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L’allunaggio del sig. Taddio

Fuori servizio

Appena le porte della metro si sono chiuse, dalla cabina di comando ho sentito chiaramente un’imprecazione. Rumori secchi, plastici, seguiti da uno scalpiccio. Il conducente è uscito dal suo regno per raggiungermi nella carrozza dove intanto mi stavo accorgendo di essere l’unico passeggero. «Senti, devi scendere», mi dice. Chiedo spiegazioni. «Ho sbagliato a farti entrare, devi scendere», è il suo tentativo di chiarire la faccenda. È successo che lui ha aperto le porte per sbaglio e che io, preso dalla lettura del kindle, non ho notato la segnalazione fuori servizio sul treno della metro.

«Va bene», gli dico, «mi faccia scendere». Lui si avvia verso la cabina, poi si ferma. «E no! Se apro le porte per farti scendere salgono pure quegli altri!», e mi indica gli altri passeggeri, confusi sulla banchina. È in difficoltà, pensa a come risolvere l’empasse, maledicendo il mondo e il suo mestiere. Poi decide: «Ti faccio passare dalla cabina». È così è stato. Sono tornato sulla banchina e ho aspettato la metro successiva. Da circa un anno abito in una zona assai bizzarra.

Il treno metropolitano, quando non apre le porte per errore, riversa ogni mattina una bolgia di uomini in completo che poi si diversifica in folle contenute e infine in piccoli assembramenti, finché ogni dipendente non prende posto nella sua azienda. Alcune indicazioni aiutano i lavoratori a non perdersi fra le vie di cemento, informando i curiosi che ci sono fra gli altri gli uffici della Warner Bros, quelli appartenenti al gruppo McDonald’s, e la grossa sede della Nestlè Italia: se verificate l’indirizzo dietro la confezione delle capsule Nespresso che state aprendo, o dietro le pizze pronte della Buitoni che avete comprato per stasera, ci troverete la Via del Mulino, a due passi dalla stazione della metro.

«Io non avrei mai fatto la metropolitana così. È di un brutto che non finisce più. Sembra un pollaio!».
Gugliemo Taddio, classe 1941, è uno che non le manda a dire. Ha abitato questo posto negli anni Cinquanta, quando nessuno immaginava aziende e ristorantini, tantomeno la costruzione di ben tre hotel, qui, dove non c’era niente.

A undici anni aiutava suo padre fuochista e, appena adolescente, camminava a piedi scalzi sul riso messo a seccare nell’aia di una piccola cascina della zona: era il metodo antico e doloroso per girare i chicchi di riso al sole, e i ragazzini erano disposti a soffrirne le punture per intascare cinque o dieci lire. A diciassette anni è stato segretario della sezione locale della FGCI di Assago – la Federazione Giovanile Comunisti Italiani – poi di quella del PCI. Per dieci anni ha ottenuto, nello stesso paese, l’incarico come assessore sia alla pubblica istruzione che allo sport e al tempo libero sotto la giunta Tagliabue. Tuttora Taddio è presidente di una cooperativa edificatrice, e non mostra cenni di stanchezza. Ho chiesto a Taddio di farmi da guida in questo quartiere, di aiutarmi ad immaginare che cosa c’era prima di questo.
«C’era terra, terra, terreno e basta», mi dice. E, a due passi dal naviglio pavese, la piccola cascina di cui sopra. Ci si lavorava un pezzo di terra coltivata a riso, granturco e foraggi: era la Venina.

Cascina Venina è il nome della via dove abito, ed è il nome di tutta la zona secondo le carte del comune. Eppure ormai tutti si riferiscono a quest’area come a Milanofiori, dal nome del complesso aziendale che adesso la colonizza. A voler essere più precisi, Milanofiori Nord, così com’è segnato sui cartelli della metro.

Chi vive qui, rispetto agli impiegati che ci lavorano, è in minoranza; è nel loro territorio.

Chiedo al sig. Taddio se è più tornato in queste zone, magari per venirci a mangiare o per andare al cinema. Mi dice di no, che per quanto riguarda il cinema si trova meglio con quello di Corsico. E che per il mangiare, «giusto qualche volta i miei nipoti vogliono andare a quello lì, il Far West – ma io non ci vengo mai».

Il Far West sarebbe l’Old Wild West, uno dei ristorantini che vigilano, dal perimetro della Piazza degli Incontri, il cuore di Milanofiori Nord. Il sig. Taddio si incammina proprio verso la piazza. Lo seguo.

Il Nord Europa ad Assago

Abitare oggi in un’area ideata appositamente per i lavoratori è un’esperienza alienante. Qui tutto è pensato in loro funzione: ci sono esercizi di ristorazione – la maggior parte dei quali in franchising – dove i dipendenti vengono accolti all’ora dei pasti, del caffè e dell’aperitivo. C’è un asilo nido dove si possono lasciare i figli prima dell’orario di lavoro, c’è un negozio di abiti su misura, un parrucchiere e una palestra: in quest’ultima la mattina presto si possono scorgere decine e decine di iscritti, a fine allenamento, radersi la barba e annodarsi la cravatta. Chi vive qui, rispetto agli impiegati che ci lavorano, è in minoranza; è nel loro territorio.

Di giorno si vaga in una sorta di centro commerciale all’aria aperta, con tanto di Cinema Uci, un imponente Leroy Merlin e un sushi all you can eat. La sera, passato l’orario di lavoro, scompaiono tutti; tornando al mio palazzo bianco mi pare di essere in una sorta di villaggio turistico: tutto è perfetto, pulito, illuminato, ma in giro si sentono solo le cicale, i gracidii delle rane che hanno perso la via del naviglio e le gang di gatti che si massacrano fra loro. Come quando mi sono trovato nella cabina del capotreno della metro, mi sento da una parte un privilegiato, dall’altro ho la costante sensazione di essere in un posto in cui non dovrei essere. È per questo motivo che ho voluto incontrare il sig. Taddio di sera.

Dalle balconate di Piazza degli Incontri guardiamo gli edifici ultramoderni spuntati fuori negli ultimi anni. «Non c’era niente», mi ripete, osservando dall’alto dei pezzi di terra recintati in attesa del via libera per nuove costruzioni. Stringendosi nel cappotto mi accenna agli interminabili pomeriggi della sua infanzia passati a zonzo fra quei campi che segnavano ogni orizzonte. Si giocava alla lippa coi ragazzi della zona, o si rompeva qualche vetro col pallone. Sorride. Oggi sembra quasi di ammirare un panorama urbano nord europeo. Nella bassa milanese. Ciò contribuisce enormemente al senso di alienazione.

Indico al sig. Taddio dove abito, come a segnare un punto, a cercare un riferimento in quel campionario di finestre illuminate. In quel momento una signora sui quarant’anni ci si avvicina e chiede informazioni. – Quelle costruzioni sono case o uffici? Sono bellissime -, commenta. «Sono molto belle», deve ammettere Taddio.

Lui vive tuttora ad Assago, il comune di pertinenza di quest’area. Posto sulla soglia del Parco Agricolo Sud è uno dei paesini a tradizione contadina nati dalla fusione di più cascine, fra cui la Venina. Oggi Taddio abita in piazza Risorgimento, in paese. Quando ne parla, lo definisce involontariamente “Assago”, come se Milanofiori Nord non ne facesse parte, e in un certo senso, con la metro a una fermata dalla città, può capitare di sentirsi più milanesi che assaghesi. Ma il prezzo maggiorato del biglietto e la minore frequenza delle corse ricorda subito che no, non si è ancora a Milano.

Vive affacciato sulla piazza centrale, Taddio, che «bella è bella, per carità, ma quando si era di là era tutta un’altra cosa». Con la testa indica i luoghi della sua adolescenza. «Cosa mi manca? Prima di tutto la gioventù». Ride. «Eravamo una compagnia abbastanza affiatata».

In Cascina Venina vivevano tre famiglie in affitto che curavano i campi. Taddio conosceva tutti, ci abitava giusto accanto, dove c’era la fornace. «Si costruivano circa quarantamila mattoni al giorno». Suo padre aveva imparato il mestiere a Bucarest, dove gestiva una fornace ancora più grossa. Ci si era rifugiato quando era ancora giovane: l’Italia degli anni Trenta non era un paese per chi votava a sinistra. A Bucarest aveva conosciuto sua moglie, anch’essa italiana, ed insieme l’avevano messo al mondo. Prima la guerra, poi le politiche di Ceausescu, costrinsero la famiglia a tornare in Italia. Già nel convoglio che riportava in patria parecchi italiani, Taddio senior riuscì a trovare un nuovo impiego: direttore del personale e fuochista di un’altra fornace, a Cascina Venina. Da quel momento, il giovane Guglielmo Taddio ha vissuto ad Assago.

Nella fornace c’erano una quarantina di operai, la maggior parte dei quali erano friulani, «perché ci voleva una forza terribile per far funzionare quella produzione a quelle temperature». Era un lavoro che prevedeva una certa responsabilità, un mestiere pericoloso. All’epoca nessuno parlava di sicurezza né dei guanti che resistono alle altissime temperature. Taddio ricorda ancora che gli operai, per proteggere le mani, adoperavano pezzi di camere d’aria. Chiedo alla sua memoria di farci da guida.

Non ci sono più i friulani

Arriviamo a un grande parcheggio. Di terre coltivate ne sono rimaste ben poche. Niente più campi, ma qualche orto striminzito. Niente più Friulani: la fornace è stata smantellata già da quarant’anni, dato che in zona non c’era più argilla per fare i mattoni. Così come è stato smantellato il lungo camino in cui correvano i fumi del carbone. Dei comignoli ci sono ancora, ma sono quelli della centrale di teleriscaldamento che adesso veglia la zona con i suoi tralicci. Un pezzo della vecchia fornace resiste, anche se è stata ridipinta ed ora è adibita solo ad abitazione. Ci vive ancora una delle tre famiglie che occupavano la cascina ai tempi del signor Guglielmo.

«Si era in venticinque giovani, quando eravamo qui. E quando ci si muoveva, lo si faceva tutti in gruppo, a piedi o in bici. Si andava al cinema di Gratosoglio o si arrivava a prendere una Coca Cola al ristorantino della Cascina Bazzana, che aveva anche la televisione». Erano i primissimi anni Sessanta. «Quando andavamo a scuola, in paese, posteggiavamo le biciclette nel cortile del macellaio. Prima di tornare a casa trovavamo nel cestino delle nostre bici panini con carne bollita: il macellaio era un parente di uno del nostro gruppo, ci si aiutava molto, a quell’epoca».

Venina, Bazzana, Bazzanella. Assago non era nient’altro: un conglomerato di cascine seminate fra i campi.

Ogni paio di giorni una Giardinetta arrivava in Cascina Venina dal paese per portare pane caldo e prime necessità agli abitanti. In zona non c’era nemmeno una chiesa. «La domenica alcuni dei grandi ci insegnavano a ballare, così poi noi insegnavamo agli altri. Ogni tanto il sabato sera chiamavano un cantante in Cascina Bazzanella e si andava tutti a danzare». Venina, Bazzana, Bazzanella. Assago non era nient’altro: un conglomerato di cascine seminate fra i campi. Lo stesso comune, gli uffici che sono in centro, occupano gli spazi di una vecchia struttura agricola. Niente scartoffie e, al loro posto, circa duecento mucche.

Oggi Assago è un paesino evoluto e conosciuto ai più per il Forum, il palazzetto dove si esibiscono gran parte degli artisti internazionali che passano per Milano, da Lady Gaga a Madonna, dai Muse ai Coldplay. Il Forum ha una tale importanza che vanta una apposita stazione della metro verde: sommata a quella di Milanofiori Nord fanno ben due fermate di metro per un unico paese di circa novemila abitanti – per capirci: se tutti gli assaghesi andassero a sedersi al Forum, rimarrebbe qualche migliaia di posti vuoti.
Mi è capitato di origliare discorsi di gente per cui Assago è il forum. Non contemplavano l’esistenza di un centro abitato dietro al palco dei concerti. Eppure esiste e rappresenta uno dei “comuni virtuosi” d’Italia; un comune sostanzialmente prospero, che deve parte della sua ricchezza alle entrate che provengono da tutte le aziende sparse sul suo territorio – in particolare, va da sé, quelle raggruppate nella zona Milanofiori. «Solo da quest’area, il comune incassa milioni di IMU ogni anno», mi informa Taddio.

Ruderi fra le torri

Seguo i ricordi del signor Taddio per una stradina che, partendo dal Forum, conduce fra i campi, fino ad arrivare ad un vecchio, bellissimo rudere. Era la Cascina di Sant’Ilario. «Un giorno il messo comunale mi chiese la cortesia di portare un telegramma lì: si avvisava una ragazza della morte di un parente. Era una situazione incresciosa, ma oggi vien quasi da ridere… Con quel telegramma ci ho conosciuto mia moglie!»
A Sant’Ilario ci abitavano in venticinque famiglie. «Ci si aiutava, non c’era l’individualismo di oggi, né il rancore. Quando nacque la mia prima figlia erano le dieci di sera, andai al paese con la bici per chiamare la levatrice. Lei non aveva mezzi. Saltò sulla canna e pedalai fra i sentieri fino alla cascina. Non c’erano autostrade, non c’era il Forum. Nata la bimba, tutte le donne son venute a dare una mano per una quindicina di giorni. Era tutt’un altro mondo, ne è rimasto solo un rudere».

Il panorama è completamente cambiato, ma vedere la cascina malridotta e sullo sfondo le torri vetrate di Milanofiori fa un certo effetto. Lo faccio notare al signor Gugliemo. «Che senso ha fare tutti ’sti paesi fuori?», mi chiede lui, di rimando. Provo a pensare a una risposta, ma non me ne dà il tempo. «Io ero contrario anche al Carrefour», mi dice, poco prima di salutarmi.

«Era tutt’un altro mondo, ne è rimasto solo un rudere».

A metà strada fra le due stazioni della metro si erge il Centro Commerciale Milanofiori – da tutti chiamato sbrigativamente Il Carrefour – che accoglie migliaia di visitatori al giorno tutto l’anno, gente che acquista l’ennesimo capo fast fashion o che in estate cerca un po’ di sollievo nell’aria condizionata. Per i pochi abitanti di Milanofiori Nord il Carrefour è una manna, c’è poco da dire: ci fanno la spesa, ci portano i vestiti a lavare e a stirare, c’è la farmacia, l’edicola, il servizio sartoria e persino il negozio cha fa i duplicati delle chiavi. Nel parcheggio c’è poi il lavaggio auto e la pompa di benzina più vicina per i rifornimenti. Gli abitanti di Milanofiori vivono in un luogo che è stato pensato in funzione del settore terziario, quindi ha una sua logica che il posto delle loro commissioni sia un centro commerciale.

Il centro di Assago – quello con la chiesa, l’edicola, la biblioteca – è a dieci minuti di macchina, quando non c’è traffico. Da qui il paese non si vede, ed il senso di spaesamento mi pare naturale conseguenza. Ma poi mi dico che è solo questione di adattamento.

Nel suo essere un luogo non luogo, Milanofiori promana un certo tipo di fascino non convenzionale. Qui la cineasta milanese Marina Spada – molto attenta nel raccontare i vuoti, estetici ed emotivi – ha voluto ambientare buona parte del suo film Il mio domani. E qui, recentemente, è stato girato il primo videoclip della musicista Anna Viganò per il suo progetto musicale Verano.

Un giorno mentre attendo in metro arriva un treno. Stavolta non mi faccio fregare. Alzo gli occhi dal kindle e sbircio: la scritta dice Fuori Servizio. È passato un mesetto dalla volta scorsa. Le porte si spalancano e io resto fuori, attento. Tutti gli altri però entrano – a quel punto mi viene il dubbio. Sono anche in ritardo, quindi perdo sicurezza e mi butto anch’io nel treno. Ma dalla cabina arriva una mezza imprecazione. Poi gli altoparlanti gracchiano, si sente – Scendete tutti! Ho sbagliato! Scendete tutti! -. Scendiamo tutti.
Da un annetto vivo in un posto assai bizzarro.

I vecchi, i nuovi, gli altri – Quartiere Garibaldi, Livorno

La statua stanca e ingiallita del grande condottiero troneggia sulla piazza a lui intitolata nello stretto quartiere omonimo a est del porto. Su tre fronti di questo quadrilatero di erbacce e cemento si diramano fatiscenti viuzze di marciapiedi consumati, intonaci depressi e olezzo di fritto e di urina.

Il quarto lato della piazza si apre, invece, su una strada trafficata che corre parallela alla rete di torbidi canali navigabili, “fossi” in gergo locale, simbolo di questa città. Il Giuseppe Garibaldi di marmo di Carrara e sterco di piccione tiene lo sguardo alto oltre i fossi e ammira le possenti mura macchiate di edera della Fortezza Nuova, mentre ai suoi piedi e alle sue spalle botteghe e vite più o meno antiche animano i meandri del rione più chiacchierato della città.

Fausto, fisico imponente, mani grandi e callose, chioma sporca di salmastro e uno sguardo gentile e un po’ rassegnato, nel Quartiere Garibaldi a Livorno ci ha trascorso gli ultimi settantacinque anni della sua vita rumorosa e travagliata di settantacinquenne livornese purosangue: qui ci è nato, qui è cresciuto e qui spera, dice lui, il più tardi possibile, di morirci. Lo incontro nella sua cantina, così si chiamano qui le rimesse dei barcaioli, mentre lucida le rifiniture metalliche di un piccolo gozzo turistico tra l’odore di muffa e di solvente che avvolge questa umida caverna in cui lavora.

