alla Raubser.
«In verità, mai nessun mio collega si è preso la briga d’interessarsi alle mie opere. Al riguardo, non sono mai riuscito a capire se per gelosia, per invidia oppure perché davvero non avevano tempo di leggerle. Posso affermare che lo stesso atteggiamento c’è stato nei confronti delle mie opere anche da parte di amici e parenti. Quando gliene parlavo, mai nessuno si è fatto prendere dalla curiosità di conoscere le cose che scrivevo».

In una delle sue poesie introspettive tratte dalla raccolta “Sensazioni dall’inconscio” Luigi scrive: “Sono stufo di stare con persone che forse non meritano la mia stima e la mia fiducia, non interessandosi esse a tutto ciò che scrivo; anzi, preferiscono ignorarlo e si comportano come se io non ponessi mai mano alla penna”.

Allo stesso tempo, in passato ha tentato contatti con case editrici: ma si sa, gli scrittori sono tanti, i manoscritti sono migliaia e figuriamoci quando arriva un malloppo come L’Iveonte… Dopo diverse delusioni Luigi ha optato per la vendita online e l’autopubblicazione on demand: il libro cartaceo viene stampato solo nel momento in cui viene ordinato. Questo permette oltretutto di poter correggere eventuali errori o modificare alcuni passaggi e avere versioni sempre aggiornate dei volumi. Ciò significa che teoricamente esistono più versioni dell’Iveonte, anche se non sappiamo quante ce ne sono in giro – e se ce ne sono.

Con gli scrittori l’argomento libri venduti è sempre molto delicato, quindi mi ci avvicino con i piedi di piombo, ma capisco subito che a Luigi non interessa affatto.
«Più che il denaro che potrei guadagnare dalla vendita dei miei libri, in primo luogo m’interessa la loro lettura da parte di un vastissimo pubblico».
Per questo motivo nel 2005 intraprende un’altra missione senza limiti: mettere online tutte le sue opere. Si tratta di migliaia di pagine – per l’esattezza 2171 –, un sito enorme e labirintico, che decide di costruirsi da solo (www.luigiorabona.com). Impara il linguaggio del Web, l’HTML, e costruisce il suo sito che da allora aggiorna costantemente man mano che completa gli scritti o trova degli errori. Se vuole modificare una singola parola, individua la pagina che gli interessa tra le migliaia presenti, la apre con blocco note e interviene direttamente sul codice. Un metodo efficace e artigianale da abile scriba digitale.
«Ho imparato tutto da solo» ci tiene a precisare.

Gli chiedo di mostrarmi i file originali dell’Iveonte. Davanti ai miei occhi scorrono migliaia di file HTML: è un po’ come guardare il codice sorgente di Matrix. Le mappe che illustrano le galassie dove il romanzo è ambientato, con l’impero dell’ottaedro, l’impero del tetraedro, la galassia neutrale e tutti i vari pianeti, le ha realizzate con Paint.

Chiedo a Luigi se ha mai pensato di tradurre l’Iveonte nella lingua Raubser.
«Devo considerare la tua domanda uno scherzo? La Raubser non è uno dei tanti tentativi di lingua artificiale. In tutti i sensi, essa è superiore a qualsiasi lingua parlata. Quindi dovrei impararla perfettamente prima di tradurre Iveonte nella lingua Raubser. Inoltre, data anche la mia tarda età non avrei né le forze fisiche né il tempo materiale».

Lascio Luigi e Lisa Beatrice e il mare del Salento e qualche ora dopo sono in aeroporto che attendo il mio volo. Sfoglio ancora le poesie e capito su una intitolata “Oramai ci siamo”, dove Luigi affronta il tema per eccellenza, la morte: “Oramai si affretta il tempo che mi obbligherà ad affrontare la fase finale della mia esistenza” esordisce. Per poi prendere atto che a un certo punto le sue forze lo abbandoneranno e così “ogni intraprendenza attiva della mia prolifica fantasia”.

Guardo una sua mail di qualche mese fa con alcune fotografie di lui da bambino e da ragazzo. Nella mail mi raccontava della sua infanzia: “Mia madre era casalinga e mio padre aveva un piccolo negozio. Avevano conseguito entrambi la licenza di quinta elementare. Io e le mie due sorelline Rita ed Elvira ci ammalammo di una infezione viscerale. Loro morirono, mentre io ero quasi morto, per cui cominciarono a piangermi. Allora intervenne questo mio parente e gridò a tutti: Egli non è morto; anzi, vivrà e diventerà il più grande uomo di Parete!“.

Luigi proviene da una famiglia numerosa e ha avuto un’infanzia costellata da morte e dolore. “In famiglia, oltre a me e le mie sorelline morte, c’erano ancora altri sette fratelli più grandi, tre maschi e quattro femmine. All’età di 15 anni, quando frequentava la terza media, una delle sorelle morì di meningite tubercolare. A quel tempo, anch’io, che avevo 6 anni, mi ammalai di tbc, ma nessuno se ne accorse e guarii senza fare alcuna cura. Lo venimmo a sapere solo anni dopo. Io e i miei fratelli in seguito ci ammalammo anche di epatite B: io ero divenuto portatore sano, mentre i miei fratelli ne erano rimasti affetti allo stato latente e morirono di cirrosi epatica, a causa della loro epatite non curata.”

Io e le mie due sorelline Rita ed Elvira ci ammalammo di una infezione viscerale. Loro morirono, mentre io ero quasi morto, per cui cominciarono a piangermi.

Mentre rileggo la mail squilla il telefono: è lui. Penso che voglia sapere se sono già partito, ma invece attacca con una raffica di cifre enormi che non riesco a seguire: un milione e settecentotrentaquattro mila, un milione e ottocentosedicimila e così via, che si mescolano agli annunci degli altoparlanti dell’aeroporto e al chiacchiericcio dei passeggeri in attesa intorno a me.
«Luigi, sono in aeroporto, non ti sento bene, è meglio se mi mandi una mail» gli dico. Pochissimi minuti dopo ricevo una mail con il numero esatto dei caratteri di ogni singolo capitolo dell’Iveonte. Riprendo in mano la poesia di prima, “Oramai ci siamo”, che si conclude con i seguenti versi: “Del mio tiepido essere vivente non potrà che restare soltanto il ricordo di amici e parenti”.

Se togliamo le poche ore di sonno, e le ore di veglia passate a scrivere, Luigi ha trascorso più tempo nel mondo dell’Iveonte che in quello reale. La sua opera smisurata e fantastica sembra il frutto di un totale rifiuto della “vita per ciò che è”. Partendo da Parete, Luigi ha fatto della propria vita un romanzo, e di un romanzo la propria vita. E finché ci sarà anche un solo lettore o lettrice che ne sfoglierà qualche pagina, quel romanzo esisterà. E se è vero, come amava ripetere un grande artista salentino, che “non bisogna produrre capolavori, ma essere capolavori”, Luigi Orabona è senza dubbio un capolavoro.
Morte in Raubser si dice kaud, dunque vita duak.

Gli elettrosensibili

Chi era lui? Era Edmond Dantès, Ed era mio padre. E mia madre, mio fratello, un mio amico. Era lei, ero io, era tutti noi.”

Mi ricordo che quando vidi per la prima volta, al cinema, V per Vendetta e sul finale – mentre esplodono torri e cattedrali – sentii pronunciare le parole di cui sopra, pensai due cose, un po’ sconnesse fra loro: che dovevo fermare la mia amica Susi – che pesava più di me e sapeva sempre di naftalina – da quell’idea che le era venuta in mente Mi raserò i capelli a zero tanto se ci sta bene quella tipa nel film ci sto bene pure io; e che il mondo iniziava a farmi paura. Sinapsi un po’ sconnesse.
Era il 2006, ci stava che Natalie Portman fosse ancora “quella tipa”. Non so.

Una dozzina di anni dopo, tra il 2017 e il 2019, ho seguito l’amica e collega Claudia Gori in un lungo caparbio viaggio dentro al tema dell’elettrosensibilità.
Chilometri e chilometri in giro per l’Italia, cercare su internet l’indirizzo mail del Ministero della Salute, intervistare una persona schermata dietro un paravento di protezioni e pannelli, tenere la modalità aereo sempre On, lasciare il pc e altri device in auto, conoscere persone che vivono senza telefono cellulare.