Fausto, che di mestiere fa un po’ di tutto, ma principalmente è pescatore e guida cantante per i pochi turisti che capitano a Livorno, ha visto la “Zona Garibaldi” esistere, resistere e mutare nel corso di sette decenni e un lustro di storia: dal tardo dopoguerra di duri volti pasoliniani, edifici scavati dalle bombe e baracche di lamiera improvvisate fino alla quotidianità postmoderna di marciapiedi congestionati da auto parcheggiate alla “me ne frego, non so se ben mi spiego” e sguardi di passanti spenti sullo schermo nervoso dei cellulari.

Fausto ha urlato di rabbia e di gioia negli anni Sessanta, quando il quartiere era una roccaforte di rosso colore, e ha visto, poi, la morte arrivare a braccetto dell’eroina, durante quei tardi Settanta, che qui, più che altrove, furono pesanti come il piombo e disperati come gli ultimi idealismi. Fausto ha visto gli Ottanta e il consumismo all’americana e poi le felpe lunghe e gli sguardi mogi degli anni Novanta, quando a Mosca moriva un’utopia e qui a Livorno si perdeva un’identità.

Come Fausto ce ne sono ancora tanti nella Zona, abitanti storici del quartiere o gente che in Garibaldi non abita, ma che qui ha lavorato tutta una vita: Anna la parrucchiera, Mirko il libraio, Giuseppina che vende solo farina e sementi, Andrea il farmacista gentiluomo, Elena la moglie del meccanico che canta nei bar del porto, Piero il giornalaio e Ugo che gli taglia i capelli nella sua bottega d’antan.

A nutrire bottegai e barcaioli c’è poi la folta schiera di osti, cuoche e ristoratori che hanno reso Garibaldi, archetipo del quartiere popolare, una meta di pellegrinaggio per gli annoiati signori della Livorno bene che si spingono nei bassifondi urbani alla ricerca del cacciucco perfetto o di un fritto misto senza fronzoli.

Fausto, che è anche stornellatore, poeta e grande romantico di facili nostalgie, si lascia ogni tanto andare nel ricordo di quelli che, per un motivo o per un altro, non animano più il quartiere con la loro presenza. «Con i morti» mi dice con voce calda e profonda da uomo di porto, «è inutile arrabbiarsi, perché tanto, anche a urlargli contro, quelli non tornano». È con i vivi che Fausto vorrebbe far quattro chiacchiere, con quelli che hanno chiuso la porta di casa o l’uscio della bottega (o entrambi) per cambiare zona della città, perché Garibaldi, a sentir loro, era diventato un rione invivibile.

È con i vivi che Fausto vorrebbe far quattro chiacchiere, con quelli che hanno chiuso la porta di casa o l’uscio della bottega (o entrambi) per cambiare zona della città.

«Uno a uno li ne ho visti andar via tanti da qui» continua Fausto mentre mi mostra orgoglioso la nuova tinta rosso fiammante della sua barca «pure i miei figlioli hanno lasciato sto posto, uno è andato addirittura a vivere in Australia… ma dico io: ma ti faceva proprio così schifo Livorno che dovevi andare a vivere all’altro capo della terra?» e sorride tra scherno e amarezza pulendosi con uno straccio antidiluviano il rosso chimico attaccato polpastrelli.

Il barcaiolo Fausto, la parrucchiera Anna, il barbiere Ugo e, come loro, tutta la vecchia guardia del quartiere sono stati testimoni di un esodo in miniatura di amici e colleghi, che dai vicoli umidi di Garibaldi sono trasmigrati verso i lidi più sereni della periferia sud della città. A spingerli lontani dalla Zona sono state di certo gli intonaci intatti, le vie ariose e l’asettico odore di nuovo dei quartieri piccolo-borghesi; sicuramente, e Fausto prova a convincersene, c’era il desiderio di non doversi più svegliare tutti i giorni al suono di motorini scarburati e con il tanfo di fogna del Fosso Reale; probabilmente sulle pareti dei moderni appartamenti di periferia non cresce aggressiva la muffa scura che abita le case di Garibaldi.

Eppure dietro all’esilio volontario degli ex Garibaldini c’è anche, e soprattutto, il desiderio malcelato di staccarsi e distinguersi da quello che è stato troppo spesso dipinto dai giornali locali come un quartiere maledetto, un ghetto di degrado e delinquenza dal quale è meglio girar lontani. Fausto questo lo sa, non può negarlo. Di là dalle esagerazioni della discutibile stampa cittadina, è evidente come la Zona Garibaldi, già da tempo teatro di un lento ma continuo deterioramento del tessuto sociale, sia ormai afflitta dai problemi cronici di una criminalità in continuo aumento. Addio bella Livorno mia recita una delle tante poesie di Fausto; sfumar ti vedo tra una rete ormai stanca e un altro vecchio che va via, lasciandomi solo su sta panca.

Addio bella Livorno mia, recita una delle tante poesie di Fausto; sfumar ti vedo tra una rete ormai stanca e un altro vecchio che va via, lasciandomi solo su sta panca.

Naturalmente si parla pur sempre di Livorno e, checché ne dicano i giornali, Garibaldi non è di certo paragonabile a Scampia o a Quarto Oggiaro. Tuttavia, per una città medio-piccola come questa, la “faccenda Garibaldi” è comunque diventata una questione centrale nei discorsi dei cittadini e nelle aule del Comune, così come centrale è il fenomeno che, a detta di molti, sta alla base della parabola discendente della Zona: l’immigrazione incontrollata.

Non sorprende, infatti, che Garibaldi, quartiere povero, popolare ed economico, ha attratto, a partire dagli ultimi anni Novanta, flussi sempre più cospicui di immigrazione comunitaria e non. Gli “altri”, venuti da paesi lontani, hanno portato nuova linfa e colori accessi nel grigiore un po’ stantio del quartiere e il loro arrivo ha ringiovanito e rinvigorito un quadro demografico ormai vetusto e assopito. Ugo, barbiere ottuagenario rigorosamente per soli uomini, reagisce un po’ imbarazzato se gli si chiede un parere sulle genti straniere venute dall’Est e dal Sud del mondo. Apre la porta di una bottega rimasta praticamente invariata dagli anni Sessanta, pavimento in linoleum macchiato di balsamo e capelli, pareti ricoperte di panelli finto legno e calendari Pirelli, ventilatori arresi alla polvere e specchi graffiati dal tempo, e con voce insicura e sorriso sincero mi accoglie nell’anticamera della sua vita.

Gli “altri”, venuti da paesi lontani, hanno portato nuova linfa e colori accessi nel grigiore un po’ stantio del quartiere.

«Guarda, a esser sincero non so che dirti su questi giovani che vengono qui» accenna riferendosi ai migranti e temendo di essere tacciato di un razzismo che invece non mi sembra ci sia, «tanti sono venuti e si son trovati subito da lavorare, hanno aperto un sacco di negozi nuovi e anche se fanno un po’ di concorrenza a noi vecchi del quartiere, devo dire che, almeno io, mi son sempre trovato bene con loro» poi guarda le pale assopite del ventilatore e come liberandosi da un piccolo peso cresciutogli in gola, continua.

«Tuttavia, ‘sti nuovi che sono arrivati ora, questi ragazzi africani, i rifugiati come li chiamano, stanno qui e non fanno niente, ciondolano tutto il giorno per le strade, sempre appiccicati a quel cellulare, non lavorano, non sanno neanche dove sono secondo me… e poi c’è quel gruppo di tunisini lì, che per davvero, è meglio non parlarne neanche…».

Già, i tunisini del Quartiere Garibaldi. Problema ormai cronico che sembra affliggere e preoccupare l’intera città. Gli esempi di riuscita integrazione certo sono tanti: dalla famiglia Yi che dalla Cina è venuta a fare i cappuccini più buoni del quartiere (personale giudizio di Fausto il barcaiolo), ai fratelli Ganguly dal Bangladesh che in Garibaldi hanno aperto un mini-market di prodotti tanto esotici quanto improbabili, fino a un gruppo di giovani artisti senegalesi con il loro piccolo laboratorio di artigianato tradizionale.

Sarebbe, però, naïf pensare che il contatto fra popoli e culture sia sempre rose e fiori. Tralasciando inutili e dannosi perbenismi, è purtroppo evidente che un numero imprecisato d’individui stranieri, per la maggioranza di nazionalità tunisina, ha preferito integrarsi con il tessuto criminale fieramente italiano già esistente nel quartiere, espandendolo e acutizzandolo abbastanza per sconvolgere la coscienza pubblica di una città relativamente tranquilla come Livorno.

È una storia sentita già tante altre volte, quasi ogni giorno a dire il vero, e altrettante volte strumentalizzata ad hoc dalle varie forze politiche: un quartiere popolare italiano, con una rete di piccola criminalità già in essere, diventa palcoscenico involontario di ondate migratorie che portano, quasi sempre, a risultati ambigui e indefiniti, tra tante luci e molte ombre.

Dana Popa, giovane ristoratrice rumena, è partita nel 2002 dai tetri casermoni di Vâlcea, alle pendici delle Alpi Transilvane per raggiungere amici e conoscenti a Livorno. Passati dieci anni di gavetta come badante, cameriera e barista, ha aperto il suo primo punto di ristoro proprio nella piazza centrale del quartiere Garibaldi. Dopo diverse aperture e chiusure, tra cui anche una curiosa rosticceria rumeno-italiana, adesso Dana gestisce con orgoglio un piccolo ristoro all’interno di una delle tante baracchine installate sulla piazza dall’amministrazione cittadina per rivitalizzare il commercio nel quartiere e risanarne l’aspetto sociale.

Dana, che ha scelto Garibaldi perché un po’ le ricordava la Romania, con quel suo aspetto urbano trasandato e romantico al contempo, non è stata subito accolta a braccia aperte dagli abitanti del quartiere che, anzi, hanno a lungo boicottato la sua rosticceria designandola come un “covo di stranieri delinquenti”. Dana, fiera ora di essere una rumena livornese, si è però a poco a poco conquistata la fiducia di tutti fino a diventare una figura di riferimento centrale nel rione.
«La mia soddisfazione più grande» dice con la voce tremante di orgoglio, «l’ho avuta quando, una a una, la gente di Garibaldi è venuta a chiedermi scusa per aver pensato e parlato male di me».

Adesso Dana, donna immigrata con lo sguardo forte e deciso, non si nasconde dietro tanti giri di parole e con rinfrescante onestà dice a chiunque glielo chieda che lo spaccio di droga sta affossando il quartiere ormai da anni. Un mercato, quasi a cielo aperto, gestito a valle prevalentemente dalla comunità tunisina e a monte dalla criminalità tutta italiana che gira intorno al porto di Livorno. Salvo qualche rara eccezione, i clienti finali di questa fremente attività commerciale sono, immancabilmente, proprio quei livornesi della parte bene della città che qui vengono per il cacciucco e per una botta di cocaina.

Salvo qualche rara eccezione, i clienti finali di questa fremente attività commerciale sono, immancabilmente, proprio quei livornesi della parte bene della città che qui vengono per il cacciucco e per una botta di cocaina.

Ma Dana, da piccola imprenditrice lungimirante del vecchio blocco socialista, sa anche che la soluzione al problema è a portata di mano. «La gente deve stare in piazza, deve vivere il quartiere, deve fare presenza» dice con entusiasmo mentre stappa una birra per un cliente. «Le forze dell’ordine sono essenziali, ma è tutto inutile se poi gli abitanti stanno a lamentarsi su Facebook senza farsi vedere in strada; se le panchine, i marciapiedi e i bar sono occupati dalla brava gente di Garibaldi, gli spacciatori e i loro clienti non hanno posto dove andare: è semplice, è una questione di spazio» conclude servendo la birra a un suo connazionale, muratore, che se ne sta seduto su una pericolante sedia di plastica bianca assieme a tre suoi colleghi livornesi.

Forse così semplice come dice Dana proprio non è, ma intanto l’amministrazione della città e cittadini stessi hanno dato il via a una serie di iniziative dai nomi più o meno bizzarri (“Garibaldi Top”, “Garibalta”, “Sicurezza in Garibaldi”) mirate a una reale e duratura riqualificazione del quartiere. Concerti, mostre, mercatini e spettacoli animano, soprattutto d’estate, la piazza centrale del quartiere e, di riflesso, anche le vie limitrofe, attirando per strada non solo i residenti della Zona, ma anche e soprattutto, gli abitanti degli altri quartieri della città che adesso si avventurano intimoriti e incuriositi a vedere cosa succede in quel rione di cui tanto si parla sulle pagine dei quotidiani locali.

Uno dei fenomeni più interessanti è sicuramente l’arrivo nel quartiere di una nuova generazione di artisti e piccoli imprenditori livornesi che, grazie a un bando comunale, hanno trovato qui una nuova sede ideale per le loro attività. Sono “i nuovi”: gallerie fotografiche, botteghe di abbigliamento vintage, negozi di dischi e spazi educativi sono andati a integrarsi e intersecarsi nel complesso tessuto umano e commerciale del quartiere, portando un’ulteriore ventata di aria fresca in quartiere splendidamente popolare che non ha alcuna intenzione di demordere.

Sono “i nuovi”: gallerie fotografiche, botteghe di abbigliamento vintage, negozi di dischi e spazi educativi sono andati a integrarsi e intersecarsi nel complesso tessuto umano e commerciale del quartiere.

Giulia Bernini, ragazza classe ’82 piena di contagioso entusiasmo e con una lieve ma genuina tendenza all’esser prolissa, è grafica, illustratrice e designer freelance, formatasi a Siviglia a fianco del disegnatore Pedro Cabañas, uno famoso dice lei, anche se il nome a me e alla mia ignoranza nel settore ci lascia assai indifferenti. Dieci anni fa inventa una serie di animali e volti umani con uno stile deformante e visionario che diventeranno, poi, un vero e proprio brand.

A Livorno è stata una delle pioniere nell’apertura di pop-up stores, ovvero attività commerciali caratterizzate da un’effimera esistenza a tempo determinato e ben definito, portando in una città di provincia una concezione commerciale più o meno discutibile, ma sicuramente innovativa.
Dal giugno dello scorso anno è una delle protagoniste del processo di gentrificazione artistica e culturale del quartiere, che poi una vera e propria gentrificazione non è, poiché, per fortuna, in Garibaldi, per adesso, manca ancora il rovescio della medaglia che questo fenomeno di riqualificazione un poco elitaria porta con sé, ovvero l’aumento degli affitti e il conseguente allontanamento dal quartiere della classe meno abbiente della popolazione.

Il suo “Uovo alla Pop”, uno spazio che gestisce assieme ad altre tre ragazze, è un laboratorio che si occupa d’arte contemporanea, pop e urbana e, attraverso eventi, mostre, workshop e percorsi tematici, tenta di riallacciare il rapporto fra cultura locale e visione artistica. Le attività svolte da “Uovo alla Pop”, che, Giulia tiene a precisare, non è solo galleria d’arte ma anche luogo d’incontro, hanno attratto l’attenzione di artisti come Clet Abraham e critici d’arte quali Francesco Bonami, nomi importanti del settore che, adesso sì, non risuonano proprio sconosciuti alle mie orecchie.

Gli eventi organizzati dalle ragazze hanno riscontrato sempre grande successo e una folta partecipazione da parte degli abitanti del quartiere e della città, tanto che a novembre scorso sono riuscite a diffondere la loro arte al di fuori, nel resto del quartiere, attraverso il progetto “parete aperta”: saracinesche di fondi commerciali ormai sfitti, simbolo del passare dei tempi e dei cambiamenti demografici, si sono rianimate con un progetto di street art, creando un percorso artistico cielo aperto. Grazie alla loro attività di divulgazione su internet Giulia e le altre sono riuscite addirittura ad attrarre visitatori stranieri che da Firenze o Pisa si concedono un detour dagli itinerari turistici classici per andare a vedere un quartiere atipico nella città meno tipica della Toscana da cartolina.

«La cosa che più mi infastidisce» dice Giulia mentre io cerco di estrarre l’essenza da quel fiume frenetico di nomi e parole con cui mi mitraglia dolcemente «è che questo quartiere, sicuramente pieno di problemi – non lo nego – è diventato, nolente o volente, simbolo di una qualcosa che secondo me non è: un ghetto degradato dal quale è meglio girare alla larga». Si ferma a riprender fiato e, ormai conscia di avere conquistato il mio interesse, continua: «Per intervenire sulle situazioni di degrado e sulla cattiva nomea della Piazza non basta parlare di controllo e sicurezza senza vivere i luoghi. Anche questa piazza con le difficoltà esasperate negli anni è capace di pura poesia».

«Tutta questa attenzione mediatica ha avuto l’effetto paradossale di attirare ancora più delinquenza in un quartiere che poi così degradato non era».

L’effetto boomerang, il sintomo paradosso, per citare i bugiardini dei medicinali è, in effetti, qualcosa cui raramente si potrebbe pensare, ma che è assai più comune di quel che si creda: il reale è influenzato dall’immagine, più o meno veritiera, che i media ne diffondono e, di conseguenza, dalla percezione che il pubblico se ne fa. Garibaldi, a quanto dice Giulia, non sembra sfuggire a questo ingrato destino.

L’ultima “nuova” che incontro è Chiara, fotografa e madre trentenne appassionata di vecchi e di mare e di vecchi al mare, il tema preferito dei suoi reportage. Chiara, capelli corti sbarazzini, voce calda e un po’ mascolina, occhi buoni e curiosi che ispirano fiducia, nella Zona gestisce, assieme alla sua amica e collega Pamela, uno spazio interamente dedicato alla fotografia, in tutte le sue forme ed evoluzioni.

«Grazie al bando indetto dal Comune e al progetto di riqualificazione del quartiere ho finalmente trovato uno spazio per me, il mio lavoro e la mia passione» racconta, mentre mi mostra il locale a due piani un po’ disordinati, pieni di fili, nastro adesivo e fotografie.

Chiara ha a lungo cercato di donare delle radici stabile a quello che temeva potesse essere solo un capriccio aleatorio: fare la fotografa, vivere d’immagini. Uno spazio concreto, quattro mura bianche di calce, un pavimento grigio di polvere e una grande saracinesca ad aprirsi come il sesamo magico, era tutto ciò che poteva desiderare per coronare con un risveglio pratico i suoi sogni di fotografia.

Come andrà a finire, lo sa solo Garibaldi che con occhi di marmo guarda al di là del fosso.

Sentendo fin da subito un forte legame con il quartiere che le ospitava, Chiara e Pamela hanno deciso di condurre un’ambiziosa mappatura antropologica della Zona fotografando gli abitanti del quartiere, tutti: i vecchi delle botteghe antiche, gli altri venuti da lontano e i nuovi arrivati con le loro idee di arte e speranza. Le fotografie sono state poi stampate in formato gigante su carta da manifesto elettorale e i ritratti sono andati, grazie a una paziente opera di attacchinaggio di antica maniera, ad abbellire i muri sporchi di piscio, graffiti ed erbacce della Zona.

Chi passeggia per il Garibaldi, come faccio io adesso, tra le vie umide ed anguste, tra le merci del passato e le spezie del presente, tra un vociare in vernacolo livornese e una conversazione in arabo o wolof, magari alla ricerca del cacciucco perfetto, oppure con un kebab fumante fra le mani, potrà tentare di carpire il volto sfuggente di questo rione osservando le mille facce che lo compongono.

E tornando ai piedi della statua stanca dove ho parcheggiato distratto il motorino, passando davanti al ritratto di un ragazzo del Gambia che sorride con occhi di carta al profilo di una nonna livornese attaccata in formato gigante all’edicola del quartiere, penso che in fondo questo esperimento umano e sociale, ancora in fase embrionale, ha creato il quartiere più interessante della mia città.
Come andrà a finire, lo sa solo Garibaldi che con occhi di marmo guarda al di là del fosso.

(Non) è il manicomio

«Una volta mi sono svegliata. Ospedale di Genova. Intorno al mio letto c’erano tre stronze di infermiere. Io ero legata come un salame, legata mani e piedi al letto, con un mal di testa atroce. Rincoglionita dai farmaci. Una dice all’altra: Oh, questa qui sembra quasi normale. L’altra dice a quella Qui non arriva nessuno di normale. La terza ride. Io apro gli occhi. La guardo. E le sputo in faccia».

Alice Banfi vive in una casa di fronte al mare e alla spiaggia di sassi di Camogli. Oggi le nuvole arrivano dall’orizzonte, superano i tetti e le vie strette del borgo e si addossano contro il promontorio che incornicia il golfo, premono contro la “Chiesa Millenaria” – la chiamano così – che sorge su quelle colline, premono anche contro l’Aurelia e i suoi viadotti. Nuvole si accumulano a nuvole, si compattano e scaricano pioggia, sempre più fitta. Io e Alice ci ripariamo sotto l’ombrellone di un bar. Ordiniamo un caffè. È lunedì, in spiaggia non c’è nessuno.

Lei ha 40 anni, è nata tre mesi dopo l’entrata in vigore della legge 13 maggio 1978, n. 180 – conosciuta con il nome dello psichiatra Franco Basaglia – che decretò la chiusura dei manicomi.

«Ah pensavo fossi molto più vecchia. È la prima cosa che di solito mi dicono quelli che hanno letto i miei libri» mi dice Alice dopo avermi raccontato l’episodio delle tre infermiere «ma che non mi hanno mai vista di persona. Dev’essere perché quello che racconto, quello che ho vissuto, uno se lo immagina impossibile, se lo immagina ambientato settanta, cinquant’anni fa, in un tempo lontano, nei manicomi, e non venti, dieci anni fa nei reparti psichiatrici. Non oggi».

«Quello che ho vissuto, uno se lo immagina impossibile, se lo immagina ambientato settanta, cinquant’anni fa, in un tempo lontano, nei manicomi, e non venti, dieci anni fa nei reparti psichiatrici»

I manicomi in Italia non esistono più.

Oggi ci sono trecentoventi reparti psichiatrici, quelli in cui vengono ricoverate persone nelle fasi più acute di sofferenze psichica e mentale: si chiamano SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Su trecentoventi SPDC, circa trecento hanno le porte delle camere serrate dall’esterno, come nei vecchi manicomi e nelle carceri. Su trecentoventi SPDC, circa duecentonovanta adottano la contenzione in maniera dichiarata, protocollare, sistematica; contenzione significa: legare i matti al letto, mani e piedi, con fascette di cuoio. Quando non basta si stringe con un po’ di giri di scotch. Quando non basta ancora c’è lo “spallaccio”, un lenzuolo che blocca anche le spalle.

Il 22 giugno 2006 Giuseppe Casu muore dopo essere rimasto sette giorni legato a un letto del reparto psichiatrico di Cagliari. Francesco Mastrogiovanni, il 4 agosto del 2009, muore dopo essere stato legato ottantasette ore al letto del reparto psichiatrico di Vallo della Lucania, Salerno: la sua agonia è stata integralmente ripresa dalle telecamere interne del reparto. Mastrogiovanni era maestro alle scuole elementari, tutti lo conoscevano come Franco; prima di legarlo era stato pescato in mare mentre nuotava nudo e cantava canzoni anarchiche. Ambulanza. Carabinieri. Reparto psichiatrico. Durante l’agonia ha urlato, si è provocato dei tagli nel tentativo di liberarsi dai lacci di cuoio, ha chiesto da bere, ha pianto di disperazione, è stato sedato, alla fine ha rantolato per la mancanza d’aria, anche l’ultimo respiro è stato catturato dalle telecamere interne del reparto di Vallo della Lucania, Salerno, 2009.

Su trecentoventi SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura) circa duecentonovanta adottano la contenzione in maniera dichiarata, protocollare, sistematica; contenzione significa: legare i matti al letto, mani e piedi, con fascette di cuoio.

«Mio nonno, Arialdo Banfi, ha fatto la Resistenza, e dopo la guerra è diventato un senatore del Partito Socialista» riprende Alice. «Suo fratello Gian Luigi è stato deportato nel campo di concentramento di Mauthausen-Gusen, era contro il regime fascista, ed è morto lì. Mio padre invece ha fatto il ’68: trasformò la casa del nonno, in via Verrocchio a Milano, in una comune. Io sono cresciuta lì, la porta che dava sulla strada era di metallo, una porta scorrevole che non si poteva chiudere. Un pianoforte, un’accozzaglia di mobili recuperati, e poi c’erano moltissimi bambini, le facce non erano mai le stesse. Credo che fossi felice.

Mio padre era la pecora nera della famiglia, una famiglia di avvocati e lui che decide di fare l’operaio, l’operaio per scelta come si diceva. Era una persona libera, meravigliosa; lo è ancora. Margherite e crisantemi erano i fiori che mi portava in psichiatria; margherite e crisantemi, sempre, margherite e crisantemi: sono quelli che si trovano più facilmente in offerta al supermercato, quelli che si regalano ai morti, ma lui mi diceva – giustamente – sono così belli, perché non regalarli ai vivi! Le annusavo, poi le dipingevo, ho ancora un quadro con i fiori di mio padre, di là, esposto nella galleria».

Ci alziamo, paghiamo, ci viene incontro Ada, la figlia di Alice, incurante della pioggia anche se ha un disegno in mano. La galleria di Alice si chiama “Artemisia”, è una stanza chiusa da una vetrata affacciata sul mare. Il disegno di Ada è fitto, ci sono simboli ovunque negli angoli, tutti i personaggi ritratti hanno i superpoteri – ce n’è uno con la super-velocità, ci spiega, uno con il super-orecchio, uno con le super-braccia, uno che può diventare invisibile, c’è anche Alice, la mamma – sono tutti incastrati in una sorta di castello, stregato o incantato, e c’è anche lei, Ada, il suo potere è il terzo occhio. Oggi pomeriggio deve andare dal dentista, è appena tornata da scuola, fa la quinta elementare. Alice prende il disegno e se lo infila sotto la camicia, che se no si bagna. Ada cammina qualche passo avanti a noi.

La notte scorsa, prima di partire, mi sono letto tutto in una volta il primo romanzo di Alice, Tanto scappo lo stesso. Il sottotitolo è Romanzo di una matta, c’è una rapida biografia all’interno: “Alice Banfi, pittrice, lavora ed espone nella sua galleria sul lungomare di Camogli, in provincia di Genova. Ha attraversato follia e riscatto riuscendo a parlarne”. C’è una dedica alla madre.

È stato scritto di getto, in pochi giorni, in uno dei reparti psichiatrici che Alice ha abitato, non pensava che qualcuno l’avrebbe letto. L’ha letto sua madre, l’ha stampato e l’ha mandato a Peppe Dell’Acqua, psichiatra di Trieste, collaboratore di Basaglia negli anni della costruzione di Marco Cavallo, l’enorme cavallo azzurro di legno e cartapesta alto quattro metri e con le ruote, portato fuori dal manicomio e fatto sfilare in processione per le vie della città, tirato dai matti; era il 1973.

Dell’Acqua, nel 2006, spedì il manoscritto a Marcello Baraghini, di Stampa Alternativa, che un giorno si presentò ad Alice: «Piacere, sono il tuo editore». Lei pretese solo di mantenere il testo giustificato a sinistra, in modo da non trovarsi parole spezzate al bordo destro della pagina.

Cito dalle prime pagine del testo.

Era per solitudine, forse, per sentirmi viva, per la paura di sparire, per avere attenzioni, non ho ancora capito bene perché, che di notte a circa cinque anni ho cominciato a darmi pugni sul naso, fino a farlo sanguinare, e poi lo lasciavo sanguinare tutta la notte, fino a inzuppare il cuscino e ad addormentarmi. Mia madre credeva avessi i capillari del naso fragili.
[…]
Ho smesso di prendermi a cazzotti il naso verso i 12 anni per passare a procurarmi ferite, bruciature di sigarette e tagli sulle braccia. Non si trattava ancora di ferite gravi e le nascondevo con facilità.
[…]
L’ultimo anno di liceo fu segnato dall’aborto. Lo feci a inizio anno. Mi si prosciugarono le lacrime, io che mi commuovevo anche per un film! Da quel momento non mi uscì più l’ombra di una lacrima. Ero già in analisi da due anni.
[…]
Accaddero altri episodi traumatici, abusi di cui preferisco non parlare e non pensare. Poi una violenza quando ero ancora adolescente, ma il dolore e la vergogna m’impediscono di raccontare.
Finito il liceo, andai a vivere con cinque amici e feci l’esame di ammissione per l’Accademia di Belle Arti. Passai l’esame. La scuola mi piaceva.
[…]
Non volevo limitazioni, non accettavo facilmente consigli, nemmeno dagli amici. La vita mi travolgeva e io travolgevo la vita. A metà del primo anno m’innamorai di Lorenzo, un compagno di corso. Per la prima volta ebbi un rapporto affettivo che superava di gran lunga la settimana. Fu un amore travolgente, e passionale, anche se io non ero in grado di capire il valore della fedeltà, e lui non capiva il valore della libertà, libertà dell’altro di essere se stesso. Verso la fine del nostro amore io ero già anoressica, ma lo nascondevo bene.
[…]
Mangiavo chili di pane e biscotti. Dovevo trovare un rimedio. Sentivo di aver perso il controllo. Vomitare! Vomitare era l’unico rimedio, anzi di più: una magia.
[…]
A un certo punto chiesi aiuto a mia mamma. Avevo smesso da un anno di fare analisi, per mia scelta. Ora volevo una cura per la fame. Andammo da uno psichiatra. Azzeccò alla prima seduta la diagnosi: “Disturbo borderline di personalità”, ma sbagliò la cura, se così vogliamo chiamarla. Mi prescrisse il Prozac: dovevo aumentare fino a prenderne la dose massima di 3 compresse da 30 mg al giorno. Nel giro di un mese ero fuori come un balcone. Tremavo, ero aggressiva più del solito, su di giri e mi sentivo drogata, allucinata. Continuavo a essere bulimica e a bere spropositatamente.

La serratura della galleria Artemisia è un po’ scassata, va forzata per permettere alla chiave di fare il primo giro. Entriamo, io, Alice e Ada. Dentro, la stanza scoppia di quadri, di oggetti in terracotta, di vernici in piccoli barattoli, ciondoli, orecchini, fogli di appunti, scritte sui quadri, foto di panorami di Camogli, una sedia-trono-sbilenco, un’altra sedia per gli ospiti, foto di Alice ventenne, schizzi, i suoi quadernoni con ritagli di giornali, sue foto da bambina, foto con il padre, con la madre, con gli amici, foto in reparto, una foto delle fascette di cuoio per le mani e per i piedi attaccate al suo letto in psichiatria, date e luoghi sui disegni e sulle foto – Grossoni III, Niguarda, Milano. Ville Turro, Milano. Villa Cristina, Nebbiuno (NO), Ospedale Santa Croce, Moncalieri (TO) – disegni di Ada, forbici, spille, pinzatrici, scotch, posacenere pieno, registratore di cassa, alcuni sassi della spiaggia, puntine, i tatuaggi si attorcigliano su per tutte le braccia di Alice, ci sono i segni dei tagli cicatrizzati sui suoi avambracci, e i tatuaggi raggiungono il petto, spuntano dalla scollatura della camicia, spire che paiono di serpente o di drago.

Il sorriso di Alice è disarmante “questa giovane donna che non riesce a trovare una sua misura” scrive Maria Grazia Giannichedda, anche lei collaboratrice di Basaglia, nell’introduzione al romanzo di Alice “sempre troppo grande o troppo piccola proprio come la bambina del Paese delle Meraviglie, di cui porta il nome”, lo sguardo di Ada, la figlia, è consapevole, saggio, e anche il suo atteggiamento; prende un sasso dalla scrivania, uno di quelli piatti, grande quanto la sua mano. Lo posa a terra. Prende un pennello, un barattolo di tempera rossa e uno di tempera gialla. Si siede a terra a una certa distanza da noi e si piega a disegnare sul sasso, imbronciata, forse solo concentrata.

Il primo ricovero di Alice è stato nel 1999, a Milano, Ville Turro.

«È stato un ricovero volontario, ho iniziato con il day hospital. Il disturbo alimentare mi teneva in ostaggio. Stavo male, molto male. Mi sentivo a un punto di non ritorno. A quel punto vuoi solo essere rinchiusa da qualche parte. E lasciare fare agli altri. Mangiavo 14 ore al giorno, mangia, mangia, mangia, mangia, poi vomita, vomita, vomita. Fermatemi vi prego. Vi prego ricoveratemi. Arrivo a Ville Turro, nello studio dello psichiatra. Mi dice che c’è una lista d’attesa. Lista d’attesa un cazzo! Gli do una testata sul naso. Oggi mi spiace ma… Lui chiama il 118 e mi portano al Grossoni, il reparto psichiatrico del Niguarda. Scendo dall’ambulanza, metto piede nei corridoi, sezione III, mi guardo in giro: Cazzo, e questo che posto di merda è? Ok vado a casa.

Arriva la caporeparto: Hai fatto la stronza? E adesso sei obbligata a stare qui. Disperazione. Disperazione e un senso di abbandono totale. La mia carriera nei reparti e nelle comunità psichiatriche è iniziata lì. Ed è durata dieci anni».

La pioggia fuori si fa più insistente, trafigge di un’infinità di aghi sottili la superficie del mare, scurisce la scogliera su cui sorge il Castello della Dragonara, ci zittisce per un attimo.

«Il luogo piccolo mi ha fatto bene, questo riconoscere le persone, essere riconosciuti. Parlo del paese, di Camogli. A volte davo in escandescenze. Ma sapevano chi ero. Non chiamavano i carabinieri né l’ambulanza. Qui ho iniziato a capire il senso di alcune regole della società: non puoi mandare a fare in culo tutti, in un posto così piccolo… Dopo un po’ finiscono gli abitanti».

Ada ci guarda, accenna un sorriso di partecipazione, poi riprende seria il suo lavoro, seduta a terra sul suo vestitino. Non credo che senta il nostro dialogo. Non lo so. Però è come se mi aspettassi che da un momento all’altro ci possa interrompere con una qualche frase definitiva sulla storia di sua madre o su questo momento. In qualche modo, più semplicemente, la tengo d’occhio mentre ascolto Alice – che non abbassa il tono di voce quando racconta i momenti più drammatici della sua storia, i momenti meno adatti a una bambina – mentre le faccio domande forzandomi a non perdermi in giri di parole o di pensiero. La vita precedente di Alice qui è dappertutto. Nei quadri. Nelle didascalie delle foto. La sua camicia non ha maniche e i segni delle cicatrici rigonfie per via dei vecchi tagli non sono nascosti. Ci sono i suoi libri, dichiaratamente autobiografici. Alice non nasconde nulla, è una testimone di una storia che non è solo la sua, che in pochissimi raccontano, quasi nessuno dall’interno. Chissà a che età Ada li leggerà.

«Il mio interiore era uno schifo, un casino, frantumi, ma c’era tutta questo fuori, il mare, le rocce».

«Sono arrivata in paese quasi dieci anni fa. Ero a un punto di stallo. Ogni cosa che facevo non faceva altro che farmi indietreggiare sulla strada della guarigione. Mi davano per spacciata. L’unica prospettiva era l’ennesima sessione in un reparto ad alta protezione. Ho chiesto a mia madre se potevamo venire qui, al mare, prima di rientrare dentro, lei qui aveva una casa. Il mio interiore era uno schifo, un casino, frantumi, ma c’era tutta questo fuori, il mare, le rocce; quando c’è il sole, qui, c’è il sole davvero, quando piove è diverso da quando piove in città. Ti svegli ogni mattina e hai tutto questo davanti. Ho detto: Mamma, possiamo stare qui?».