Braccialetto antistatico che consente di scaricare a terra l’energia elettrostatica del proprio corpo durante l’utilizzo di dispositivi elettronici.

La questione dell’elettrosensibilità, ad oggi, risulta spinosa per moltissimi aspetti: definita come “reazione organica ai campi elettromagnetici” (non si tratta soltanto di basse frequenza, generate principalmente da elettrodomestici e linee elettriche, ma anche di campi ad alta frequenza, prodotti soprattutto dalle tecnologie wireless e dai ripetitori radiotelevisivi), la partita dell’EHS (Electromagnetic Hypersensitivity Syndrome) si gioca sugli effetti non-termici dell’inquinamento da onde ad alta frequenza, che avvengono senza un apprezzabile riscaldamento cellulare, laddove la materia vivente reagisce non alla potenza del segnale ma al segnale stesso.

Cristina, affetta da ES e MCS, indossa i tessuti schermanti per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.

Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico. Più specificamente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel workshop sull’elettrosensibilità che si tenne a Praga nel 2004, indicò che il 2/3% della popolazione mondiale si attribuiva disturbi sanitari in esposizione a radiazioni elettromagnetiche sia di alta che di bassa frequenza. Molto suggestiva al riguardo fu una lettera all’editore della rivista di settore Bioelettromagnetics, da parte di due ricercatori europei, Örjan Hallberg e Gerd Oberfeld, dal titolo: “Will we all become electrosensitive?” (Diventeremo tutti elettrosensibili?). Se cercate online, la trovate con un clic e potrete mettervi lì, con della pazienza e il translator, a leggerla.

Possono esistere, dunque, delle persone a cui un forno acceso, quell’antenna che sono venuti a montare ieri, giù, dietro al capanno dello zio Luciano, o un telefonino che vibra nuocciono al benessere fisico.

Fin qui, spero, tutto chiaro.

A me perlomeno – quando uscivo, col taccuino rosso e delle registrazioni vocali da 68 minuti l’una, da alcuni studi medici romani, e poi dalla sede del CNR di Bologna, gagliardo e consapevole – tutto questo era diventato chiaro, appunto, lapalissiano.

Eppure…

Era la fine di un’estate torrida, io e Claudia ci muovevamo spediti fra diverse regioni d’Italia in pochi giorni, ascoltavamo playlist indie in macchina, il cruscotto era pieno di cavetti, adattatori, cuffie, i-pod, ci sentivamo appesi ai fili, forse un po’ in colpa, forse un po’ schiavi, forse un po’ inermi, e ricordo i panorami boschivi del Trentino, un pomeriggio di un cielo scaraventato d’azzurro e la voce di Tommaso Paradiso quando era ancora nei The giornalisti che cantava un refrain di cui sbaglio sempre le parole.

Erika, 53 anni, indossa gli abiti schermanti che usa per uscire.

Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.

Un bilocale asettico appena fuori dal centro abitato di un paesino pedemontano, arredato da una cavillosa serie di pannelli fai-da-te, appiccicatialle persiane della finestra di camera che si affaccia su un giardinetto ben curato. Tute scure fatte con tessuto schermante, cavi isolanti di 6 metri per il telefono fisso, scarpe avvolte nel cellofan, prototipi di apparecchi per l’isolamento di laptop e schermi tv, letti imbottiti, pareti oscurate, prese elettriche coperte.

Ricordo, fra il malessere e il silenzio del suo appartamento al piano-terra in zona Garbatella, a Roma, chiusa nell’ombra delle monumentali costruzioni da working-class del rione popolare sulla via Ostiense, la storia di una donna che non dormiva da nove anni: dieci piani di palazzo fra antenne, onde, flussi invisibili che la lasciavano ad occhi aperti, in veglia, con interminabili cefalee.
Diceva che per trovare pace doveva rifugiarsi, ogni week-end, nella casa del suo compagno, in Umbria: pensavo al suo esodo del venerdì sera, me la immaginavo calcolare minuziosamente i tempi per stare in auto il minor tempo possibile, arrivare in quel luogo ameno nel verde, abbracciare l’uomo e sdraiarsi finalmente in silenzio, massaggiandosi le tempie.

Le persone elettrosensibili sono spesso costrette a proteggere le loro case con pannelli di alluminio attaccati alle persiane.

Ricordo la storia di un’anziana coppia dell’alto Veneto, lei premurosa e tenace nel supportare quell’apparente incomprensibile disagio del marito, e gli anni passati a dormire in macchina, quando l’uomo, dopo cena, scappava in preda ad una morsa implacabile fra le tempie e la nuca. Il forno a micro-onde, il router che la ragazza del piano di sotto accendeva per scrivere la tesi a tarda notte: ogni dispositivo gli era nocivo. Ascoltavamo in silenzio la storia di lei che d’inverno lo rincorreva sul pianerottolo raccomandandosi di prendere almeno il cappotto. Poi tornava in casa e si metteva a pregare.

Ricordo tante vite, in piccoli spazi: a me sembravano oasi, ma calpestabili, non protette.

Individui, sentinelle, che si tenevano in contatto tra loro alla bell’e meglio, scambiandosi rimedi fai-da-te, elargendosi consigli, dandosi conforto, organizzando gruppi e riunioni.
Una solidarietà fra vite stravolte nelle abitudini, catapultate altrove: ciò che in precedenza era la normalità – un cinema, il teatro, un ristorante, i mezzi pubblici, le scuole – a loro, era diventato alieno, faticoso, straziante.

Si confonde in me l’allora e il presente, ne perdo i confini e prima di continuare a scrivere, guardo le inferriate del mio terratetto nella campagna fiorentina, zona rossa, prendo un respiro, tocco una parete, mi reimmergo in questa storia.

Telefono fisso dotato di un cavo di 6 m per consentire a una persona elettrosensibile di stare al telefono.

In molti avevano dovuto lasciare il lavoro, o chiedere permessi; altri avevano trovato sollievo solo nell’abbandonare le proprie abitazioni per trasferirsi in luoghi solitari, boschivi, più riparati dalle onde di antenne e ripetitori.
Scelte radicali, economicamente non accessibili a tutti, complicate da un punto di vista relazionale e affettivo.

Ricordo bene soprattutto la storia di Mattia, che in realtà non si chiama Mattia ma lui preferisce mantenere l’anonimato perché è giovane, ha una brillante carriera davanti, nel ramo dell’ingegneria, e vuole tenere il suo volto e le generalità lontane da un disagio che è, comunque, sociale.

Già, perché il problema ora è come calare l’elettrosensibilità all’interno della società tutta, che è come riflettere sul valore e sull’essenza di una malattia, su quando la si può definire come tale, e cosa succede in seguito.

Luisa, 50 anni, ritratta nel suo bagno dove ha costruito una sauna fai-da-te per ripulirsi dalle tossine.

Con una Risoluzione del 2009 (art.28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità, al pari di quanto avvenuto in Svezia, per garantire adeguata protezione e pari opportunità. Al contrario, l’Organizzazione Mondiale della Sanità non ha riconosciuto l’EHS come entità nosologica (leggi: malattia): e questo impedisce la realizzazione di percorsi diagnostico/terapeutici declinabili dai sistemi sanitari degli stati afferenti. Di conseguenza, c’è una certa fascia nascosta della popolazione – la stessa del forno e dell’antenna dietro al capanno dello zio Luciano per intendersi – che può sentirsi priva di assistenza sanitaria adeguata e il cui malessere ricade sotto la parola ombrello di effetto nocebo, al cui sviluppo concorrono caratteristiche individuali ed influenze esterne, o alla generica definizione di “intolleranza ambientale idiopatica” attribuita ai campi elettromagnetici e caratterizzata da sintomi aspecifici, non riconducibili ad alterazioni organiche, ovvero non spiegati dal punto di vista medico.