Chiedo ad Alice chi è Sara, il nome che ha tatuato sulle nocche, una lettera per ogni falange.

«Dormivamo insieme al Parco Sempione. Il padre – un testimone di Geova – la massacrava di botte; a 15 anni era tossicodipendente, eroina. Con la vita che facevamo, in quell’ambiente, morivamo come mosche; nel mio gruppo eravamo in cinque. Prima è morta L., a 17 anni. Poi F. a 23. Quando è morto lui ci siamo fatte il tatuaggio. Io “SARA”, lei “ALICE” stringendo la L e la I sulla stessa falange. Il tatuatore era il quinto del gruppo. Un amico fraterno. Era quello stabile del gruppo, un’ancora di salvezza. Da qualche anno è uscito dai binari, ha avuto un periodo di psicosi totale. Quando pesavo 28 chili, meno di mia figlia adesso, era quello che veniva al mare con me, a Otranto, per far stare tranquilla mia madre, Signora, non si preoccupi, vado io con Alicegliela porto a casa! Mi ha sostenuto per anni. Poi la situazione si è ribaltata. Ma io non sono potuta stare vicina a lui come lui era stato vicino a me: c’era Ada, che era appena nata. Credo che questa cosa non gli sia mai andata giù. Ma la vita è così».

Rompo il silenzio – che è sceso ripido dopo il così – con una domanda, le chiedo come ha fatto a resistere. Come ha fatto a resistere a tutti quegli anni di corridoi di reparti psichiatrici e comunità, farmaci, camere tutte uguali, autolesionismo, psicosi, assenza di ogni via d’uscita.

«La prima sensazione che provi entrando in un reparto psichiatrico è la paura, paura disperata. Ti guardi intorno – so che sembra assurdo – e ti dici: Cazzo, qui sono tutti matti. C’è gente di tutti i tipi, dalla vecchietta in demenza senile rimasta senza famiglia, alle prostitute finite dentro per una rissa o una crisi isterica. Io avevo la capacità di agganciarmi, di allearmi col più forte, per difendermi. È come in carcere, credo. È una cosa che ho imparato negli anni sulla strada, a Milano, dopo che le ho prese per la prima volta, a 16 anni, una scarica di botte. Lei era una donna, una bestia. Motivi di corna. Qual è stato il mio errore? Fermarmi. Se tu ti fermi perché hai paura di fare male all’altro, l’altro ti ammazza. Non che se dici, Ahi, ahia, basta, ti prego l’altro si ferma. Col cazzo. Sulla strada funziona così; nell’ambiente dei punkabbestia era così. E io ero sempre troppo, o troppo poco, anche per i punkabbestia. Quella tizia mi ha aperto. Il giorno dopo avevo una fronte che era un pallone, un trauma cranico, un occhio nero, completamente chiuso. Mi ricordo ancora la faccia di mio padre quando sono tornata. Ero finita per terra e quella mi ha spaccato di calci in faccia senza pietà. Ci ho messo due anni a restituirgliele, restituirle tutte le botte, tutte in una sera».

C’è un signore alto con un panama in testa fuori dalla galleria. Ha un paio di bermuda beige. Dev’essere del nord Europa, guarda la vetrina attraverso i suoi occhiali. Ada lo guarda attraverso la vetrina. Alice continua:

«Ti rendi conto, lì dentro, che puoi diventare un’aguzzina. Che esiste in ognuno di noi quella parte. C’è una citazione di Primo Levi, che sento mia, senza esagerare, perché lo so che non c’è paragone tra le nostre esperienze: lui scrisse che se tu sei un po’ aguzzino ce la fai a sopravvivere. Qualcosa del genere. E invece quello buono, quello buono fino in fondo, soccombe e lo schiacciano come una polpetta. Io so cosa intende».

L’uomo col cappello pare voler entrare ma è ancora indeciso. «Hai resistito. E poi come ti sei salvata?» incalzo io. «Ho trovato sulla strada alcuni pezzi fondamentali. Dipingere. Trasferirmi qui sul mare. Scrivere il libro e raccontare quello che avevo visto, raccontare i miei compagni, soprattutto. Perché tanti non sono in grado o si sentono in colpa. I familiari di chi è dentro spesso hanno vergogna o paura. Paura di denunciare, perché non sai più a chi credere: a tua figlia matta o agli infermieri, agli psichiatri, che si occupano della sua salute? Non sai più cosa è giusto e cosa ha sbagliato. Quelli nel pieno del delirio, nessuno se li caga. Io una volta una denuncia l’ho fatta, contro un infermiere che mi aveva preso per i capelli e trascinata per terra. Mia madre l’ha ritirata. Così nei reparti fotografavo tutto, le fascette di cuoio bianco pronte e attaccate al letto, soprattutto: per farmi credere. Poi, il pezzo fondamentale, è stata Ada: lei è stata il ritorno al pianeta Terra».

Il signore col panama varca la soglia. Prima dà un’occhiata alle terrecotte. Poi ai disegni. Poi a Ada e al suo sasso che sta prendendo colore, ma lei non si fa distrarre. Non parla, sì dev’essere straniero. Si ferma di fronte a uno dei quadri appesi: I fiori del mio compleanno, Alice Banfi, 2004. Margherite e ortensie in un vaso. Poi passa a quello dopo, Alice me l’aveva descritto prima, c’è un letto, una sedia, un tavolo, un comodino. «In tutte le camere in cui sono stata c’era sempre il letto, la sedia, il tavolo, il comodino, il letto la sedia il tavolo il comodino, e poi questa sono io» e indica una specie di corpo striminzito, filiforme, tracciato in poche pennellate di acquerello «che sogno di danzare in aria, di volare fuori dalla finestra della camera». Il signore col cappello si gira e ci guarda, Alice gli va incontro. Io spengo il registratore e chiudo il mio blocco di appunti.

«In tutte le camere in cui sono stata c’era sempre il letto, la sedia, il tavolo, il comodino, il letto la sedia il tavolo il comodino. E poi questa sono io che sogno di danzare in aria, di volare fuori dalla finestra della camera».

Avevo sempre delle lamette con me, servivano per tagliarmi, le nascondevo ovunque, tra le pagine dei libri, nelle suole delle scarpe, nella batteria della radio.
Quella notte ne usai una per tagliare quattro fascette di cuoio, quelle di Eleonora. Nel buio, mentre segavo quell’orrore, lei mi guardava, alzando un po’ la testa. “Shhhh, non parlare” le dicevo, e lei si metteva il dito in bocca per trattenere ogni parola.
[…]
Gio era veramente speciale. In reparto girava su se stesso e avanti e indietro come una scheggia, nascondeva sotto una chioma di riccioli biondi gli auricolari del walkman. Ogni due giorni lo scaraventava contro il muro e sua madre doveva portargliene uno nuovo. Una volta gli chiesi di aprirmi una porta, si tolse le scarpe e le calze, e la porta antisfondamento del reparto venne giù, con un solo colpo, un solo calcio.
Lo guardai: “Tu non vieni?”.
Si voltò, e ricominciò a girare come una scheggia impazzita. “Bè, grazie”. Io uscii fuori, era sera tardi.
[…]
Conchiglia veniva legato non per qualche ora, per una notte, ma per giorni interi. Mi ricordo le sue urla come fosse oggi. Poi lo sedavano e i lamenti si affievolivano. Una notte andai da lui. Aveva smesso di urlare da un pezzo. Aveva sete, nessuno gli aveva portato da bere. Gli portai un bicchiere d’acqua, lo aiutai a bere, le sue labbra erano secche. Gli dissi: “Fa’ silenzio, non parlare”. Cominciai a mordere le fascette di cuoio e lo scotch che le stringeva ancora di più. Masticai e morsi, in ginocchio, al buio, nel silenzio. Ci misi molto tempo a togliere tutto lo scotch e allentare le fascette. Conchiglia provava a tirare, ma la mano non passava da quel maledetto buco.
“Aspetta, faccio io”, gli dissi sottovoce e iniziai a insalivargli i polsi e il palmo della mano. Con calma tirai, e le mani, scivolando fuori dalle fascette, furono libere. Feci lo stesso per i piedi ma ci misi più tempo e più fatica.
Alla fine lo guardai, nel buio, lui grande e grosso, coi capelli arruffati biondo-platino e i baffoni. Piangeva in silenzio.
[…]
Elena, un angelo, solo diciotto anni, occhi azzurri e capelli biondi lunghi fino a metà schiena. Disturbo di personalità borderline.
“Anche tu?”.
“Sì, piacere, io sono Alice”.
Prima di pronunciare il nome si diceva sempre la diagnosi, la malattia, come se quello fosse il vero nome, il biglietto da visita.

Quando esco dalla galleria l’ammasso di nubi inizia a mostrare qualche crepa, in lontananza, da cui filtra qualche lama di luce, che non è ancora il sereno, ma ci si avvicina. Alice, nei suoi romanzi, scrive dal Duemila, dal Duemiladieci, da luoghi che sono Milano, Torino, Novara, città e provincia; non erano manicomi, non erano gli anni Cinquanta o Sessanta. La pioggia mi bagna il blocco di appunti me lo infilo sotto la maglietta, mentre cammino.

Riparato dalla tettoia della stazione di Camogli chiedo l’amicizia su Facebook ad Alice, così è più facile restare in contatto, ci siamo detti prima. Penso che Ada fra poco sarà dal dentista, che probabilmente – lì sdraiata immobile sul lettino, tra gli attrezzi, il bicchierino, le cannule, il rumore degli aspiratori, le pinze – avrà una paura del diavolo. O forse no. Quando ha finito di dipingere i sassi, mi ha detto sua madre, li fa asciugare e li vende sul lungomare, davanti alla galleria, insieme a una sua amica: si divertono da matte ad agganciare i turisti, durante i weekend di sole.

Nelle informazioni di contatto del profilo Facebook di Alice c’è la citazione di Primo Levi:

I salvati non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della “zona grigia”, le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato tra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.
[“I sommersi e i salvati”]

*Le foto da bambina, da adolescente, nelle comunità e nei reparti psichiatrici sono conservate in un album di ricordi di Alice.

Le dita sulla città – Una guida cieca a Venezia

Quando giro l’angolo della calle, Anna sta uscendo dal portone di casa sua, i corti ricci color rame illuminati da un sole che sembra di fine inverno, sugli occhi un paio di occhiali scuri, quasi rotondi. Ci si riflette dentro il canale su cui si affaccia il palazzo da cui è appena apparsa.

L’appuntamento è nel sestiere di Cannaregio, in prossimità del Ghetto. Anna ha un saluto squillante. Mentre si avvicina, spiega che non riusciva a trovare – non è la prima volta – il bastone da passeggio che usa abitualmente, quindi oggi andremo in giro con quello che sta impugnando. Lo dice un po’ scocciata mentre lo oscilla piano sui masegni davanti a sé, calibrando i passi con una pazienza regale. Infila la mano nell’incavo del mio braccio. «Allora – l’intonazione della frase fa un’impennata giocosa – cosa vuoi sapere di me?».

Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua. A coinvolgerla in questa veste, un evento collaterale del Padiglione Catalano all’ultima Biennale: «L’artista Antoni Abad ha convocato l’Unione Ciechi per realizzare BlindWiki, una mappatura sonora della città che non si vede. Ma, soprattutto, della città che non si vede più»sottolinea la parola, «la Venezia sparita. Qui facciamo il ponte».

Nelle parole di Anna, le indicazioni giungono come un intercalare discreto, sempre puntuale rispetto a dove ci troviamo. L’oscillazione continua del bastone le suggerisce la fine della gradinata, prepara con cautela il piede alla discesa.

Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua.

«Alla fine, mi sono trovata a essere l’unica veneziana cieca nata e cresciuta in città. Questo ha destato molta curiosità, perché le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano. Per esempio, una cosa che mi piace molto è la pietra d’Istria. Questa pietra bianca, bellissima. Si trova un po’ dappertutto, nei pozzi, lungo gli angoli dei palazzi, sui davanzali delle finestre». Rivolge il dito sottile verso ciò di cui sta parlando, che sembra apparire sornione alla sua menzione. «Faccio soprattutto riflettere su tante cose che la gente non vede».

Anna è nata con una grave forma di ipovisione – due retine di colori sbiaditissimi, i profili delle cose sfumati in una nebbia fittissima. Ma la sua Venezia ha forme e dimensioni precise, tradite occasionalmente solo dall’urto imprevisto contro i tavolini di qualche plateatico nato da troppo poco e in modo troppo poco normato per esserle noto. Mentre racconta la sua infanzia, la sua voce insiste leggermente su alcune vocali, con incedere fiabesco. «Sono nata all’arsenale militare. Proprio dentro, perché mio papà era in Marina. Io da bambina ero ipovedente grave, vedevo pochissimo. Il fatto di conoscere bene Venezia è dovuto alla pazienza, alla costanza di un fratello di mia madre». Tira lievemente verso una calle un po’ nascosta.

«Per darmi più autonomia, mio zio faceva una cosa molto particolare: oltre a leggermi tantissimi libri storici, come i diari del Molmenti, mi portava in giro per la città. Camminare, camminare, camminare. Continuamente. Mi leggeva i nomi dei nizioleti, sai cosa sono? Le targhe delle calli. E poi, mi faceva toccare». Lo scandisce quasi per sillabe. «Toccare le cose per farmele capire».

Una comprensione costruita con le dita, i polpastrelli a scorrere per tutta la vita contro tutte le cose: «Mio zio, leggendo tantissimo, sapeva dov’erano le cose belle da vedere. Anche all’interno dei palazzi. Suonava proprio il campanello alle persone e chiedeva posso far entrare mia nipote che non ci vede? Le fa toccare il pozzo? Le fa toccare il portale? Mi faceva toccare qualsiasi cosa: altorilievi, balaustre, ponti. Adesso qui giriamo. Attenzione, è una calle un po’ stretta».

«Le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano».

Una ragazza che viene dalla direzione opposta alla nostra nota il bastone di Anna e si appiattisce contro il muro per farci passare vicine fino a una lunga fondamenta poco battuta, scaldata dal sole. Ci arriva addosso una corrente fredda e gentile. «Senti che arietta da nord. Così si asciugheranno le lenzuola che ho steso». Mentre Anna racconta, qualcuno dal canale avvia una barca a motore con un rombo al cherosene. La mia guida si tura il naso con delicatezza teatrale: «Questa barca ha il motore leggermente ingolfato! Portarla subito a controllare!».
Catalogati in una mappa ampia e precisa, in assenza della vista suoni e odori costituiscono una fonte di orientamento fondamentale e preziosa, latitudine e longitudine su cui fissare la posizione di palazzi, chiese, abitazioni.

«Quando da bambina giravo da sola, quello che mi faceva capire che dovevo svoltare o che ero arrivata erano gli odori». Per andare a trovare sua nonna, l’odore delle salsicce appese da un salumiere stava a segnalare la prima svolta, la seconda all’altezza del profumo di formaggi freschi di una latteria. «Lì dovevo continuare dritta fino a un negozio di baccalà. E io così mi orientavo».

Nei suoi ricordi, al profumo del pane portato alle rivendite in barca nel primo mattino si accompagna quello della polenta arrostita attraverso le calli all’alba, insieme all’odore intenso di frutta e verdura. «Adesso, quando scendi dal ponte di Rialto, trovi solo negozi di quelle che chiamano specialità veneziane, ma in effetti è paccottiglia da due soldi. Quando ero piccola, c’erano banchi di frutta e verdura a destra e salumi e formaggi a sinistra. E i venditori parlavano continuamente della loro merce. Vara che bei! Vara che boni! I carciofi di Sant’Erasmo, le castraure! E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare. Oggi, i suoni hanno avuto una trasformazione incredibile. Quello che rimane di molto bello sono le campane. La prima che senti al mattino è la Marangona, quella di San Marco. Don! Don!». Anna cerca di imitarne il suono, la nota è così bassa che la voce le esce a fatica. «Però c’è anche molto più silenzio. L’ho fatto notare anche ad altri veneziani e mi hanno dato ragione. Tutti più educati, sicuramente. Ma c’è anche una perdita di identità in questo».

«E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare»

Arriviamo in un campo largo, dove troneggia una chiesa il cui campanile diffonde un’eco orientale. «La Chiesa della Madonna dell’Orto. Qui dentro c’era la famosa Madonna del Bellini, che se la son rubata». La compostezza di Anna si rompe in un moto di indignazione: «Non è più stata trovata. Era una meravigliosa madonna, più o meno di questa dimensione – allarga di poco le braccia – perché l’ho toccata, senza nessun allarme. E se la sono portata via. Inevitabile. Sai che dietro la chiesa cresceva una pianta di fichi?».

Anna inizia a snocciolare una serie di informazioni botaniche, lanciandosi in una dissertazione sulla riscoperta del melograno e sulla morte di molte magnolie nei giardini privati veneziani. Ci tiene a segnalare che la più antica di Venezia è quella piantata nel suo giardino, la sua voce corre insieme al rumore leggero tracciato dal suo bastone sul selciato. Passeggiando, sembra dimenticarsi di una stretta rientranza della fondamenta necessaria per la salita in barca, dove alcuni gradini conducono direttamente dentro l’acqua. Quando se ne rende conto, si scosta e riprende a camminare con la sicurezza di poco prima. La competenza con cui si muove renderebbe plausibile immaginarla girare da sola in città.

«Solo alla mattina molto presto. Una volta potevi girare a tutte le ore e non ti succedeva niente, ora non è più la Venezia di una volta. Ed è anche diventata una città piuttosto invivibile, dove il turismo ha dilagato in maniera esponenziale. Il che non fa bene alla città, ma neanche al turista. Perché diamo un servizio non sincero, non veritiero. E questo è molto brutto».

La voce di Anna si appiattisce all’improvviso. «Siamo arrivate ai portici dell’Abbazia. Lo capisco da com’è cambiato il suono della mia voce». Un porticato di colonne in mattone è l’anticamera al campo davanti a una chiesa gotica: «Per terra puoi vedere uno dei pochi pavimenti rimasti in cotto veneziano, disposto a spina di pesce. E c’è anche un pozzo con dei meravigliosi altorilievi, li ho toccati tutti. Senti, ti volevo chiedere: sei mai stata sulla terrazza del Fontego dei Tedeschi? Proviamo a vedere se ci fanno entrare!».

L’altana sopra al discusso centro commerciale di lusso aperto in città da poco più di un anno diventa la nuova meta della passeggiata, scandita dalle descrizioni entusiaste rivolte a ciò che ci circonda: un ponte privo di spallette – unico esemplare rimasto in città a testimoniare la natura originaria dei ponti veneziani – precede il vociare crescente lungo Fondamenta San Felice, a cui Anna sembra non prestare attenzione, salvo poi commentare con aria divertita la qualità dei discorsi che ha ascoltato.

Di voci nella sua vita ne ha sentite moltissime, avendo conseguito il diploma di centralinista al Collegio dei Ciechi di Padova, per poi iniziare a lavorare ancora diciassettenne a Reggio Emilia. Mi spiega che a Venezia è tornata anche per dare al figlio Fulvio la possibilità di crescere in una città diversa da tutte le altre: «Amo la pietra, il sole, il vento. L’acqua. Venezia è la mia città. Alcuni a volte mi dicono che ce l’ho tutta in testa, che sono meglio di Google Maps. Il fatto è che la amo profondamente».

Il percorso sbuca in Strada Nova, una delle principali arterie della città, attraversata dal brulichio turistico del primo pomeriggio. Il flusso di persone intorno a noi è aumentato di molto, ci sciama intorno con scarso riguardo. Dopo quasi trent’anni di sapiente convivenza con la cecità, è in parte difficile misurare dall’esterno quanto Anna senta la mancanza della vista. La risposta arriva senza esitazione: «Da molto tempo non mi manca più. A volte, però, mi capita di dover chiedere chiarimenti. Per esempio, qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe».

La folla crescente ricorda il preludio ai festeggiamenti di carnevale, uno dei momenti dell’anno in cui la città si fa più invivibile. «Da quando è diventata una questione poco veneziana e tanto di business, Venezia è diventata impraticabile. Chiaramente, conservo anche dei ricordi belli. Quando lavoravo in banca, un anno chiedemmo al direttore se potevamo andare a lavoro in maschera, e lui accettò. Indossavo un bellissimo abito da dama stile Settecento con tanto di parrucca, prestato da un’amica di mia mamma. Avevo letto la storia di una cieca veneziana che si era fatta fuori al gioco i soldi del Conte Sagredo: siccome mi piace scherzare, mi portai anch’io un bussolotto con due grossi dadi per giocare a tutto o niente, un vecchio gioco veneziano. Quando qualche cliente si complimentava per il costume lo sfidavo, proponendogli una partita a dadi contro di me».

«Qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe»

L’arrivo al Fondaco ha il colore di un imponente palazzo bianco a pochi passi dal Ponte di Rialto: a testimoniare la sua vita precedente, la grande scritta Poste e Telecomunicazioni in metallo intatta sulla facciata. Poco dopo l’ingresso, un’ampia corte circondata sui quattro lati da tre piani a vista, illuminati da un sistema di faretti che gettano fasci di luce aggressiva. «Potrei essere al Cortes Inglés o in qualsiasi altro centro commerciale. Lo senti in particolare dalla musica, che è la stessa dappertutto».

Le indicazioni molto precise fornite per raggiungere la terrazza all’ultimo piano sfumano man mano che Anna inizia a cogliere i cambiamenti fisici occorsi intorno a lei. Dopo un attimo di confusione si fa interdetta e poi seccata, fino a chiudersi in uno sdegnato mutismo, che rompe solo qualche istante dopo aver trovato l’ascensore. Sbuchiamo in una sala con una corta scala di legno.
Si è fatto un po’ nuvoloso, ma l’aria è tersa e la vista che domina l’intera città si estende nitida sino alle cime pulite delle montagne, srotolando un tappeto di rettangoli rossi e bianchi che sembrano coriandoli. Anna ritrova lo slancio.

«Vieni, ti faccio vedere la tavola in braille». Oltre il parapetto, una lastra di metallo riporta il profilo di tutto ciò che abbiamo davanti. Anna ci appoggia sopra una mano e inizia a parlare più velocemente, le dita in un moto minuto e continuo. L’increspatura dei rilievi le suggerisce in che direzione rivolgere il viso.

«Ecco, vedi, vedi? Qui ci sono i disegni. Poi ci sono le scritte, che ti dicono tutto quello che hai davanti. Sono talmente piccole che ci vorrebbe la lente di ingrandimento nelle dita, però per me è bellissimo qui. È il braille americano, scritto a lettere in rilievo. Hanno fatto una cosa simile a Castel Sant’Elmo a Napoli. Puoi toccare il Golfo di Napoli, hai davanti tutte le varie isole, Capri, Ischia. È molto bello qui sopra. Ti dà questa sensazione di aperto, di spazio. Vedi? Qui hai un campanile».
Insiste sul disegno con l’indice con gesto lieve e metodico. Il medio sembra sondare piano le distanze da un palazzo vicino.

Eva contro Eva – Linea lesbica antiviolenza

Se arrivi alla stazione di Bologna e chiedi dov’è il Cassero saranno poche le persone a non saperti dare le indicazioni per raggiungerlo. Tutte o quasi sanno cos’è e dove si trova. A me – giuro – lo spiega una vecchina con le buste della spesa. Forse ci va il figlio, forse ci va lei a ballare, chissà. Il Cassero è lo spazio storico del movimento gay bolognese, sede nazionale dell’Arcigay, nonché celebre discoteca della città. Per entrarci bisogna superare un ponticello che lo collega alla strada, come un fortino. Al suo interno è ospitata anche l’associazione Lesbiche Bologna, che l’anno scorso contava circa duecento socie, solo donne, non tutte lesbiche.

Bologna Pride 2015

«Scusa se c’è poco spazio».
In una piccola stanza piena di libri, faldoni e scatoloni incontro le attiviste. Sono tutte, ciascuna a modo suo, femministe in quanto donne e in quanto lesbiche. Questa doppia definizione verrà rimarcata più volte ed è significativa per capire la loro visione della società. Parleremo anche di patriarcato, ovviamente. Un termine che fa storcere il naso a molte persone, ma che è alla base del loro pensiero e del loro vivere quotidiano. Ma soprattutto parleremo di violenza nelle relazioni, di come loro abbiano deciso di riflettere sul problema e di come affrontarlo e gestirlo.

Un fenomeno che tutte le lesbiche conoscevano nella loro esperienza quotidiana ma di cui si preferiva non parlare in pubblico: la violenza all’interno della coppia e più in generale nelle relazioni affettive.

«Noi partiamo dalla pratica. Poi chiaramente si crea tutta una sovrastruttura teorica con cui devi confrontarti, ma il nostro lavoro è nato da problemi pratici, quotidiani, cioè il fatto di sostenere le donne che hanno bisogno d’aiuto» mi spiega Anita, una delle operatrici della Linea lesbica antiviolenza. È una linea telefonica gratuita e totalmente anonima, nata per intercettare un fenomeno che tutte le lesbiche conoscevano nella loro esperienza quotidiana ma di cui si preferiva non parlare in pubblico: la violenza all’interno della coppia e più in generale nelle relazioni affettive, ad esempio in famiglia.

«Ci lavoriamo da anni, eppure è ancora oggi un tema complicato da tirare fuori. Un tema tabù» mi spiega Carla, attivista bolognese con una lunga esperienza di lotta per i diritti per le persone omosessuali. «È la parte oscura dell’identità lesbica e si preferisce parlarne poco. Noi abbiamo sempre lavorato per la visibilità con lo scopo di trasmettere all’esterno un’idea positiva dell’essere lesbiche, bisessuali o trans, ma sappiamo che nelle nostre vite quotidiane non è tutto sempre così lucido».

“Non una di meno”, 8 marzo 2017, Bologna.

Una parte del movimento lesbico e femminista pensa che quello della violenza “tra donne” è un argomento che, se proprio non si può evitare, è meglio almeno mettere in secondo piano. La paura è che in una realtà come quella italiana, priva di reali riconoscimenti di diritti per le persone omosessuali, far emergere gli aspetti negativi del movimento possa allontanare la conquista di questi diritti. Sono in molte a pensare che l’argomento non sia così importante o che non sia ancora “il momento giusto” per parlarne.

Come raccontava qualche anno fa Giovanna Camertoni del Centro Antiviolenza di Trento, in un convegno dedicato al tema:

«Nessuna di noi pensava che all’interno delle nostre relazioni intime si sarebbero potute verificare delle situazioni di violenza. A dire la verità, quasi nessuna di noi stava o era stata in una relazione di intimità con un’altra donna. Eravamo quasi tutte lesbiche che si incontravano per la prima volta e che provavano a non vergognarsi per ciò che erano. […] Dopo un po’ di tempo ho capito che le dinamiche del potere e del controllo potevano esistere anche nelle relazioni lesbiche».

Da Trento a Roma, passando per convegni e ricerche sul tema, la questione faticosamente viene fuori, e ritorniamo a Bologna e alla Linea lesbica antiviolenza, una delle prime d’Italia. Che sia proprio Bologna non è sicuramente un caso. È storicamente una città LGBTI friendly, ha una lunga storia di lotte per i diritti e anche uno dei primi centri antiviolenza aperti in Italia.

Bologna Pride 2015

«Molte ragazze lesbiche vengono a vivere qua perché sanno che c’è un’attenzione maggiore ai diritti civili» mi racconta Anita.  «Qui vedi normalmente girare in strada coppie dello stesso sesso e ti posso confermare che quando giro con la mia ragazza io mi sento tranquillissima, mentre in un’altra città meno. Questo anche perché è una città universitaria, con un forte ricambio di persone diverse. Qua spesso si dice che i bolognesi non esistono e, in effetti, ci sono tantissime persone che vengono da altre regioni e da altri paesi, dunque è un contesto dove è più facile dare maggiore spazio alle differenze, non chiudersi nella paura».

La paura è che in una realtà come quella italiana, priva di reali riconoscimenti di diritti per le persone omosessuali, far emergere gli aspetti negativi del movimento possa allontanare la conquista di questi diritti.

Anche lei, come credo tutte le persone presenti durante la conversazione, non è bolognese: dopo gli studi ha scelto questa città anche per questo motivo, per la sua apertura.
Tutte, mi spiegano, conoscono amiche che hanno subito violenza o che l’hanno esercitata. Molte donne non sanno però a chi chiedere aiuto, soprattutto le lesbiche, che vivono quella doppia discriminazione (“in quanto donne e in quanto lesbiche”) che rende tutto più complesso. I centri antiviolenza esistono in tutta Italia, ma spesso non hanno l’esperienza o la formazione per casi così specifici che riguardano donne lesbiche, bisex o trans.

Le operatrici della Linea lesbica antiviolenza rispondono da qui, da questo stanzino del Cassero, dove svolgono buona parte delle loro attività. Le operatrici di solito sono due: aspettano che il telefono squilli e, quando capita, una delle due risponde.

«Ci presentiamo, chiediamo l’età e il nome di battesimo, ma ovviamente la persona può dare un nome di fantasia» spiega Barbara, un’altra operatrice. Ha un tono calmo ma deciso, immagino lo stesso che usa quando risponde alle telefonate. «Le chiediamo se in quel momento può parlare, se è in un luogo sicuro. E le chiediamo di spiegarci cosa c’è che non va. A volte si sentono in colpa anche solo per aver chiamato».

Mentre mi raccontano il tipo di casi che trattano, chiudono la porta della stanza, come se qualcuno potesse ascoltare. Mi ripetono varie volte la parola “riservatezza”. I casi che affrontano rappresentano tutte le possibili sfumature della violenza. Si va dalla ragazza che confessa ai parenti di essere lesbica e viene picchiata da tutta la famiglia, fino a donne che si accorgono di essere sotto il totale controllo della partner, alla quale devono chiedere il permesso di uscire per vedersi con un’amica o che devono scusarsi se tornano tardi a casa.

Non semplici litigi, non gelosia nel senso più innocuo del termine, ma abusi, manipolazioni, violenza psicologica, stalking, fino alla violenza fisica e a quella sessuale. Spesso il problema, per le persone, è capire qual è il confine – in tutte le relazioni piuttosto labile – tra il semplice conflitto e la vera e propria violenza, il controllo, il dominio, la sopraffazione. Le operatrici della linea distinguono in modo molto netto questo confine, ma il loro obiettivo è farlo capire alla donna che chiama, e arrivarci con lei.

Bologna Pride 2017

«In tutte le relazioni capita di litigare» dice Barbara. «Ma è violenza quando c’è la paura. Molto spesso si tratta di donne che hanno subito violenza senza rendersi conto, al momento, che fosse violenza. Noi come prima cosa le ascoltiamo e le sosteniamo, ma cerchiamo anche di usare le parole giuste, ampliare la visione che loro per prime hanno dato a certi episodi della loro vita di coppia, contestualizzarli».

Il punto fondamentale è l’asimmetria nel rapporto. «Il conflitto, le discussioni, i litigi: sono tutte cose normali nei rapporti di coppia» spiega Anita. «In una relazione normale ci sono compromessi: una volta ha ragione una, una volta l’altra, e così via. Ma nei casi che trattiamo non è così. Di solito c’è una delle due partner che sistematicamente controlla, domina, insulta, sminuisce e zittisce l’altra partner. Sistematicamente, per molto tempo. In questo caso si parla di violenza psicologica, che può sembrare meno grave di uno schiaffo, ma non è così».

«Uno schiaffo è uno schiaffo» continua Barbara. «Fa male ed è una violenza facile da riconoscere. Ma spesso nelle relazioni affettive si verificano altre forme di violenze più subdole e difficili da riconoscere. Mesi di pressione, controllo e di logorante pressione psicologica sono devastanti quanto uno schiaffo, forse di più».

Se tutto questo è già abbastanza complicato nelle relazioni etero, lo è ancora di più in quelle tra persone dello stesso sesso, in questo caso donne. Per vari motivi. Ad esempio può risultare difficoltoso per gli operatori giuridici riconoscere come violenza domestica la violenza fra donne che convivono e hanno una relazione stabile, ma che la legge non riconosce come coppia e tantomeno come famiglia. Ma influisce anche la paura e la vergogna della persona maltrattata di non essere creduta a causa dell’idea per cui la violenza è possibile solo tra uomini e donne, dato che la violenza è considerata “maschile”.

Inoltre molte donne hanno paura di mettere in crisi la propria identità lesbica lasciando la partner. La coppia è spesso l’unico spazio in cui si sentono bene, in cui si sentono se stesse. Ma questo spazio può diventare soffocante,  generare dipendenza e controllo. Capita anche che l’accusa sia quella di “non essere abbastanza lesbica” o di non esserlo nel modo giusto.

«Ci sono capitati casi di attiviste femministe che subivano violenza all’interno della coppia» spiega Anita. «Una magari pensa di essere vaccinata, di avere l’antidoto, ma non è così: anche le attiviste subiscono violenza. Ma c’è un forte tabù nel parlarne, soprattutto da parte di chi fa parte della comunità. Vergogna di sicuro, ma anche paura di screditare il movimento».

Bologna Pride 2018

«Così come può succedere che nella coppia c’è una delle due che ha fatto coming out e l’altra no» racconta Carla, «e allora può dire: se tu mi lasci io ti rovino, dico a tutti che sei lesbica e per te può essere un problema al lavoro, in famiglia. Questo può essere un ricatto sia nella relazione… ma anche in un gruppo politico».

«Si fa molta fatica a denunciare una violenza subita in un contesto di attivismo perché non vuoi rovinarne la reputazione» spiega Anita. «Ma questo accade in tutte le cerchie sociali. All’interno di una cerchia si fa fatica a denunciare, prima di tutto perché ti senti in colpa quando subisci violenza, ci si sente quasi complici in quello che accade, quindi sembra quasi una punizione eccessiva denunciarla, diffamarla… E poi c’è l’idea che dobbiamo difenderci dal mondo esterno, non da quello interno» aggiunge indicando un punto generico.

«E poi c’è l’idea che dobbiamo difenderci dal mondo esterno, non da quello interno».

Questo è uno dei motivi per cui alcune lesbiche femministe non vedono di buon occhio l’idea di gettare una luce su un fenomeno normalmente tenuto all’ombra. In sostanza, per motivi politici, ideologici, e di immagine pubblica.

«Molte lesbiche contestano il nostro lavoro perché dicono: il problema non sono le lesbiche, sono i maschi» continua Anita. «Hanno paura che noi finiamo per parificare e appiattire la gravità della violenza maschile sulle donne perché, in sostanza, il nostro discorso è che anche le lesbiche agiscono violenza. Ma affrontare la violenza nelle relazioni lesbiche non vuole in nessun modo erodere il problema della violenza maschile sulle donne, ampiamente più diffuso. Ed è schifoso utilizzare questa argomentazione per appiattire tutto il discorso sulla violenza».