Secondo Paolo Orio, Presidente dell’Associazione Italiana Elettrosensibili: «Bisognerebbe attuare dei corsi di aggiornamento in accordo con il Ministero della Salute per tutti gli ordini dei medici, con particolare attenzione per i medici di base, i pediatri, gli otorini, i neurologi, gli allergologi. Solo in questo modo riusciremo a fornire informazioni preziose finalizzate alla formazione della classe medica per affrontare con tutti gli strumenti possibili questa malattia ambientale. Bisogna ripartire dall’ABC. Cos’è una radiazione elettromagnetica, come interagisce con la materia vivente, che tipo di ricadute biologico/sanitarie a breve e lungo termine possono verificarsi, come posso diagnosticare ed approcciare dei percorsi di cura e prevenzione? È un lavoro enorme ma non più differibile».

Con una Risoluzione del 2009 (art. 28) il Parlamento Europeo richiamava gli stati membri a riconoscere l’elettrosensibilità come disabilità.

Le malattie ambientali, dunque, come necessaria fonte da indagare, oggi più che mai. Attraverso, ad esempio, l’istituzione di almeno una struttura sull’intero territorio nazionale dove fare ricerca e accogliere chi soffre, come auspicava il professor Giuseppe Genovesi, pioniere della “questione elettrosensibile”, vero e proprio punto di riferimento per moltissimi pazienti, quando, prima della sua scomparsa, nel gennaio 2018, nel suo studio di Roma lo intervistai per un’ora intera e alla fine, da sprovveduto e curioso, gli domandai «Che cosa servirebbe ora, secondo lei?». «Più studi, e più attenzione» disse.
Genovesi mi parlava delle sue ricerche, provava a spiegarmi in maniera chiara ma approfondita la correlazione tra flussi di calcio e campi elettromagnetici noti, come il WiFi, prendevo appunti, registravo note audio. I sintomi delle persone affette da Elettrosensibilità possono coinvolgere, a differenti livelli e gravità, il sistema nervoso, quello cardiovascolare, respiratorio, l’apparato scheletrico, il sistema visivo, acustico, olfattivo o digestivo, mi diceva.

Scarpe avvolte nella pellicola per coprire l’odore della pelle. Le tracce di agenti chimici sugli oggetti possono essere molto fastidiose per le persone affette da Sensibilità Chimica Multipla.

Sapevo che già negli anni ’60 del secolo scorso, in alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica fu introdotta come patologia la “malattia da onde radio”, e che nel 2011, anche sulla base degli studi del Dott. Lennart Hardell, lo IARC (Agenzia internazionale di ricerca sul cancro), facente parte dell’OMS, ha classificato i campi elettromagnetici da radiofrequenza come “possibili cancerogeni” per l’uomo; ma la situazione generale degli studi, oltre i confini del nostro paese, risulta comunque piuttosto vaga. Nel maggio del 2017 una mozione del senato belga promuoveva un celere riconoscimento dell’elettrosensibilità, il governo svedese e canadese hanno riconosciuto il disturbo come causa di invalidità funzionale, garantendo una serie di tutele e diritti, inerenti soprattutto all’ambito lavorativo, che permettono a chi ne soffre di svolgere in autonomia le proprie funzioni mantenendo uno stile di vita salubre e operativo.
Per il resto, poco altro.

Mattia mi è venuto incontro con un piumino nero lungo fino ai piedi. Ci siamo dati appuntamento in un bar del centro di Bergamo.

Lui ha scelto di convivere pacatamente con l’elettrosensibilità, guardando negli occhi la diffidenza altrui, persino quella degli amici, spesso restii a credergli. In mezzo a un concerto di tazzine e bicchieri tintinnanti, mi ha raccontato di quando per la prima volta si rese conto di avere un problema: aveva da poco dato un esame all’università, e una volta rientrato a casa fu colpito da una violenta serie di vertigini. Conosceva i sintomi dell’EHS perché dello stesso disturbo, in maniera molto aggressiva, soffriva da tempo anche la madre.

Alessandro, ingegnere di 28 anni, davanti al muro della sua camera da letto coperto da alluminio per proteggersi dalle onde elettromagnetiche.

Dopo aver compiuto una serie di accertamenti clinici, seppe che il suo stato fisico non era affatto e in nulla compromesso: fu un coinquilino a chiedergli, nei discorsi che si fanno quando ci si incrocia fra la cucina e la camera, se si era accorto dei ripetitori che avevano da poco installato dietro i giardinetti del loro palazzo.

Mattia ebbe un sussulto. Da quel giorno cambiarono molte cose nella sua vita: certe notti metteva il materasso in salotto per allontanarsi il più possibile dalle onde, quando cercava nuove case in affitto, guardava più che altro quelle nei centri storici, con mura vecchie, spesse, come quella in cui abita oggi, con la fidanzata – comprensiva e supportante fin dal principio – , nella Città Alta di Bergamo, ebbe la fortuna di essere assunto in una grande azienda che usa la connessione via cavo e non il WiFi.

Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene.

«Una benedizione…finché durerà». Sorrideva Mattia, mentre annotavo la sua storia. La stesse due parole che avevano suggellato un altro saluto, questa volta sulle scale di una bifamiliare nel vicentino: una ragazza dai capelli lunghi, color mogano, che sorrideva mentre le auguravo il meglio e mi ricordava di leggere tanti articoli che durante l’intervista aveva citato. Finché durerà.

Allo stesso modo – da dietro una ringhiera appena riverniciata di una villetta anni ’70 della bassa veronese – un’anziana signora che ci lasciava dei dolcetti fatti in casa, sospirava per la salute del marito, si affidava alle preghiere e in dialetto sussurrava, appunto, finché la dura.

La vita di Mattia, oggi, è un groviglio di accortezze, giorni buoni e altri meno, in compagnia di leggeri cerchi alla testa, sporadicamente riesce anche a usare WhatsApp. Come immagine del profilo ha una foto in primo piano davanti a un lago immerso nel verde. Indossa un cappello natalizio, lo sguardo consapevole dietro gli occhiali da vista quadrati e un sorriso coriaceo.

Un’antenna di Roma costruita con le sembianze di un albero.

Se stai male tutti devono vederlo. Se stai male ma non si vede, allora stai bene. Un pensiero pericoloso. E scivoloso, se mai dovessi trovarti a chiedere allo zio Luciano di spegnere cortesemente i dati o di farla finita di giocare a ruzzle perché si, insomma, sul serio… mi fa soffrire. Anche se non si vede.

…Comunque, in grazia ai santi, la mia amica Susi alla fine i capelli non se li rasò mai.
Io avevo trovato il coraggio di dirle quello che pensavo, senza filtri, perché le volevo bene. Poi a diciassette anni ci perdemmo di vista e – secondo le ultime notizie che ho di lei – vive a Marsiglia, ha un pavone domestico e un sacco di tatuaggi sulle dita.

Le prime cose sull’elettrosensibilità le ho scritte direttamente in auto, sulle note del mio smartphone, mentre Claudia guidava. Era la fine dell’estate e noi attraversavamo il nostro paese contraddittorio, si ascoltava Tommaso Paradiso, forse era meglio non farsi un’opinione troppo in fretta, non parteggiare, e insomma si esorcizzava un po’ la solitudine e la disperazione di quei racconti.

Il postino del mare

Questo è un reportage tratto dal primo libro della nostra Trilogia normalissima, “Gli ultrauomini” (che si può acquistare QUI, se vi va).
Visto che stiamo per uscire con il terzo volume della trilogia, abbiamo deciso di pubblicare questo pezzo anche qui, un piccolo regalo.
Buona lettura!

Quando paghiamo il conto al ristorante di pesce nei pressi del porto i proprietari hanno un occhio di riguardo per il mio commensale, il dottor Roberto Regnoli. Usciamo. Passeggiamo per il corso principale di Termoli. Ci rechiamo all’edicola in piazza, dove il dottore comprerà i magazine “Archeo” e “Pesca in mare”. Per strada siamo costantemente fermati da suoi amici o conoscenti: qualcuno in passato è stato operato da lui (un signore di una certa età lo ringrazia calorosamente per le cure che ha ricevuto a suo tempo). Per altri è semplicemente quello dei messaggi in bottiglia, il postino del mare, colui che raccoglie la singolare posta che proviene da altri luoghi e da altri tempi.