Come ammette Carla, fino a qualche anno fa anche lei avrebbe preferito evitare l’argomento: «Per un certo periodo pensavo che non si dovessero tirare fuori queste questioni, ti parlo degli anni Novanta, degli anni Duemila. All’epoca era giusto lavorare per venir fuori, per rafforzarsi, per essere felici di essere lesbiche e per far capire agli altri fuori che eravamo lesbiche e che stavamo bene e che non volevamo che nessuno ci impedisse questa libertà. Quindi è ovvio che in quel periodo parlare della violenza nelle relazioni non aveva senso, era più importante sconfiggere la violenza maschile. Ma un conto è non voler affrontare la questione, rimuoverla. Un conto è cercare di ragionare su quello che si vedeva e sul fatto che obiettivamente anche tra donne la violenza esiste. E di capire perché, da dove viene, e cosa fare».

«Se in una coppia lesbica c’è della violenza molte dicono che sono solo due lesbiche che litigano, perché il problema è solo l’uomo, la violenza è solo quella maschile» aggiunge Anita.

E dunque ecco la domanda: la violenza è maschile? Se tra due donne si instaura un rapporto di violenza e controllo la spiegazione è che hanno interiorizzato il modello maschile? Secondo molte attiviste sì: il modello patriarcale è tanto invadente da essere assunto anche da coloro che vivono relazioni omosessuali.

«Le radici possono essere le stesse» spiega Carla, «ma è ovvio che per una lesbica c’è tutta una questione dell’essere lesbica, da come vive la propria identità, all’accettazione di sé, all’accettazione sociale, alla relazione con l’altra collegata anche a come nella coppia si vive il fatto di accettarsi come lesbica socialmente. Insomma ci sono tante questioni che sicuramente non riguardano le relazione eterosessuali tra uomini e donne».

L’errore più frequente e immediato è mettere sullo stesso piano i fenomeni di violenza all’interno delle relazioni eterosessuali e quelli all’interno di relazioni omosessuali, cioè pensare che siano la stessa cosa, che la violenza sia ovunque e ovunque si manifesti allo stesso modo. Un’equazione semplice e scontata. Ma è corretta? La risposta di Carla è netta: «Assolutamente no» mi secca con un tono che non ammette repliche. «Non sono la stessa cosa. Questo è ridurre, banalizzare, ignorare che la nostra società è impostata in un certo modo, che è basata sul predominio maschile sulle donne a tutti i livelli. Diamo i nomi alle cose: il patriarcato».

Corteo Sommovimento Nazionale 21 maggio 2016, Bologna

Sapevo che prima o poi questa parola sarebbe venuta fuori. Chiedo ad Anita di darmi la sua definizione di patriarcato immaginando di doverla spiegare a chi non ne ha mai sentito parlare. Sorride, mi dice «sì, ci provo».

Sorride perché sono concetti su cui ha riflettuto a lungo e che fanno parte della sua esperienza quotidiana, ma sa che non è così per tutti. Ad esempio non è così per me.
Un punto che non va sottovalutato è proprio questo: per quanto ci si possa sentire distanti dalle posizioni delle lesbiche femministe, non si può negare che ogni singola questione loro l’hanno prima vissuta, poi analizzata, studiata, discussa. Questo perché nella loro vita personale, perfino nella loro vita intima, il piano individuale e quello sociale sono continuamente sovrapposti.

Per dirla semplicemente: un cittadino eterosessuale, a meno che non se ne occupi per lavoro o per studio, può fare a meno di riflettere su certi temi, cioè su quanto la sua vita relazionale, intima, affettiva sia influenzata dalla società. Per una lesbica questa riflessione obbligata – o “auto-formazione continua” come la chiamano – è quasi quotidiana.

Da qui anche l’uso di un linguaggio complesso, e alle mie orecchie poco allenate quasi indecifrabile, che utilizza termini provenienti da ambienti accademici, soprattutto dalla sociologia, ma anche dalla psicologia e dagli studi culturali. Un linguaggio che può allontanare o spiazzare chi normalmente non si interessa a certi temi. Qualche esempio? Etero-normato, etero-normativo, omo-normatività, binarietà, soggettività, complementarietà, subordinazione tra i generi, omolesbotransfobia, lesbofobia interiorizzata, eterosessualità obbligatoria interiorizzata, intersessualità, empowerment, monogamia inerziale… e patriarcato, appunto.

«Dunque» riprende Anita, «cos’è il patriarcato. Si tratta di una struttura della società in cui esistono delle forti gerarchie che prevedono che esista una categoria predominante che possiamo identificare nell’uomo bianco etero benestante o ricco, abile e – volendo fare l’occhiolino all’eco-femminismo – diciamo anche carnivoro». Sorride. Poi riprende: «Quindi il patriarcato è una struttura verticistica al cui apice c’è questa figura maschile e sotto vengono tutta una serie di categorie che valgono sempre meno, che hanno sempre meno potere. Ad esempio un gay nero vale meno di un gay bianco, ma una donna vale meno di un gay, e la donna lesbica vale meno della donna etero».

Si ferma, ci pensa un attimo, mi espone un concetto e poi me lo ripete in altro modo. Da questo deduco che riflette molto accuratamente mentre parla, ma anche che sono discorsi che ha fatto molte volte e che forse teme che io non stia capendo.

«Il patriarcato è un modello che si applica a tutte le società o quasi, e a tutti i contesti: nel lavoro, nella politica, nella famiglia, nell’economia. Ma anche contesti come lo sport. Pensa al calcio. Gli uomini sono professionisti, hanno gli stipendi, mentre le donne sono tutte dilettanti. Anche nella serie A non hanno contratti professionistici, è considerato uno sport dilettantistico».

Le propongo un esperimento. Identificando nel prototipo dell’uomo al vertice Donald Trump, bianco, etero, ricco e potente, chiedo ad Anita quale sia la figura più lontana da lui, la persona più lontana dall’attuale presidente degli U.S.A. Ci riflette un attimo, poi risponde: «Forse l’entità più lontana è una donna nera lesbica disabile. Anzi, una donna nera trans lesbica con disabilità, ecco. Forse questa entità è proprio la cosa più lontana da Trump».

Dal punto di vista di Anita, se il patriarcato è il problema, il femminismo è la soluzione. «Anzi, i femminismi» dice. «Ma questo non significa che le donne debbano scalzare questa figura all’apice e occuparne il posto. Dovrebbe significare invece una equità tra tutte le persone. Che non vuol dire una eliminazione delle peculiarità individuali, ma una parità di opportunità. Non ci dovrebbero essere differenze che ti garantiscono immediato successo perché sei bianco, maschio, etero e ricco. Ovviamente questo riguarda anche gli uomini: un uomo povero, magari particolarmente non macho, non brillante, non forte, è comunque svantaggiato in un certo mondo economico competitivo. Certo, è comunque un uomo, quindi ha maggiori privilegi rispetto a una donna».

Chiedo ad Anita se al posto di “patriarcato”, così, per gioco, potremmo mettere la parola “capitalismo”. La risposta è no. «Perché il capitale non fa differenza tra uomini e donne» spiega, «è una differenza tra ricchi e poveri, tra sistemi economici. Il capitale è come la morte: non gliene frega niente di chi ha davanti. Se un elemento è produttivo, anche se disabile e donna, non fa differenza. Invece il patriarcato considera queste differenze. Il capitale ha altri criteri di valutazione, quello dei soldi. Produttivo o non produttivo. Io direi che il patriarcato è capitalista, ma non che sono la stessa cosa».

A questo punto mi chiedo: e se invece il problema fosse la coppia? Se fosse la coppia l’ambiente fertile per i comportamenti violenti? «Non penso che la coppia sia il problema» risponde Anita. «Il problema forse è che la coppia è considerata l’unico modello relazionale, l’unico giusto che le persone possono e devono mettere in pratica».

Insomma, la coppia come modello migliore ma solo perché gli altri sono peggiori, come la democrazia secondo la definizione di Churchill?

«Esistono tanti modelli relazionali» continua Anita. «Questo il movimento LGBTI lo sa perché lo mette in pratica e quindi fa un po’ da contraltare alla cosiddetta famiglia tradizionale. Ma il punto non è andare contro qualcuno, non è quella la battaglia. Se una persona vuole sposarsi e avere cento bambini per me deve poterlo fare. Ma le persone vivono tante relazioni diverse, e questo lo sappiamo dalla pratica, non dalla teoria. E in una società che ti dice tu maschio sei blu, tu donna sei rosa, il vostro ruolo è sposarvi e fare figli, io sono già fuori, che lo voglia o no: perché sono una rosa che sta con una rosa. Il problema si pone quando io dico: ma perché dev’essere obbligatorio che blu debba stare con rosa? In quel senso metti in crisi la famiglia tradizionale, ma lo scopo non è impedire alle persone che vogliono quello di farlo. Lo scopo è dire: a me capita una cosa diversa».

Dai dati però emerge che la violenza è soprattutto domestica, cioè avviene all’interno delle coppie, delle famiglie, delle case. «Perché nella nostra cultura la coppia etero è il modello predominante a cui tutti devono adeguarsi. Dunque certo, se andiamo a vedere i dati dei centri antiviolenza, la maggior parte delle violenze sono violenze domestiche. Questo perché la maggior parte delle coppie sono coppie monogame sposate».

Dunque, domande su domande, in un ipotetico pianeta fatto solo di donne, o di “altre soggettività” che vivono relazioni di ogni tipo, non ci sarebbe la violenza? Si vivrebbe finalmente in pace, senza violenza, senza dominio e senza controllo?

«Io non so se vivessimo in una società in cui le relazioni fossero tantissime e diverse, quali percentuali di violenza ci sarebbero. Non lo possiamo sapere» continua Anita. «Di sicuro non è la coppia in sé che porta la violenza, ma la coppia come unico modello di relazione e, soprattutto, con i ruoli così rigidamente strutturati. E gli stereotipi favoriscono la violenza, perché restringono la persona-maschio in un’idea di tutto dovuto: vita pubblica, sicurezza, forza, determinazione. Le cosiddette caratteristiche maschili».

Corteo Sommovimento Nazionale 21 maggio 2016, Bologna

E queste dinamiche si riflettono anche nelle coppie lesbiche, dove il maschio è assente fisicamente ma presente come fantasma? «Sì. Per molti anni all’interno della comunità lesbica, e tuttora forse, c’è stata questa divisione in butch e femme. La butch è questa figura della lesbica rappresentata come una donna grossa con la camicia di flanella, un po’ uomo, e ricalca quel ruolo nella coppia e nella società, mentre la femme è truccata, ben vestita, e assume il ruolo femminile. Oggi non è più tanto così, lo noti anche a livello estetico».

In effetti una delle rivendicazioni che alcune ragazze e attiviste fanno durante i pride e che si leggono spesso sui cartelli è “sono lesbica e ho i capelli lunghi”. In un certo senso è una critica verso la comunità LGBTI stessa, a quella parte che non vuole le lesbiche troppo “femminili”, ma anche una provocazione all’immaginario collettivo.

«Nell’immaginario le lesbiche, basta guardare i porno, o sono delle porcone o delle stupide cesse e antipatiche» continua Anita. «Le donne trans ad esempio nell’immaginario collettivo sono le prostitute, e ovviamente non è così. Le lesbiche vengono rappresentate come antipatiche, un po’ come si faceva con le suffragiste (suffragette è un modo dispregiativo di chiamarle) che venivano rappresentate nei cartelloni satirici come delle stregacce orrende con i nei pelosi. Ma è quello che si fa sempre: la categoria predominante quando si sente minacciata utilizza la denigrazione, quindi la femminista diventa una zitella acida frigida, la lesbica è incazzata e antipatica perché nessun maschio se la vuole scopare e via dicendo. Anche la retorica per cui le lesbiche e le femministe odiano i maschi è ben pensata. Perché è un modo per impedire anche la comunicazione. Le lesbiche femministe che conosco io non vogliono evirare nessun maschio, né odiano i maschi in quanto maschi. La critica è a una struttura, o al singolo uomo violento se vuoi entrare nel personale, ma nessuna ragazza che conosco pensa che sia una colpa avere un pene».

Questo dell’identità e dell’immaginario collettivo è un altro di quei problemi sui quali a Bologna sembrano averci riflettuto non poco: «Il problema è che viviamo in un mondo in cui hai due modelli, maschile e femminile. O hai la fortuna di nascere e aderire a uno o l’altro senza pensarci troppo, oppure senti che non appartieni a uno dei due. Una lesbica non sente necessariamente di appartenere a uno dei due» spiega Anita.

«Però per molto tempo la cosa che più si avvicinava al loro modo di essere era il modello maschile. Perché non si riconoscevano nel modello femminile più diffuso e stereotipato. Sai la donna con i capelli lunghi, sempre a dieta, con le unghie laccate? È la cosa più lontana da me che esista. Preferivo i jeans e la camicia. E chi dei due li porta? L’uomo, bene: allora mi sento più vicino all’uomo. In un contesto in cui non si ha modo di riflettere su questo, un contesto di isolamento dove non si conoscono altre persone lesbiche, che fai? C’è il rischio di acquisire uno dei due modelli per essere accettata, di omologarti: è comprensibile, è sopravvivenza. E i modelli a cui adeguarsi sono quelli».

«Gli uomini gay sono comunque uomini».

A questo punto, una domanda ancora: questa riflessione sulla violenza all’interno delle relazioni omosessuali viene portata avanti, al momento, dalle donne. E invece nel mondo maschile gay?

Corteo Sommovimento Nazionale 21 maggio 2016, Bologna

«In effetti, che io sappia, non è una tematica che il movimento gay porta avanti e sulla quale riflette. E sicuramente anche nelle coppie di maschi gay c’è della violenza. Perché non se ne occupano? Non lo so. Credo che le ragioni siano le stesse per cui anche noi ce ne siamo occupate dopo molto tempo, perché bisogna portare avanti un’idea positiva della persona LGBTI. Poi va detto che le lesbiche sono una specie di bolla intermedia tra il movimento femminista e il movimento omosessuale. Condividendo queste due caratteristiche, cioè “in quanto donne e in quanto lesbiche”, hanno avuto questa possibilità di intersezione tra queste due realtà. Il tema della violenza è un tema che è sempre stato affrontato dalle femministe. Quindi non è strano che la parte LGBTI che più ha recepito questi temi sia proprio quella delle donne lesbiche».

Dunque un ritardo nella riflessione da parte degli uomini omosessuali si può spiegare anche così, e questo forse rispecchia anche quello che è la nostra società. Forse anche per loro non è ancora “il momento giusto”?

«Probabilmente gli uomini fanno più fatica a riflettere su argomenti come il patriarcato e la differenza di potere» dice Anita, «perché da un lato è una categoria che detiene maggiore privilegio, e quindi dovrebbero fare autocritica. Per le donne è una liberazione. Io ad esempio faccio attivismo perché vivo sulla mia pelle delle discriminazioni in quanto donna, quindi mi incazzo e porto avanti riflessioni che si traducono in pratica politica. Gli uomini, invece, da una parte hanno dei privilegi sociali e dall’altra anche delle pressioni, il machismo, la vergogna dell’emotività… Quindi è chiaro che anche gli uomini subiscono il patriarcato, ma fanno più fatica a sentirlo come un problema. Gli uomini gay sono comunque uomini».

*Le fotografie ritraggono momenti delle manifestazioni del movimento LGBTI bolognese tra il 2015 e il 2018.

Questo il numero della Linea Lesbica Antiviolenza: 3913333405

Certamente i tempi sono stati interessanti – La Biennale di Venezia 2019

– Il presente articolo è stato rivisto un anno dopo la pubblicazione, nel mese di giugno 2020, alla luce dei fatti accaduti a livello internazionale, ndr

La 58° Biennale di Venezia si è aperta con un titolo, che almeno nelle intenzioni del curatore Ralph Rugoff, è augurio a tempi migliori. May you live in interesting time… O forse no? 

L’arte può far vivere di certo tempi interessanti ma, ci chiediamo noi, può rendere il tempo attuale davvero interessante? 

Questo augurio va raccolto e interpretato, certo è che, anche solo a pochi mesi di distanza, quello che stiamo vivendo non è ciò che potevamo immaginare. Nonostante questo, fuor di dubbio interessante.

I fatti di oggi ci proiettano, dritti dritti, a immaginare come sarà la prossima Biennale di Venezia e mettere a confronto la biennale pre e la biennale post pandemia.

Deep Sea Blue Sorrounding You – Francia

Ma ora pensiamo a quella in corso, che è ricca di proposte cosi come di polemiche, e non potrebbe essere altrimenti.

Meritatissima a parer nostro la vittoria della Lituania che con un po’ di Sole e Mare, non certo scontato da quelle parti, (andate a scovare il progetto Sun&Sea di Stephanie Rosenthal) ha fatto vedere qualcosa che dal nord europa non ci saremmo mai aspettati. Corale, potente e decisamente interessante.

Oltre alla repubblica baltica anche altri stati han fatto segnare una tacca di qualità e ‘cura’ nel senso più alto del termine ma per una volta e per fortuna non i soliti.

Decisamente sottotono le proposte di Germania, Gran Bretagna e Italia, la prima ancora galvanizzata dalla bellissima azione di Anne Imhof del biennio precedente che gli era valsa il Leone d’Oro, propone un allestimento di Natascha Süder Happelmann a cura di Franciska Zólyom, scenografico ma poco di più. Delicata anche la biennale dell’inglese Cathy Wilkes, ma non credo di sbagliarmi a dire che la dimenticheremo presto. Per quanto riguarda il belpaese, anch’esso scosso nel 2017 dalle magie di Cecilia Alemani con il suo trio di artisti ‘dark magic’ si perde letteralmente in un labirinto e se i muri e gli allestimenti pesano più delle opere, Milovan Farronato finisce per annoiare un bel pò. 

Non tutto è perduto però, tra le grandi nazioni la Francia tiene alto il vessillo dei ‘founders’ con un bel mondo creato da Laure Prouvost. Per chi ha avuto modo di vedere il suo allestimento di qualche anno fa in Hangar Bicocca, sa di cosa parlo.

Mondo cane – Belgio

Invece piacevolissime sorprese quelle di alcuni stati che solitamente sono meno in vista. Il mondo orrorifico creato dal Belgio, certamente fa venir voglia di farci un viaggio. Mondo Cane il titolo del progetto degli artisti Jos de Gruyter e Harald Thys che mettono in scena un museo folk, popolato da personaggi meccanizzati a grandezza reale, ognuno con la sua storia da incubo.

Un’altra menzione va fatta al Ghana, neo ammesso di questa biennale che presenta un bel percorso sulla libertà e infine a noi è piaciuto moltissimo il progetto Swinguerra proposto dai due artisti brasiliani: Bárbara Wagner & Benjamin de Burca.

Ma la Biennale di Venezia è innanzitutto la grande mostra internazionale e Rugoff ha fatto un buon lavoro. La ricerca dell’interessante passa in primis dalla proposta di due percorsi A e B per i due spazi allestiti (Arsenale e Padiglione centrale dei giardini) stessi artisti che nelle due sedi propongono due opere differenti, questo diktat curatoriale funziona e piace. Potremmo passar molto tempo a raccontare un po’ di lavori ma noi di CTRL preferiamo in questo caso far parlare le immagini.

Solo un appunto, non perdetevi il Leone d’oro alla carriera Jimmy Durham. Buona visione.

Il poeta e il fumettista – Convivere con Andrea Pazienza

Nel dialetto sloveno locale è conosciuta come “Topoluove”, situata a pochi chilometri dal confine tra Italia e Repubblica della Slovenia, nell’estremo Friuli-Venezia Giulia, è la frazione più popolosa del Comune di Grimacco. Ogni luglio, da ventiquattro anni, si popola delle più varie personalità creative in occasione della rassegna artistica che prende il nome di Stazione di Topolò, Postaja Topolove. Non so molto altro mentre mi dirigo lì, ho fiducia che il luogo stesso mi parlerà per farsi conoscere. Suo principale portavoce sarà per me Moreno Miorelli, non solo poeta, ideatore e organizzatore del festival, ma anche ex coinquilino di Andrea Pazienza, nel suo periodo a Montepulciano.

Abbiamo appuntamento alle nove nella piazzola che affaccia sulle montagne, più che una piazzola è un incrocio di viottole. La frazione ne è piena, è un borgo piccolissimo, tutto raccolto nelle montagne, a circa seicento metri di altitudine. È un luogo che non parla subito, aspetta a schiudersi. Rompe il suo guscio di foglie e sassi, curva dopo curva, non alla prima, non alla seconda, nemmeno alla terza. Ma se pazienti lo vedi. Gli alberi fanno spazio per un secondo alla vista panoramica. Da quel punto vedi l’intero borgo in lontananza, centrato in pieno dal sole, che ti saluta. Ti spiazza.

Il confine qui è stato attraversato dalla Guerra Fredda per anni e in quanto zona militare non avrei potuto raggiungere la zona con una macchina fotografica, sarebbe stata sequestrata. Per lo stesso motivo questi paesi non venivano tracciati sulle cartine di sentieristica, al loro posto veniva raffigurata solo una macchia verde. Nel 1991 con la caduta della Jugoslavia e del comunismo è divenuta accessibile.

È un luogo che non parla subito, aspetta a schiudersi. Rompe il suo guscio di foglie e sassi, curva dopo curva.

Moreno è alto, è illuminato di luce. Ha un sorriso accomodante e contagioso, stagliato in un viso segnato ma al contempo disteso, tutto barba incolta e capelli brizzolati. È raggiante nella sua camicia tartan azzurra e bianca. Mi fa strada fino alla sua casa, una salita di qualche gradino in pietra, la villetta affaccia su un’ampia vallata. All’interno c’è una luce calda e tenue. Alla finestra, sotto le tende colorate, una mosca si centrifuga contro il vetro. Moreno siede alla mia destra.

“È una zona molto densa, e questa densità è qualcosa che ha fatto nascere la Postaja, che vuol dire stazione, in sloveno”, mi spiega Moreno. Stazione Topolò è metafora di tante cose, non è un vero e proprio festival, più che altro un laboratorio dove artisti internazionali propongono interventi ed opere che giudicano adatti alla realtà del luogo.

“Abbiamo portato qui delle persone che sanno mettersi in ascolto, non solo esporre. Dal 1994 vengono in queste valli perché si possano guardare intorno, vivere questa atmosfera con l’obiettivo di creare qualcosa, sulla base di quello che ascoltavano, vedevano, sentivano, provavano” aggiunge.

Questi qui si sono alzati alle cinque del mattino, se ne stanno tutto il giorno sotto il sole a vendere cose e io gli dico “Faccio fumetti”?!

Tramite una ricerca sonora, visiva e narrativa la cultura respira e rivive in tutte le sue forme adattandosi all’ambiente circostante. Un luogo al limite del reale. “E come mai hai deciso di darle questo nome?” chiedo. “Non è stato facile trovarne uno adatto, ed essendo in difficoltà ho deciso di utilizzare un metodo che nel mio caso è infallibile. Ho gli scaffali dei libri di poesia, li osservo, passo e ne prendo uno a caso. Ho aperto Evtušenko, La stazione di Zimà. Alè. Stazione di Topolò”. Sorride.

Un nome azzeccato, penso. La gente arriva da ogni dove, sosta il tempo necessario per rigenerarsi spiritualmente, per incontrare altri artisti e spettatori. Arriva con una valigia vuota e riparte con bagagli carichi di nuove idee, ricordi e dolcetti tipici sloveni (almeno nel mio caso).

Moreno lo sa bene, sa quanto valore abbia il clima di libertà che vige a Topoluove, lui che la libertà l’ha sempre inseguita sin da ragazzo. Non a caso saluta la famiglia e a ventiquattro anni si trasferisce dal biellese a Montepulciano con il suo furgone. Va in giro ora trasportando mobili, ora aiutando con le vendemmie e le raccolte delle susine. Si inventa perfino di fare da Cicerone per le strade di Montepulciano e Pienza quando ancora la zona non era molto conosciuta e turistica, intercettando quei rarissimi pullman di visitatori che arrivavano lì per assaggiare il vino nobile.

“Sai in quegli anni ci si spostava così, si inseguiva la bellezza. Non seguivi il lavoro e non c’erano quelle regole che oggi non ti permettono di vivere così. All’epoca era tutto sciolto. Si viveva proprio alla giornata, eravamo in tanti fuori di casa, la vita in qualche modo la sfangavi”.

Ed è proprio a Montepulciano che Moreno conosce l’allora ventottenne Andrea Pazienza, nel 1984, ormai mito del fumetto nei giri bolognesi e nel resto dell’Italia. Non sa molto di lui quando diventa suo coinquilino nel grande appartamento dove la proprietaria per alloggiare Andrea e Marina, sua moglie, aveva sistemato un armadio per separare le due zone della casa.

“Ci parlavamo attraverso quello. Da dove stavo io al lato di appartamento dove stava lui. Io avevo meno soldi, potevo permettermi una sola stanza. Lui non aveva molti soldi, però godeva degli aiuti di Mauro Paganelli, di Editori del Grifo, che lo aveva tolto da Bologna, dove rischiava un po’ la vita perché era finito già due volte in rianimazione”.

Moreno e Andrea, Montepulciano, maggio 1987

Entrambi amanti delle passeggiate i due legano in fretta. Ogni giorno escono per esplorare le terre toscane della Val D’Orcia.
“Lui era sempre fuori di sé, con gli occhi fuori dalle orbite, attentissimo agli animali, alle storie delle persone, a tutto. Una bellissima persona. Era molto diverso dal personaggio trasgressivo e alternativo che viene fuori dai suoi fumetti”.

Durante quel periodo Moreno si interessa di arte e icone bizantine oltre che di poesia, e pianifica di laurearsi. Così, mentre fa ricerca per lavorare alla sua tesi, coglie l’occasione per avvicinare Andrea al mondo dell’arte rinascimentale dei dintorni, di cui lui non era a conoscenza. Paz se ne appassiona rapidamente e resta folgorato davanti ad opere come il dipinto dell’Annunciazione del Beato Angelico, al museo di Cortona, in provincia di Arezzo.

“Siamo entrati in questa stanza e l’Annunciazione era lì, un quadro incredibile. Ricordo che lui entra, si porta le mani alla testa, esce in fretta, e mi fa Non posso, non posso, aspetta, aspetta, aspetta. Si calma per qualche minuto e dopo un po’ di tempo decide di rientrare. Ebbe un’emozione fortissima nel vederlo. C’è rimasto davanti non so quanto. Era inverno, eravamo vestiti pesante, andiamo nel bar davanti al Museo per prendere un cappuccino e lì mi dice Morris – perché mi chiamava così – dobbiamo tornare dentro, io devo rivederlo, però cazzo io non gli do i soldi di nuovo per rientrare. Allora rientra, chiacchiera con la cassiera, prende a raccontarle perché deve assolutamente rivedere il quadro. La assedia al punto che alla fine lei ci fa entrare di nuovo, estenuata”.

A sinistra, illustrazione di Andrea Pazienza per il fumetto Campofame. A destra, illustrazione per “Tre canti”, il poema scritto da Moreno.

Mentre vengono alla luce altre storie di quelle giornate si delinea perfettamente nella mia mente l’immagine di Andrea Pazienza dagli occhi di eterno bambino, travolto dalle sensazioni e dalle emozioni in modo unico e irripetibile, quasi fosse senza pelle.

“Mi ricordo che davanti alla Rocca d’Orcia c’era lo strapiombo continuo, noi eravamo seduti uno di fronte all’altro. Gli raccontavo le storie degli imperatori bizantini, lui se ne stava a fissarmi, poi si alzava ed espirava forte, come per defaticare, poi si risiedeva e mi diceva di riprendere”.

Moreno mi parla di come insieme hanno sbloccato il Pompeo, che era fermo da un po’ quando un giorno decise di fargli ascoltare un disco recuperato dai suoi scatoloni pieni di libri di poesie, suo unico mobilio. L’ellepì in questione era un disco doppio di Carmelo Bene che legge Blok, Majakovskij, Pasternak ed Esenin, versi che effettivamente ritroviamo proprio nel fumetto. Non appena Paz le sente casca per terra e scoppia in lacrime. Moreno viene travolto dal panico convinto gli fossero venute delle coliche, che stesse per avere un infarto. Andrea! gli chiedo, cosa faccio, chiamo un’ambulanza?No, no! mi risponde, questo, questo, voglio sentirlo ancora!. Prendeva le cose così. A quel punto non so quante volte lo risentimmo quel giorno”.

Una signora ci chiede da quante ore stiamo parlando. In effetti con Moreno il tempo scorre diversamente.

“Così sbloccammo il Pompeo e lo portò alla fine, anche perché nel fumetto tutto quello che vedi è trasposizione del reale. Andrea non inventava niente, si può dire fosse quasi senza fantasia. Si muoveva partendo dal racconto di tutti, magari faceva delle modifiche, ma raffigurava immagini precise”.

Quando Moreno parte e si trasferisce in Piemonte assieme alla sua prima moglie i due continuano a sentirsi telefonicamente per scambiarsi informazioni e raccontarsi storie.

“Lui aveva questa passione del telefono, ci trascorreva ore e ore. Che fossero i suoi amici, sua mamma, sua sorella, proprio con un atteggiamento del Sud. La famiglia prima di tutto”.
Tutto questo era una vera sciagura per la signora del bar che abitava a circa quattrocento metri da casa di Moreno, che non aveva il telefono. La poveretta, una signora anziana, ogni giorno doveva raggiungerlo a piedi ad avvisarlo. Guardi che c’è il suo amico diceva, mi racconta sorridendo.

Ben presto decidono di realizzare insieme una storia, intitolata Campofame, che esce sulla rivista di Comic Art, viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001.
Il poema era di un americano poco conosciuto di nome Robinson Jeffers. Racconta di un uomo che vive in una zona sulla costa del Carmelo in California, chiamato alle armi nel 1918 e ferito mortalmente durante un conflitto. Prima di spirare, l’uomo vede arrivare la morte e intrattiene un combattimento con lei sconfiggendola.

“Quando sente questa storia del combattimento con la Morte fu come per Carmelo Bene, mi interrompe immediatamente, all’improvviso corre su per le scale – lui si muoveva proprio come nelle sue vignette – quattro gradini alla volta. Si attacca al telefono e chiama subito la Rizzoli, di cui conosceva la segretaria, e comincia a raccontarle questa storia incredibile di quest’uomo. Sai che quest’uomo ha combattuto con la Morte?? le dice.” Ridiamo.
“Proprio lui non aveva… sai, non pensava questa qui magari sta prendendo un caffè, sta lavorando, sta pensando agli affari suoi, no. Fermi tutti, c’è un uomo che ha combattuto con la morte!, ma in lacrime lo diceva, capisci? In lacrime. Piangeva molto, aveva questo dono, raro per gli uomini, di commuoversi. E aveva questa grande capacità di coinvolgimento, chiunque si sentiva importante di fronte a lui. Ti alzava di grado, ti faceva sentire Napoleone. Non era un metodo però, era un atteggiamento di pancia, avrebbe anche potuto non disegnare”.

“Dunque Andrea non è mai stato a Stazione Topolò, pensi gli sarebbe piaciuto?” gli chiedo.
“Uff, non ce lo saremmo più tolti di qua”, risponde ridendo. “Avrebbe fatto di tutto. Qui abbiamo proiettato il documentario Andrea Pazienza a Montepulciano in cui ci sono le testimonianze della gente di lì su com’era l’Andrea che conoscevamo. Una specie di boy-scout con dei tratti completamente diversi da quelli che descrivono le persone che l’hanno conosciuto a Bologna. Lui aveva una sorta di doppia personalità, chi se ne intende di oroscopi ti avrebbe detto che era proprio del segno dei Gemelli. Perché in effetti in città lui probabilmente diventava un altro”.

Moreno illustrato da Andrea Pazienza

A pensarci bene, mi torna in mente come proprio nel Pompeo Andrea scrive: “Ora che vivo in campagna i ragazzi di qui mi chiamano vecchio Paz e, faccio per dire, ho ventinove anni”.

“A Montepulciano era davvero una persona pulita. Talmente pulita da essere addirittura un benpensante. Mi ricordo che dopo un paio di settimane delle nostre passeggiate pomeridiane, tutti i giorni, in giro per i colli della Toscana, un giorno mi ferma, mi dice Ferma. Adesso te lo dico, ed io ho pensato porca puttana, adesso mi dice che è omosessuale, che si è innamorato, chissà che cosa. Pensai immediatamente a quello, aveva la voce tremante, con lo sguardo agitato. Mi dice penso che se ti dico questa cosa dopo non sarai più mio amico come prima. Non sapevo cosa fare, ero già pronto a rispondergli che non ricambiavo il sentimento. Io, io… fino a poche settimane fa e non adesso, io mi drogavo, mi dice. Io ero dei uno pochi a non farsi e ne conoscevo pochi altri, buona parte dei miei amici allora erano tossici, per cui mi chiedevo quale fosse il problema. Lui tira un enorme sospiro di sollievo, e mi fa io non sapevo come dirtelo, io ero disperato. Quel gesto mi ha sconvolto quanto vederlo per terra dopo le poesie che gli avevo fatto ascoltare. Avevo letto i suoi fumetti, sapevo di che scriveva, non mi spiegavo come potesse avere istintivamente una reazione di paura e vergogna per il fatto di bucarsi, in un periodo in cui tutti si vantavano di bucarsi. Perché tutti si vantavano. Quella era la linea di demarcazione. È l’unica persona di centinaia che incontrai di quelle che facevano uso di sostanze pesanti che abbia vissuto in quel modo l’eroina. Invece a Bologna era un altro, aveva un pubblico che gli richiedeva essere il Pazienza dei fumetti”.

Dalle parole di Moreno sembra trasparire una sorta di piccolo dramma personale che probabilmente Pazienza ha sofferto negli ultimi anni della sua vita. Quando realizzava cose come Campofame prendeva appena la sufficienza sulle classifiche realizzate da Comic Art, mentre schizzava subito al dieci non appena uscivano nuove vicende su Zanardi, personaggio ampiamente più noto.

Si intuisce quanto possa risultare difficile per un artista continuare a realizzare sempre la stessa cosa. Come chiedergli di continuare a vivere lo stesso sentimento all’infinito.

Maggio 1987. “Alle spalle di Andrea c’è Marina Comandini, al suo fianco la mia ex moglie, Patrizia. Il bambino è mio figlio Cosimo che ha fatto i primi scarabocchi sulle ginocchia di Andrea e oggi è un disegnatore. I cani Salomè e Paco”.

“Ricordo che voleva tanto dei figli. Voleva essere il patriarca. Il suo sogno era essere a tavola con la moglie e tutta la sua progenie. Ma d’altronde Marina era giovane, erano andati in Brasile, a Bali, volevano ancora godersi un po’ la vita itinerante e non fecero in tempo ad averne. Era il classico uomo del Sud, andava dal barbiere tutti i giorni a farsi la barba, ci teneva a un certo atteggiamento. Quando uscivamo per fare la spesa e i negozianti ci chiedevano che mestiere facessimo io rispondevo sempre di fare il trasportatore, mentre lui fingeva d’essere un pubblicitario. Quando gli chiesi perché si dichiarasse tale lui mi rispose ma tu stai scherzando? Questi qui si sono alzati alle cinque del mattino, per andare a prendere la verdura, se ne stanno tutto il giorno sotto il sole a vendere cose e io gli dico Faccio fumetti? Quelli mi pigliano a calci nel culo e fanno bene! Per dirti com’era”.