Il dottor Roberto Regnoli, 70 anni, possiede una collezione di circa ottocento biglietti arrivati dal mare. Sono i classici messaggi in bottiglia, di quelli che hanno fomentato l’immaginazione di bambini e sognatori, di scrittori e poeti, da Poe ai Police. Il dottore li raccoglie sulle spiagge di Termoli o quelle immediatamente confinanti. Regnoli non è termolese, e nemmeno è originario del Molise: è nato e cresciuto in una casa «A uno sputo dalle due torri di Bologna». Ma pur conservando una gradevole cadenza emiliana, dopo quarant’anni spesi a Termoli si considera oramai del posto. Qui è diventato una celebrità Quando gli chiedo come ci è finito un bolognese in Molise mi racconta che, appena terminata la facoltà di Medicina, il dottor Sabetta – suo mentore all’ospedale Rizzoli – gli propose: “Vuoi venire ad aprire un reparto di ortopedia a Termoli?”

Non ha dovuto nemmeno pensarci.
Ha salutato gli amici, la famiglia e la ragazza di allora, e la sua vita è ricominciata qui, dove ha fatto carriera come primario ortopedico. A Bologna ci torna sporadicamente, non gli è rimasto quasi nessuno. «Adesso son cinque anni che sono in pensione, ma allora ero appena ventiquattrenne. Fu una decisione che cambiò la vita. Un punto di non ritorno», mi dice. «Hai presente quei filmati in cui si montano le scritte “Poco prima” e “Poco dopo”?»

Qualcuno in passato è stato operato da lui. Per altri è semplicemente quello dei messaggi in bottiglia.

[Poco dopo]

La Nissan 4×4 mangia chilometri di strada deserta. Si vede solo qualche autotreno sulla corsia opposta. In alto, sul vetro del cruscotto, il dottore ha installato una piccola videocamera da auto. Regnoli è molto affascinato dalla tecnologia. Sorpassiamo Campomarino, poi Marina di Chieuti. Svoltiamo per una stretta stradina che si perde fra i canneti. Nel nulla compare una sbarra di metallo. Roberto scende dalla macchina e la alza. Passiamo. La rimette giù. L’asfalto è malmesso, corrotto dalle esondazioni del fiume Fortore: ormai il Molise lo abbiamo passato. «Quando sei a Termoli, se non ti sbrighi a schiacciare il freno dell’auto, è un attimo che arrivi in Puglia!» Scendiamo dalla 4×4. Il tratto di costa è lungo vari chilometri e arriva fino al Fortore. È solo uno dei luoghi di perlustrazione che a tappe Roberto batte ogni giorno alla ricerca delle bottiglie naufraghe. Con noi c’è il Piero, 74 anni, incappucciato per proteggersi dal vento e armato di due bastoni.

«La squadra è composta da tre persone», mi spiega Roberto. «Io e Piero siamo i cercatori, poi c’è l’informatico. Gestisce il sito, e via discorrendo». Se i cercatori operano sul campo, Antonio – un amministrativo dell’ospedale di Termoli, appassionato di internet e siti web – è quello che invece lavora in remoto. È il più giovane del gruppo, 64 anni, pensionato da poco, appassionato di programmazione: digitalizza ogni messaggio trovato dai cercatori nelle bottiglie e lo carica poi sul sito, con tanto di fotodocumentazione. «Sarà venuto in spiaggia un paio di volte», aggiunge il Piero, ex direttore di banca in pensione che invece col dottore ci viene sin dalla fine del 2005, quando l’avventura è cominciata. Piero e Roberto si sono conosciuti nel ’75: Regnoli era appena arrivato in paese. Condividevano prima la passione per la pesca, poi gli stessi amici, e infine questa missione. Se all’inizio battevano le spiagge solo nei fine settimana, ora che sono in pensione ci vengono tutti i giorni, cambiando area di volta in volta per effettuare ricerche più sistematiche. Sono infastiditi dal fatto che, proprio ora che hanno tutto il tempo da dedicare a quest’attività, di messaggi se ne trovano di meno rispetto agli anni passati.

«Questi mi servono per esaminare le bottiglie senza avere la necessità di chinarmi ogni volta sulla sabbia», mi spiega il direttore Piero, alludendo ai bastoni. «E poi mi sorreggono nel cammino».

Roberto mi dice che tutto il golfo che scende da Vasto a Punta Mileto è attraversato da fortissime correnti di superficie che accompagnano, proprio su quelle spiagge, bottiglie lanciate da molto lontano: il dottore conserva nella sua collezione messaggi arrivati dalla Turchia come dalla Grecia, dal sud della Francia come dalla Danimarca o da Nottingham.

Pare che già dal 310 avanti Cristo il mare e le sue correnti venissero indagati lanciando messaggi in bottiglia nel mare, e ancora oggi gli scienziati li utilizzano a questo scopo – ad esempio per studiare il cambiamento delle correnti artiche a seguito del disgelamento dei ghiacciai. Lo stesso Regnoli conserva fra i suoi ritrovamenti un biglietto arrivato dall’Istituto Oceanografico Croato che faceva ricerche di questa tipologia. C’è poi la questione del vento. Roberto definisce Termoli “la madre di tutti i venti”. Questo fa sì che su queste spiagge arrivino anche i messaggi legati ai palloncini: «Ne conserviamo parecchi, quasi sempre di bambini».

Nonostante vengano subito alla mente pizzini scritti da naufraghi o mappe del tesoro, la stragrande maggioranza dei biglietti ritrovati sono stati inviati per gioco, per esperimento: quasi tutti contengono il nome e il cognome del mittente più un indirizzo email seguito dalla scritta “Se trovi questo messaggio, scrivimi”. E Roberto assolve all’impegno di postino del mare con solerzia. Contattati gli autori, ne viene spesso ricompensato con foto, ricordi o racconti, che poi fa puntualmente caricare da Antonio sul sito.

«La squadra è composta da tre persone: io e Piero siamo i cercatori, poi c’è l’informatico»

«Qualche anno fa» mi dice, «Trovammo quello di una ragazza che ci diceva di presentarci con una rosa rossa sulla spiaggia di Peschici il 5 agosto. Il messaggio lo trovammo in ottobre. Aspettammo pazientemente che arrivasse l’estate, poi io e Piero comprammo una rosa e ce ne andammo al luogo dell’appuntamento. Ma in agosto Peschici è murata di gente! Ci siam fatti la spiaggia avanti e indietro, sotto al sole ustionante, cercando la ragazza con la rosa. Quando stavamo chiedendo informazioni a un bar, lei ci ha notato. Non è venuta di persona, ha mandato suo padre. Lei avrà avuto sedici anni. Non aveva portato la sua rosa! Ci siam fatti la foto assieme», mi dice. Poi tira fuori il cellulare per mostrarmela. Mentre le cerca mi dice che gli piace avere telefonini top di gamma: su quel cellulare ha vagonate di foto. Così tante che non riesce a trovare quella con la ragazzina.
«Sòccia, vabè… la trovi anche sul sito».

[Poco prima]

Fuori il cancello della villetta del dottor Roberto Regnoli campeggia la scritta “Attenti al cane”. Sotto la scritta, il disegno del faccione di Dogo, un Pastore del Caucaso. Entrando in casa sorprende il grosso ritratto sulla destra: il dottore col suo cane seduti in riva al mare. Da qualche anno Dogo è morto, ma è grazie a lui che è iniziato tutto.

Quando gli misero davanti il musetto di quel cane, ancora cucciolo, chiedendogli se avesse voluto acquistarlo, Roberto non dovette nemmeno pensarci. Solo dopo, sfogliando un libro su quella razza, scoprì che non era così facile occuparsene. Per cominciare diventano enormi. Sono protettivi e talvolta aggressivi. “Un Pastore del Caucaso può uccidere due lupi. Due Pastori del Caucaso possono ammazzare un orso”, era scritto su quel libro. I poveretti che passavano davanti alla casa del dottore attraversavano la strada, intimoriti. Dogo aveva necessità di muoversi libero, e dato che la mansuetudine non è contemplata fra le virtù di un cane del genere, era meglio portarlo a passeggio su spiagge non frequentate. Quelle selvagge, affollate di rifiuti riversati dal mare, in cui i turisti non fanno i bagni. Quelle difficili da raggiungere.

«Una volta ci ho trovato una bomba a mano, sai quelle da esercitazione? Son comunque pericolose! Ho dovuto chiamare gli artificieri. Un’altra volta un razzo di segnalazione che conteneva fosforo. E giù a chiamar la polizia. I poliziotti hanno dovuto parcheggiare lontano dalla spiaggia perché non avevano il mezzo adatto, poi li ho riportati indietro io. Sono spiagge che non batte nessuno, poi dopo ti ci porto. Non ci arrivi mica se non hai un fuoristrada con blocco differenziale 4×4», mi dice con orgoglio pensando alla sua Nissan.

Con Dogo e l’amico Piero, Roberto passava lunghe ore a respirare aria salmastra e, in una di quelle occasioni, si ritrovò sotto i piedi una bottiglia con dentro un messaggio. Niente di rilevante, solo un fugace stupore: c’era scritto “Porca puttana”. Gettò la bottiglia subito dopo. Così fece anche con la seconda, finché iniziò ad accorgersi di quanta gente, nell’era delle email e della messaggistica istantanea, si affidava ancora a questo tipo di posta – non solo per sfogare rabbia. Era la fine del 2005 e, con un messaggio proveniente dalla Croazia – che non è mai stato tradotto – cominciò ufficialmente la collezione.

«Una volta ci ho trovato una bomba a mano, sai quelle da esercitazione? Ho dovuto chiamare gli artificieri. Un’altra volta un razzo di segnalazione che conteneva fosforo»

Le passeggiate di Piero e Roberto divennero così un rito abituale. A Dogo si aggiunse un nuovo cane: il dottore aveva acquistato un altro Pastore del Caucaso – una femmina, stavolta – Kyra, deceduta sei mesi dopo il trapasso di Dogo (morta di crepacuore, dice Roberto). All’inizio del 2007 i cercatori trovarono 75 messaggi. Nel 2009 ne rinvenirono 102, spesso anche tre o quattro nella stessa ricognizione.

All’ingresso della sua villetta il dottore mi sta mostrando degli stivali di gomma («Il numero 45 ti calza bene?») e proprio in quel momento gli telefona Antonio. Roberto risponde dallo smartwatch, ché non trova il telefonino. Gli dice che sta per portarmi sulla spiaggia con Piero, e gli chiede se si vuole aggiungere così da farmi conoscere la squadra al completo. Ma a Termoli gira una brutta influenza, e Antonio deve stare a casa per quello che intuisco sia un parente ammalato. È stato lui ad avere l’idea del sito, portando al dottore fama internazionale – nei primi anni la missione di Regnoli si meritò un trafiletto sul “Times”. Ci fu un’ospitata in tv da Magalli, poi pagine dedicate su “Gente”, “Vero”, “La Gazzetta dello Sport”, e persino “Muy Interesante Junior”, un magazine messicano per ragazzi. Per finire una mostra con i migliori ritrovamenti, organizzata ogni anno a Termoli; anche quella fu un’idea di Antonio. «A noi cercatori, invece», chiosa il dottore, «spetta la parte divertente».

[Poco dopo]

Tira un vento gelido. Il mare è grosso e si slancia verso i nostri piedi raffreddandoci gli stivali. Camminiamo da circa mezz’ora, salendo e scendendo fra le cunette di sabbia e spazzatura. Nessuno parla. La spiaggia è piena di bottiglie, ma sono tutte vuote. Non è semplice identificare fra quel cumulo di rifiuti portati dal mare quelli che recano messaggi. Io avverto una certa stanchezza. Mi distraggo leggendo le varie marche d’acqua sparse per la spiaggia: Norda, Sant’Anna, Mia Vallestura, Acqua di Sepino – quella buona contro i calcoli renali. E poi quelle di aranciata, di birra, di succhi di frutta, e le taniche. I bottiglioni dei detersivi e quelli di grasso lubrificante. Arrivati alla carcassa di una vecchia barca alla deriva, decidiamo di tornare indietro. «Noi di solito continuiamo, ma per stavolta va bene così», mi dicono. Al ritorno andiamo più spediti. Roberto mi sorprende a osservare una lampara per la pesca: una volta fulminata il pescatore deve averla gettata in mare, e ora eccola lì, fra reti e cordame. Mi accorgo poi di grosse boe spiaggiate sull’arena. «Sono per la mitilicoltura», mi informa il Piero. «Non sai quante ne troviamo ogni giorno…». «Te lo dicevo», si aggiunge il dottore. «Su queste spiagge arriva davvero di tutto, e dai luoghi più disparati. Quando il Po esonda, la roba arriva qui!». Una volta i due trovarono un frigorifero quasi nuovo. Altre volte cartelli dei traghetti di Venezia, o un menu di un ristorante aquilano, o spazzatura proveniente dalla stessa Bologna che arrivò facendo il giro della penisola.

«E poi c’è la questione delle sculture», mi dice Roberto.
«Quali sculture?», domando.
«Non conosci le sculture?»
Il dottore tira fuori il telefono e grida: «Ok Google, chiama Silvio Marroni».
«Non ho capito», risponde la voce sintetica.

[Poco dopo]

Silvio Marroni non è in azienda, anche lui vittima dell’influenza. Ad aprirci ci sono però due dei suoi figli. La Italcom si occupa di arredo di interni per locali e negozi, uffici e abitazioni di lusso, con clienti anche influenti sparsi in tutta l’Italia. Roberto e Piero sembrano di casa e mi fanno strada, conducendomi attraverso un ampio magazzino in una sala riunioni che fa pure da showroom. Lì sono in bella mostra le famose sculture: oggetti dai colori vivaci e dalle forme più varie, tutti di materiali plastici, tutti provenienti dal mare, e tutti pezzi unici. Va detto: hanno un certo fascino. Roberto e Piero li lasciano in questa sala durante l’anno, per poi esporli durante la mostra d’agosto divertendosi a dare i nomi a ogni pezzo. Ci sono ad esempio “Le torri gemelle”: due sculture slanciate molto simili raccolte però in periodi diversi. «Non sono proprio uguali», precisa il direttore. «Sono sorelle, non gemelle, ma le abbiamo chiamate così». C’è poi una sorta di groviglio rosso acceso, schiacciato, che sembra pasta lunga. Loro lo espongono su un piatto di ceramica col nome di “Spaghetti al Ketchup”.

«Non sai quanti ci hanno chiesto come abbiamo creato queste opere», mi dice Roberto.
«Ci chiamano stronzi perché non si fidano del fatto che le troviamo già fatte così», precisa il Piero, sornione.
E in effetti la natura di questi oggetti pare misteriosa. Forse la plastica è stata sformata arrostendo al sole e poi levigata dall’acqua del mare? Non è dato saperlo. C’è una scultura che ha la forma precisa di una vagina, con tanto di clitoride. Nello showroom è stato messo al contrario, probabilmente per non turbare la sensibilità dei clienti.

«I messaggi più belli sono quelli d’amore», mi spiega Roberto. C’è ad esempio il ragazzo che sta per lasciare la ragazza e, rammaricato, affida i suoi pensieri nel mare: “Amore, sono seduto qui sulla spiaggia a guardare l’immensità del mare, che in questo momento è l’unica cosa che mi dà tranquillità”, declama a memoria Regnoli. C’è la donna che si rivolge al suo amore adultero: “Ho paura che presto questa relazione dovrà finire, ti voglio davvero troppo bene per andare oltre. È ora che guardi Vincenzo come un uomo sposato…”. La figlia che scrive al padre morto: “Ciao papà, è notte fuori ed io mi sono svegliata molto presto, all’improvviso … Forse perché ti ho sognato, forse perché mi manchi tanto…”. Ci sono poi messaggi meno poetici, come un bigliettino infilato in una bottiglia sul quale era scritto a caratteri cubitali “Voglio andare in pensione!”. Ci sono vari volantini pubblicitari: spam, come in tutti i tipi di posta. E poi messaggi religiosi o politici: il dottore ne trovò uno in cui si predicava in varie lingue l’indipendenza del Montenegro – quindi affidato al mare prima del 2006.

«Abbiamo provato a comunicare con il Guinness dei Primati per vederci riconosciuto il primato di questa collezione, ma non abbiamo ancora avuto risposta», mi dice il direttore.

Una volta in una bottiglia trovarono un messaggio in cui si leggeva “Chi mi contatterà dandomi prova di aver trovato questo biglietto, riceverà un premio!”
Roberto chiaramente contattò il mittente, e ne ricevette per posta un ciondolo e un “diploma di ritrovamento”. Un’altra volta trovarono invece un biglietto con una mappa e una lettera: dei giovani genovesi avevano fatto un giro dei Balcani in moto, e al ritorno, una volta imbarcati i mezzi sul traghetto che li riportava in Italia, hanno spedito al mare il loro itinerario e i loro pensieri (con tanto di progetti per il futuro: uno voleva fare il dottore). In quel caso promettevano, a chi avesse trovato il messaggio, una bottiglia di vino. Roberto e Piero andarono a riscattare il premio fino a Genova, al salone nautico.
«È stata una gita piacevole. Anche se i giovani avrebbero preferito che il biglietto lo trovassero due belle ragazze», scherzano i due.

“Ho paura che presto questa relazione dovrà finire, ti voglio davvero troppo bene per andare oltre. È ora che guardi Vincenzo come un uomo sposato…”

Quando organizzano la mostra al Castello, allestiscono anche il piano inferiore. Vi si scende oltrepassando un cancelletto che è chiuso ai minori: lì sono esposte le bambole.

[Molto prima]

A Termoli c’è una casa in fiamme. Il proprietario vive a Roma, ma una volta alla settimana scende per curare i rapporti con la sua clientela. Si trova in paese proprio quella sera in cui sente puzza di bruciato. Il fuoco ha preso tutto, per salvarsi è costretto a saltare dalla finestra. È solo un primo piano, ma l’urto col pavimento del cortile gli rompe la caviglia. È costretto a trascinarsi all’ospedale. Ad operarlo, Roberto Regnoli.
«Vedi te se è il modo di conoscere una persona», sorride il dottore. Non mi dice come si chiama quel vecchio paziente, ma usa il suo nome d’arte. Per tutti, infatti, è il Mago Umberto.

[Molto dopo]

Sul tavolino del bar ci sono le riviste “Archeo” e “Pesca in mare”; il dottore le ha appena acquistate. C’è poi una copia per me del libro “L’amore dal mare”, che Roberto ha autopubblicato raccogliendo i migliori messaggi che gli sono stati smistati dall’Adriatico.

«Il Mago Umberto è stata la peggiore sciagura che potesse capitarmi», scherza, quando gli chiedo dettagli su questo personaggio. «Gli ho salvato la caviglia e lui ogni tanto, per riconoscenza, mi devasta la psiche».
Gli domando chi può aver dato alle fiamme la casa del mago. «Evidentemente qualcuno che non era contento delle sue prestazioni professionali».

Il Mago Umberto è diventato oramai una sorta di consulente della squadra di Regnoli. Fra le tante cose che arrivano dalla spiaggia, non di rado ci sono infatti bambole vudù e fatture. Dei ritrovamenti fanno parte i bambolotti con gli spilli infilzati negli occhi e nel cuore, o alcuni limoni con sopra spillate le foto di due persone che si vogliono costringere a stare insieme per sempre. Il dottore me ne mostra le foto dal cellulare. Su una bambola è scritto a penna, sopra i vestiti infantili, un nome, un cognome e la dicitura “traditore”. Sul sito ci sono foto di bambole e fatture, con qualche spiegazione ricevuta dal Mago Umberto, ma il dottore sembra un po’ scettico a riguardo. «Ragazzi… Ci vogliamo credere? Ci vogliamo credere. Non ci vogliamo credere? Per me va bene lo stesso».

«Il Mago Umberto è stata la peggiore sciagura che potesse capitarmi»

Mi faccio fare una dedica sul libro.
«Sono sempre stato un cercatore», mi dice il dottore, firmando sul frontespizio del libro. «Da piccolo collezionavo figurine, tappini, pacchetti di sigarette a Riccione, poi ho cominciato a cercare pietre e poi pesci».
Nel 2004 pescò un tonno di oltre duecentocinquanta chili di cui è molto orgoglioso. Ci sono volute ore per prenderlo. Scoprirò che ne ha una foto incorniciata all’ingresso, una in studio, una che fa da sfondo al suo computer e una da qualche parte sul cellulare. «Il Big Game – la pesca al tonno – è una delle poche attività che faccio senza Piero. A lui non piace perché è una pesca d’attesa. Sono più le volte che non troviamo niente rispetto a quelle, rarissime, in cui troviamo qualcosa».

[Poco dopo]

«Anche stavolta, niente di niente», commenta il dottore dopo la ricognizione sulla spiaggia «Nessun messaggio!»
«Nada de nada», conferma il direttore.

Il dottor Roberto Regnoli, 70 anni, possiede una collezione di circa ottocento biglietti arrivati dal mare.

Risaliamo nella 4×4 per toglierci gli stivali. Mi guardo un’ultima volta in giro. La quantità di spazzatura che arriva qui da tutto il Mediterraneo (e oltre) è impressionante. Queste spiagge sono state abituate a ricevere dal mare lavatrici e pozzetti frigo, palanche e le onnipresenti cassette di polistirolo. Arrivano così tanti tipi di scarpe che Roberto ne ha fatto una galleria fotografica che mostra agli amici: un suo conoscente, musicologo in pensione, ne ha composto la musica di sottofondo. L’ha intitolata, su suggerimento del dottore, “Mare calzolaio”. I cercatori mi dicono che una volta, pochi anni prima, la provincia ha fatto ripulire completamente il litorale. «Tempo qualche mese e, come avevamo previsto, è tornato tutto com’era», mi dice il Piero. «Il problema non è pulire», aggiunge Roberto, «Il problema è non sporcare. La gente non è educata, in mare versa di tutto». Per provocarlo faccio notare che anche le bottiglie lanciate nel mare sono da considerarsi inquinamento. Gli chiedo: «Se un giorno smetteste di trovare bottiglie in mare, sareste contenti sapendo che la gente ha finito di inquinare, o ci rimarreste male perché sarebbe finita la vostra collezione?»
Roberto non ha nemmeno bisogno di pensarci.

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Il contadino di Babele

“Fondo Librario Documentario Riccardo Bertani” recita la targa sulla porta. È una piccola casa di cemento a Caprara, una frazione di Campegine, un paese di seimila abitanti vicino a Reggio Emilia. Di fronte alla casa c’è un orto in cui spuntano zucchine, pomodori e lattughe. E poco più in là un’aia su cui un tempo hanno scorrazzato oche e galline.

Secondo un articolo che ho letto recentemente su un quotidiano nazionale, Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da questa casa. Com’è possibile?

Quando viene ad aprirmi la porta, Bertani indossa i pantaloni di una vecchia tuta e un maglione sgualcito. Con lui c’è Domenico, un signore del paese di una decina d’anni più giovane, che si occupa dei convenevoli. Tra loro, si parlano in dialetto. Con me, parlano italiano. Distratto, Bertani mi stringe la mano, prima di fare marcia indietro e imboccare un corridoio stretto. Cammina lentamente, aiutandosi con un bastone. I suoi piedi sono avvolti da ingombranti bendaggi. Senza preoccuparsi di verificare se lo stiamo seguendo o meno, scompare dentro una stanza.

Dopo pochi secondi lo raggiungo dentro al suo studio, uno stanzino di una quindicina di metri quadrati. Tre delle quattro pareti sono occupate da librerie. Sulle mensole (a quanto pare un tempo reggevano forme di formaggio) ci sono statuette di divinità pagane e qualche foto di Bertani, un po’ più giovane, intento a ricevere un premio o a mangiare con gli amici. Inchiodato a un palo della libreria c’è un foglietto con una citazione di Tolstoj. Poco più in là un castello di medicine impilate l’una sull’altra.

Riccardo Bertani è un contadino di 88 anni che nel corso della sua vita ha imparato da autodidatta più di cento lingue. Ha redatto vocabolari di dialetti remoti e studiato lo sciamanesimo siberiano. Senza allontanarsi mai da casa sua.

Al centro della stanza troneggia una grande scrivania di noce, con un leggìo che regge un libro aperto. Bertani ci si accomoda dietro e mi fa cenno di sedermi su una delle tre sedie che stanno disposte lì davanti. Improvvisamente solleva la testa e mi trafigge con i suoi occhi azzurri: “Allora, cosa vuoi sapere?”

Non sembra abituato alla compagnia. Da quando il Comune ha trasformato la sua casa in un Fondo, delegazioni di linguisti e curiosi sono venuti a trovarlo, ma evidentemente lui non è ancora riuscito a superare l’imbarazzo di rispondere alle domande dei suoi ospiti, e tantomeno quello di farsi fotografare: “Mi farebbe piacere che mi conoscessero per le mie opere, non per le foto”, commenta. Quando gli chiedo di raccontarmi la sua storia apre prontamente un cassetto, tira fuori alcuni fogli graffettati e me li allunga: “Sta tutto scritto qui”.

La sua passione per le lingue risale all’infanzia, ma non ha nulla a che vedere con un’educazione convenzionale. Di fatto, ha abbandonato la scuola subito dopo le elementari, un’esperienza che definisce “castrante”. Gli strumenti per imparare invece li ha trovati in casa. Paese natale dei sette fratelli Cervi, forse i più celebrati tra i martiri della Resistenza, Campegine subito dopo la guerra diventò un luogo simbolo del comunismo italiano. A cena Bertani ascoltava suo padre, primo sindaco di Campegine nel dopoguerra, parlare di Stalin e di Lenin. La libreria di casa era affollata di autori russi.

Apprendista contadino di giorno, il giovane Bertani di notte leggeva Dostoevskij, Puškin, Gogol’ e Tolstoj. A vent’anni, mi racconta, imparò il russo grazie alle lezioni pubblicate sulla rivista “Notizie Sovietiche”. Si comprò un dizionario e una grammatica e cominciò a tradurre un libro di poesie dell’ucraino Taras Shevchenko, che era stato abbandonato a Campegine da qualche soldato passato da queste pianure negli anni della guerra.

Nei decenni successivi Bertani dice di aver imparato il bielorusso, il ceco, lo slovacco, il polacco, lo sloveno-croato, il georgiano, il mongolo, l’uzbeko, l’osseto e diverse altre lingue dell’ex blocco sovietico. Alcune erano usate in regioni remote – come il rutulo, parlato da ventimila persone nella Repubblica del Dagestan – e non esistevano né grammatiche né dizionari che potessero aiutarlo a decifrarle.
A un certo punto persino la Biblioteca Lenin di Mosca lo contattò per dare una mano con una traduzione dal yacuto, una lingua della Siberia nordorientale. “La lingua yacuta è antica: turca con elementi tungusi, manciuri e paleoasiatici. La parlano circa 500,000 persone. La traduzione mi riuscì”, mi spiega Bertani, e aggiunge: “Piacevo ai russi. Mi mandavano i dizionari gratis”.

“Sono sempre stato un contadino sbagliato. Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”

La lista di lingue crebbe: scozzese, francese, spagnolo, svedese, danese, norvegese, eskimo, finlandese, hausa (che si usa nell’Africa occidentale) e altre minoritarie come l’ainu, parlato sull’isola di Hokkaido in Giappone, o estinte come l’etrusco, che scomparve intorno al 50 d.C., Bertani dice di averle imparate su libri che ha comprato o che gli amici gli hanno portato dai loro viaggi. Invece si vanta di non aver mai imparato il tedesco, una lingua probabilmente legata a episodi infelici della sua infanzia.

Bertani sostiene di aver passato la maggior parte della sua vita in questa piccola casa contadina, con le pareti e i muri irregolari, svegliandosi alle tre di mattina per studiare e tradurre fino alle nove prima di andare nei campi a lavorare, con poca grinta: “Sono sempre stato un contadino sbagliato”, si schermisce, “Ogni volta che sentivo il vento soffiare nei campi, la mia mente cominciava a vagare per la steppa siberiana”.

Un paio di volte, con riluttanza, ha preso un treno per recarsi fino a un’altra città italiana per un seminario o una lezione all’università. “Io, un contadino, in cattedra. Loro, i professori, ad ascoltarmi”, ricorda con un ghigno, che si tramuta prima in un colpo di tosse poi in un lungo sospiro. Mi ricorda Salgari, che scrisse avventure di pirati nell’Estremo Oriente senza mai avventurarsi più in là dall’Adriatico. Però Salgari mentì sempre, raccontando di aver camminato attraverso il Sahara, incontrato Buffalo Bill in Nebraska e navigato i Sette Mari. Bertani, invece, sembra ammettere candidamente le sue lacune.

“Per parlare veramente una lingua devi passare del tempo nel luogo in cui è nata”, spiega, “Io non sono andato in nessuno di questi Paesi. Avevo paura, dopo esserci arrivato, di scoprire che il mondo letterario che avevo immaginato non corrispondesse a quello reale”. Non è mai uscito dall’Italia, nemmeno quando nel 1984 è stato invitato a Sochi a un misterioso Forum Internazionale per l’Unione Spirituale dell’Umanità organizzato dall’Accademia delle Scienze dell’URSS.

Quando gli domando come sia riuscito a fare quello che ha fatto, Bertani socchiude gli occhi e sospira di nuovo. Il suo compaesano Domenico, che è stato seduto in un angolo per tutta la durata dell’intervista, mi fa segno che non c’è più tempo. Mentre mi alzo dalla sedia e faccio per congedarmi, Bertani solleva la testa e quasi scusandosi mi risponde: “Non penso di poterlo spiegare. È come chiedere a quelli che fanno i calcoli a memoria come ci riescono.  Io, ad esempio, non so nemmeno la tabellina del tre”.

***

Tornato a casa, cerco di mettere ordine nei pensieri. Questa cosa delle cento lingue è vera? Scorro l’elenco di pubblicazioni che mi ha passato in un ciclostilato. Sono principalmente articoli e saggi pubblicati da case editrici minori: il Comune di Campegine, il notiziario dell’ANPI, la rivista “Il Polo” dell’Istituto Geografico Polare, qualche quotidiano locale e così via. Spicca un articolo sui popoli dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale pubblicato nel Grande Dizionario Enciclopedico UTET nel 1983. Ma non c’è una singola pubblicazione accademica. Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale? Non dovrebbe avere ricevuto una laurea onoraria, o qualcosa di simile?

Per scoprirlo, provo a rintracciare Jargal Molomjamts, una professoressa di lingue mongole all’Università Ca’ Foscari di Venezia, che nel 2007 ha scritto la prefazione a un dizionario mongolo-italiano di Bertani. Sfortunatamente, la segreteria dell’università mi risponde bruscamente che Molomjamts ha smesso di lavorare per loro molti anni fa e che non hanno modo di rintracciarla. La cerco sui social network, ma non ottengo risultati.

Se davvero Bertani fosse un genio, non dovrebbe essere stato riconosciuto come tale?

Prendo il telefono e chiamo Giorgio Iemmolo, un linguista che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi all’insegnamento delle lingue. “Più lingue impari, più facile ti riesce imparare la prossima, soprattutto se è imparentata geneticamente con un’altra che già conosci”, mi spiega, “È il caso degli iperpoliglotti, un termine coniato dal linguista Richard Hudson per definire le persone che parlano sei o più lingue. In campo accademico c’è poca ricerca su questi temi, anche perché i casi sono rari”.
Tra questi spiccano il poeta John Milton che parlava undici lingue e coniò più di seicento parole dell’inglese, il Cardinale Mezzofanti che insegnò arabo e greco all’Università di Bologna nella prima metà dell’800 e fu definito da Lord Byron “un mostro delle lingue”, e il linguista tedesco Emil Krebs, che visse a cavallo del 1900, imparando a parlare e scrivere 68 lingue e studiandone 120. Alla morte, il il cervello di Krebs fu sezionato e si constatò che la sua area di Broca, responsabile per il linguaggio, era strutturalmente diversa da quella delle persone normali.

Se si fa eccezione per alcuni celebri poliglotti della storia come Cleopatra, Nikola Tesla e Audrey Hepburn, nella maggior parte dei casi chi eccelle nell’apprendimento delle lingue è uno studioso di professione, o comunque qualcuno che si muove in ambienti accademici o a stretto contatto con i centri del sapere. Bertani, in questo senso, è una mosca bianca: “Uno dei punti straordinari di questa storia è che un signore con un’istruzione quasi inesistente abbia fatto un lavoro molto fine di estrapolazione di regole e confronti, simile a quello che duecento anni fa ha dato vita alla linguistica moderna”, mi spiega Iemmolo, “Ha inventato un metodo comparativo. Giusto o sbagliato che sia, non è questo il punto”.

***

Quando vado a trovarlo per la seconda volta, Bertani non si ricorda di me. Gli faccio notare che ci siamo già visti e lui risponde, laconico: “Viene molta gente”. Stavolta con lui c’è un altro amico, Luigi. Dalla reverenza con cui lo tratta è evidente che Bertani è il vanto del paese, una sorta di diamante grezzo da mostrare con orgoglio a chi viene da fuori. Pochi giorni fa, ad esempio, il quotidiano argentino Clarín è venuto a intervistarlo per verificare una delle sue ipotesi, secondo cui la lingua degli indigeni Ona della Patagonia è direttamente legata a una lingua in via d’estinzione che si parla sulle coste occidentali della Kamchatka, in Siberia.

Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia.

“Le lingue al centro evolvono, quelle agli estremi si cristallizzano”, mi spiega Bertani. Questo teorema mi sembra immediatamente troppo netto, assoluto. È un tratto abbastanza comune nel lavoro – e forse nel carattere – di Bertani. Nel corso degli anni, partendo dal suo studio delle lingue, ha avanzato l’ipotesi che l’America sia stata scoperta dai cinesi e che il popolo basco provenga dall’Asia. Su quest’ultima ipotesi trovo una lettera di un professore di Venezia che gli appunta: Ritengo che la documentazione acquisita necessiti di molto altro materiale prima di poter arrivare ad una qualunque conclusione.

Non è l’unico messaggio del genere che riceve. Su un’ipotetica etimologia della parola indiana beng, un esperto gli risponde: Vorrei esprimere qualche suggerimento metodologico e comunque consigliarle di approfondire ulteriormente la sua ricerca che, così com’è, mi pare presenti il fianco a delle obiezioni. In un’altra lettera, un decano dell’Accademia della Crusca chiarisce: Con franchezza le devo dire che assai rischiosi e impossibili sono i suoi tentativi di comparazione linguistica.

Bertani non si scoraggia mai. Continua a fare ricerca, studiare, tradurre e riempire decine di agende omaggio del Credito Emiliano con lemmi e caratteri di alfabeti lontani. Quando è stanco di una lingua o di una cultura, si sposta su un’altra, inseguendo la sua sete di conoscenza. Scrive dizionari dal georgiano, dal cincio, dall’orocio e dal gotico all’italiano, approfondimenti sui proverbi coreani e sui nomi propri persiani, in quel che presto diventa una bibliografia che contiene più di seicento pubblicazioni tra libri, saggi e articoli.

Quando ha un dubbio, si rivolge a colleghi linguisti e traduttori di tutto il mondo, che spesso si prodigano in complimenti sul suo lavoro. Porta avanti una corrispondenza fitta con un professore dell’Accademia delle Scienze dell’Unione Sovietica e con la bibliotecaria del Centro di Studi Zingari di Roma. Nei suoi archivi personali ci sono anche lettere di un docente giapponese, dell’Istituto di Cultura Italiano ad Amsterdam, dell’ambasciata vietnamita a Roma, dell’Istituto Linguistico dell’Accademia delle Scienze di Budapest.

La generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere

Stanno tutte in un armadio della Ludoteca della Biblioteca di Campegine, a pochi metri dai libri per bambini. Quando mi presento al banco accettazione e dico di essere venuto per fare una ricerca su Bertani, le due bibliotecarie sgranano gli occhi. Da quando è stato aperto il Fondo, mi confessano, Bertani le ha sommerse di libri, articoli e carte che loro hanno a malapena il tempo di catalogare. Ma subito si mettono all’opera: la generosità e costanza con cui questa comunità di campagna si prende cura di Bertani ricorda tempi passati, quando chi passava la sua vita a studiare era ancora considerato una risorsa e un bene da proteggere, curare. Dopo una breve ricerca mi mostrano il pezzo forte dell’archivio: due lettere scritte e firmate a mano dal padre dell’antropologia, Levi Strauss, che fa i complimenti a Bertani per una sua ricerca sul Genius Loci.

Ciò che filtra da questa maniacale e globale corrispondenza è il desiderio di dialogare con quella che Bertani considera la sua comunità di riferimento, ma ancor di più un bisogno sconfinato di conoscere, risolvere i dubbi che lo ossessionano durante la notte, mentre lui traduce nel suo piccolo studio e gli altri – uomini e vacche – dormono. 

“Prendi un albero, per esempio”, spiega Bertani, “Un contadino ci vede un olmo, una vite o un albero da frutto. Un cittadino ci vede un albero da viale o da parco. Una persona che vive nella foresta lo vede da un altro punto di vista ancora”. Uno degli aspetti più interessanti della ricerca di Bertani consiste nell’investigare il significato dietro a oggetti culturali apparentemente banali, lo stesso approccio usato da grandi semiologi come Roland Barthes o Umberto Eco.

Oltre a dizionari e saggi di linguistica, spulciando la bibliografia di Bertani, si trovano anche articoli sui ricci, gli indovinelli, la morte di Trotzkij e il Carnevale.

Questa bulimia intellettuale ha un doppio movimento. Il primo è rivolto verso l’esterno. “Per fare una buona traduzione bisogna conoscere anche la cultura, i costumi, i sentimenti e la storia di un popolo”, mi spiega Bertani, “Per imparare il russo, ad esempio, bisogna leggere il Canto della Schiera di Igor”. Seguendo questa filosofia, Bertani usa la linguistica come grimaldello per fare scorrerie nelle culture e nelle epiche di mezzo mondo. Studia la storia della Mongolia a partire da un carattere dell’alfabeto locale e si appassiona dello sciamanesimo degli Jukaghiri, una popolazione siberiana.

Ma il secondo movimento è sempre quello del ritorno alla terra. Come se, nelle notti di studio febbrile, il sorgere del sole gli ricordasse sempre che tra poche ore sarà di nuovo nei campi a lavorare. Bertani è un contadino e scrive per i contadini. Ecco allora articoli sul picchio e le zucche, sull’aratura dei campi e sulla funzione della stalla, sull’uso del propoli per curare l’asma e sui diversi nomi del ‘maiale’ in dialetto reggiano, oltre a trattati di erboristeria, botanica e zoologia (“Animali creduti ingiustamente malefici”, 2006).

Questo ritorno alla terra non è però mai nostalgico. È lui stesso ad ammettere di essersi allontanato presto dal comunismo (oggi si considera anarchico e tolstojano) e a dichiararsi contrario allo studio del dialetto reggiano nelle scuole dato che “i bambini non pensano più in dialetto”. Un suo saggio degli anni Novanta sulla provenienza centroeuropea della vacca rossa reggiana si è rivelato profetico: oggi la varietà è stata recuperata e produce uno dei Parmigiano Reggiano più ricercati e raffinati della zona.

Il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare

Fuori dalla finestra, la nebbia scende sul piccolo orto di Bertani, creando quella scenografia eterea che fa della Bassa emiliana un habitat naturale per la ricerca poetica. Basti pensare a Cesare Zavattini, Giovannino Guareschi, Antonio Ligabue, Luigi Ghirri, che hanno popolato il profilo piatto di queste terre con personaggi strani e un po’ lunatici. Forse per giudicare l’opera di Bertani sarebbe utile avvicinarlo a questi autori –visionari e anticonformisti – più che ai cattedratici dei grandi atenei italiani.

Ma non c’è tempo di investigare oltre. Quando il respiro del vecchio si fa di nuovo pesante, il signor Luigi mi fa il solito cenno con la testa, che significa: il maestro è stanco, è ora di andare. Mentre si congeda con una rapida stretta di mano, ho la netta sensazione che Bertani si senta sollevato all’idea che tra poco il suo studio sarà vuoto e lui potrà accendere l’abat-jour, tirare fuori l’agenda e dedicarsi alla traduzione degli scritti in caratteri runici che ha lasciato in sospeso la notte passata.