Rido e mi torna in mente una delle citazioni di Paz a cui sono più affezionata.”Fai l’artista, te ne freghi, ma in verità è la gente che se frega! Dici: che mi frega, sono un artista, se vi va bene così, sennò ciccia. Ma sai che gliene frega alla gente che sei un artista! Sei un artista? E ce lo cachi che sei un artista!”.

Saluto Moreno con un lungo abbraccio di gratitudine. Mi incammino felice e in mente ho questo pensiero, Paz e Moreno, impettiti e gonfi d’amore, seduti lì a tavola tra le montagne, a brindare con le loro ridenti numerosissime famiglie sotto al sole, quello che batte solo a Topolò.

Una polenta all’uranio – La miniera di Novazza Valgoglio

Il 23 e il 24 giugno scorso ha avuto luogo il primo workshop di scrittura e fotografia per reportage di CTRL magazine. La parte pratica prevedeva un sopralluogo a Novazza Valgoglio, in Val Seriana, per raccontare la vicenda del giacimento di uranio più grande d’Italia, scoperto lì nel 1959.
Quello che leggerai è il reportage corale che ne è scaturito.

Testo e fotografie sono a cura dei corsisti: Rosita Bertocchi, Donella Gatti, Sofia Natella, Alejandro Gonzaléz Paniagua, Giuseppe Porrovecchio.

«Ma era proprio uranio?»
«Sicuro: chiunque se ne sarebbe accorto. Aveva un peso incredibile, e a toccarlo era caldo. Del resto, ce l’ho ancora a casa: lo tengo sul balcone, in un ripostiglio, che i ragazzi non lo tocchino; ogni tanto lo faccio vedere agli amici, ed è rimasto caldo, è caldo ancora adesso».
Esitò un istante, poi aggiunse:
«Sa cosa faccio? Domani gliene mando un pezzo: così si convince, e magari, lei che è uno scrittore, in aggiunta alle sue storie un giorno o l’altro scrive anche questa».
(Primo Levi, Il sistema periodico)

Valgoglio è un paese dell’Alta Val Seriana, in provincia di Bergamo. Novazza è una sua frazione, conta 177 abitanti. Un torrente ne fiancheggia le case in pietra rossa e grigia, antiche e recenti. La pietra qui è ovunque, ingentilita dai fiori, tanti fiori, dai balconi e tra i bucati perfettamente stesi si affacciano vasi pieni di gerani. Tutt’intorno i boschi la fanno da padrone, l’abitato si stende ai piedi di due pinnacoli che qui chiamano “i coren del Presì”. Su una di quelle guglie di roccia, nel punto più alto del duomo montuoso, la statua di una madonna separa la terra dal cielo. Sotto di lei, nelle viscere della montagna, si nasconde il giacimento di uranio più grande d’Italia, 1.500 tonnellate di materiale grezzo.

Era il 27 maggio 1959 quando gli abitanti della zona videro le prime auto dell’Eni.

Era il 27 maggio 1959 quando gli abitanti della zona videro le prime auto dell’Eni, i tecnici e le loro attrezzature salire lassù sul monte, dove allora si andava per far pascolare le bestie.
«Per noi è stata una rivoluzione. Questo era un paesino senza nemmeno la strada, praticamente isolato, facevamo su e giù a piedi da Gromo», dice una signora dal terrazzo. Racconta di un paese che si apre al mondo, a partire dalla topografia: fu costruita la prima vera strada, per facilitare il transito delle auto, e un campo sportivo. «Sono arrivati gli stranieri: cinesi, giapponesi, russi, americani… tutti. Sarebbe dovuto venire anche Mattei, ma è morto poco prima».

La signora resta affacciata al balcone. Prosegue, tornando indietro nel tempo. Aveva 17 anni, curava le mucche e di uranio non aveva mai sentito parlare, era un sasso come altri. «Ci avevano spiegato che era utile ma anche nocivo». Si impone un attimo di silenzio.
Come altri del posto, aveva partecipato a uno studio per verificare le condizioni di salute della popolazione locale: una parte di ciò che mangiavano la destinavano a un piccolo contenitore, così che poi fosse analizzato. Nessuno ha mai conosciuto i risultati. Un particolare, questo, che ha sempre infiammato il dibattito sullo sfruttamento dell’uranio, sulle le possibili ripercussioni occupazionali, eventuali vantaggi che la zona avrebbe potuto trarre dalla miniera, da quel processo estrattivo che in realtà non è mai stato avviato.
«La miniera è stata predisposta per la coltivazione, era tutto pronto, ma non è mai entrata in funzione» ci diranno in seguito.
Un dibattito che ancora oggi divide i paesani, che spesso sono parenti: nel tempo, l’uranio ha contaminato anche i rapporti familiari. Dopo gli aspri dissidi degli anni Settanta e Ottanta, solo il silenzio sembra riuscire a mitigare i contrasti.

«La miniera è stata predisposta per la coltivazione, era tutto pronto, ma non è mai entrata in funzione».

«Le campagnole attraversavano il paese per arrivare su all’imboccatura della cava» ricorda Maria. Ha 89 anni e non ha mai lasciato Novazza, con le mani liscia la gonna del vestito, poi se le stringe in grembo, seduta all’ingresso di casa.
«Prima, casa mia era l’unico bar del posto. Il piano superiore lo usavamo come affittacamere, mentre a quello inferiore davamo da bere e mangiare ai minatori. I primi ad arrivare sono stati i sardi, hanno insegnato il mestiere ai nostri uomini».
Suo marito è stato sindaco di Novazza dal 1972 al 1974, apertamente schierato a favore del nucleare.

La figlia si chiama Anna Serena, è un ex insegnante da sempre sensibile e partecipe al dibattito sull’uranio. «Io la vedevo come una possibilità di sviluppo della nostra zona» dice, «però quando tu sei attaccato dall’esterno con chi era assolutamente contrario, non potevi più parlare perché eri dall’altra parte. Il tifo… quando la verità non interessa più, conta solo avere ragione. O eri con loro o contro di loro».

Anna Serena ci mostra un raccoglitore di plastica verde muschio contenente il materiale raccolto insieme ai propri alunni della scuola elementare all’epoca del ritrovamento: disegni, fotografie, interviste. Un foglio a quadretti, scritto con una grafia tonda e infantile: «Da tanto tempo sappiamo che nel nostro paese si trova una miniera di uranio. Col desiderio di conoscere a fondo la sua storia, le persone che ci hanno lavorato, le persone che ci lavorano e le sue strutture, ci siamo messi al lavoro volendo “incontrare” questa realtà notevole del nostro ambiente per conoscerla e capirla».

Tutto iniziò per caso, solo qualche settimana prima di quel 27 maggio 1959.
Una mattina, un tecnico che portava con sé un contatore Geiger per la misurazione della radioattività si avvicinò a una fontana del paese per dissetarsi. Lo strumento, rimasto acceso, cominciò a impazzire. Ulteriori approfondimenti portarono poi alla scoperta dell’intero giacimento, e da quel giorno, quassù, c’è sempre stato un prima e dopo Cristo e un prima e dopo la scoperta dell’uranio. Alti livelli di radioattività furono rilevati dappertutto: nelle case, per le strade, nel torrente. La pechblenda, il minerale uranifero più comune, fu trovato anche in chiesa, nel muro di contenimento, con livelli di radiazione altissimi.

Oggi, lungo i vicoli lastricati, si ripetono nicchie votive dedicate alla Vergine; nei giardini curati riposano i consueti nani, minatori anche loro, e giocattoli edili: trattori e rimorchi di plastica, in piccoli cantieri domestici lasciati in sospeso dai bambini.

Dante Negroni è stato il sagrestano della chiesa di Novazza per 54 anni. Lo incontriamo accanto al grande orologio che accoglie i passanti, all’ingresso del paese. «Tranne la macchina, ho fatto tutto io» dice, «gli arrangiamenti, il quadrante, la struttura».

Un tempo era l’orologio del campanile. Dante racconta dei cinquantacinque gradini che ogni volta doveva fare per salire a caricarlo, e del movimento ipnotico del pendolo, che l’ha sempre affascinato. «Quel suo movimento… sono attimi che spariscono, non tornano più. Quella lì è la base del tempo, il tempo che non torna più», dice guardando gli ingranaggi che girano, con un velo di malinconia.

La numerazione dell’orologio è inversa rispetto al solito, e le lancette girano in senso antiorario. Anche Urano, il pianeta, ha un moto retrogrado ed è l’unico che gira al contrario rispetto agli altri. Secondo l’astrologia governa i grandi cambiamenti generazionali e culturali, l’inventiva. Urano è anche il dio del cielo nella mitologia ellenica, figlio e sposo di Gea, la Madre Terra. Ha generato Crono che rappresenta il tempo lineare e ordinato, in base al quale definire una causalità e una continuità, quel senso lineare che sostiene il progresso, la cui etimologia è appunto “passo avanti”.

Mentre nei fumetti le radiazioni erano sinonimo di superpoteri e nel 1975 usciva Radioactivity dei Kraftwerk, qui l’uranio assunse significati molto più pratici: occupazione a km 0 per una popolazione affezionata al proprio territorio, a fronte di evidenti rischi per la salute di lavoratori e cittadini, per l’ambiente e il paesaggio, per la falda acquifera e per il turismo che si stava sviluppando nelle valli attorno.

Prendete del minerale d’uranio, frantumatelo e selezionate con un contatore geiger le parti ad alta radioattività; sbriciolate i frammenti fino a ottenere una sabbiolina, granulometria 0,3; trattateli poi con acido solforico. Filtrate ed eliminate lo scarto, ormai un fango, che addizionato con calce è reso inerte e pronto per la discarica. Trattate poi con ammoniaca la soluzione acida: precipiterà un sale giallo, l’uranato d’ammonio, e avrete il prodotto finito, una “yellow cake”. Anzi, una polenta radioattiva, pronta per essere arricchita.

“Certo che era necessario l’uranio, per il nucleare, per l’Italia. Ma poi all’Agip hanno capito che si facevano più soldi a commercializzarla l’energia, piuttosto che a produrla. E hanno smantellato tutto, ben prima del famoso referendum sul nucleare del 1987. Per soldi, per quelli hanno distrutto il sogno di Mattei, l’autonomia energetica nazionale!”.

A parlare è Daniele Ravagnani, classe 1949, geologo, dipendente ENI dal 1974 al 1985, è uomo appassionato, dallo spirito battagliero. In una fotografia del raccoglitore di Anna Serena compariva in una classe elementare, davanti alla lavagna, con una camicia a righe.
Oggi si presenta al centro aggregativo di Novazza in pantaloni e camicia bianca, in testa porta un panama, sottobraccio lo “scintillometro”, lo strumento per la rilevazione della radioattività, ancor più preciso del Geiger. Dice che le pietre sono esseri viventi: nascono, si modificano, e mutando sprigionano energia. All’uranio di Novazza ha legato la sua vita, la passione verso la miniera e l’uranio incanta e inquieta al tempo stesso. Gli ha dedicato un libro, Uranio Amore Mio, una specie di autobiografia che strizza l’occhio alle vicende di Hiroshima Mon Amour.

Dice che le pietre sono esseri viventi: nascono, si modificano, e mutando sprigionano energia.

«Novazza è la mia patria spirituale. Tutto è iniziato al liceo, con un amore indicibile per le scienze geologiche. Avevo letto sul Giorno dell’uranio di Novazza e ho insistito tanto con mio padre ché mi ci ha portato. Qui ho scelto la geologia».

Racconta che i compagni di scuola gli portavano sempre le pietre ritrovate durante le gite con i genitori, che la sua insegnante gli fece tenere una lezione a tutta la classe e che gli regalò un piccolo sassolino che ancora conserva. «È la mia pietra filosofale» dice sorridendo. L’uranio invece è la pietra dell’amore: «Mi ha portato da queste parti e, come può succedere, uno ci resta perché trova l’anima della sua vita».

Fuori ha cominciato a piovere. Restiamo al centro aggregativo in attesa di salire all’ingresso della miniera. Tra le righe dei discorsi di Daniele si legge il tentativo di rivalutare l’uranio, o quantomeno di affrontare la questione della nocività e del pericolo da un punto di vista meramente scientifico.

«C’è una radioattività naturale, fa parte dell’ambiente di vita, del nostro corpo. Siamo fatti di radioattività, come tutti gli elementi della terra. In una certa misura la radioattività è necessaria e congeniale alla vita. Anche il sole emette radiazioni, l’ambiente, il nostro stesso corpo. In qualunque masso si trovano delle radiazioni, in ogni corpo. Il discrimine è la quantità, c’è più pericolo per la salute a farsi quattro lastre dal dentista che a prendere in mano una barra di uranio”.

Il Livello medio di radioattività nell’ambiente, a condizioni normali, è di circa 15 cps. La radioattività al centro aggregativo, mentre parliamo, è di 60 cps, in crescendo.

Daniele parla dell’incapacità, a parer suo, di comunicare con una fetta di popolazione che, dalla metà degli anni Settanta, ha iniziato a contestare l’idea di estrarre dalla miniera di Novazza. Tra loro c’erano Carla Leonardi e Giancarlo Salvoldi, ex deputato dei Verdi, che incontreremo qualche giorno dopo. Insieme sono stati i promotori della sollevazione popolare contro l’attivazione della miniera.

«Ci incontravamo a casa di Don Osvaldo, ogni domenica, con la bibliotecaria di Gromo» dirà Carla, ricordando con evidente nostalgia quel periodo di lotta al fianco del marito.
«Avevamo saputo della miniera per caso, leggendo un breve trafiletto sull’Avvenire, parlava della presenza in valle dell’uranio. Si sapeva poco a proposito, allora abbiamo cominciato a raccogliere notizie, testimonianze. Poi il Gruppo di Ricerca è diventato Comitato Democratico Alta Val Seriana, una grande esperienza di base». Ci tiene a ribadire l’indipendenza dai partiti che a più riprese tentarono di politicizzare il movimento, magari offrendo sostegno economico: «Facevamo tutto da soli, i volantini con il ciclostile».

«Non si fidarono dei dati», dice Ravagnani, «né delle norme di sicurezza attuabili per proteggersi dai prodotti di decadimento radioattivo dell’uranio». Poi fa una pausa e ci mostra lo strumento che ha con sé, lo scintillometro. Sembra una piccola pistola acchiappa-fantasmi.

«È degli anni Settanta, me l’hanno dato quando mi hanno assunto e io non l’ho più mollato» dice girandoselo tra le mani. Poi lo accende e questo prende a crepitare, e quando il livello di radioattività sale il rumore varia e il crepitio si straccia in un lamento simile a un cigolio sinistro di una vecchia porta. Misura la radioattività in cps (Counts Per Seconds, ovvero il numero di particelle che attraversano lo strumento ogni secondo). Il Livello medio di radioattività nell’ambiente, a condizioni normali, è di circa 15 cps. La radioattività al centro aggregativo, mentre parliamo, è di 60 cps, in crescendo.

«Dipende dalle zone», continua Ravagnani. «A Gromo, per esempio, ci sono zone da 100, 150 cps possibili». E, chiaramente, più ci si avvicina alla miniera, più il livello cresce.

L’ingresso della miniera è stato murato un anno fa. Fino al cancello che circoscrive l’area della miniera si può arrivare anche con Google Maps, e già si intravedono i macchinari esposti, i capannoni circondati dal verde primordiale degli alberi. Un paesaggio cristallizzato non in un senso di decadimento, ma di insuccesso. Qualcosa che permane e continua a diffondersi, diventando sempre più passato, riuscendo tuttavia a restare attuale proprio perché non è mai stato risolto.

Attraverso i mattoni forati che occludono l’ingresso evade un fiato gelido e silenzioso che risale gli 8 km di gallerie. Una piccola edicola adornata da gigli color arancio contiene ancora una statuetta di Santa Barbara, la protettrice dei minatori. Ha ricevuto il martirio su una montagna, dopo essersi ribellata al padre: questione teologica, ma anche generazionale, una disputa sul futuro. È lei l’unica donna ammessa nella miniera. Eppure la storia dell’uranio in Italia comincia da una studentessa che nel 1913 faceva ricerche a Lurisia. Trova un minerale giallo, che crede sia zolfo, ma è uranile. Da lì nasce l’indagine che dal cuneese porterà a sondare il territorio alpino, e al giacimento di Novazza. A Lurisia andrà anche Marie Curie, pioniera e martire della radioattività. Daniele ci diceva che sulla sua tomba i Geiger cantano inni acuti e distorti a causa della radioattività che ancora oggi emana.

Ilario Negroni è il responsabile del piazzale antistante la miniera, e padrone di tutti i macchinari lì parcheggiati. È nipote di Dante, il sagrestano. Ha sempre lavorato nelle gallerie. Mentre ne parla gli brillano gli occhi.

«A me è sempre piaciuto stare nel sottosuolo, dentro la montagna, anche se c’è freddo, polvere, rumore, anche se lavorare dentro la roccia ti erode fisicamente: cambiano l’aria, la luce, l’umidità e il tempo non esiste più, ma quando avanzi di un metro è una soddisfazione. Poi qui c’era un bello spirito di corpo, anche un po’ di rivalità tra i vari gruppi: valtellinesi, veneti, gente del posto. Abbiamo festeggiato qui anche il 4 dicembre, per Santa Barbara, la patrona dei minatori».

Ilario non ha mai avuto paura delle radiazioni. «Adesso lavoro in una miniera di gesso con 50 km di gallerie, che scavano la montagna. Se c’è un guasto o un incendio, lì c’è il rischio di restare intrappolati». I timori sembrano essere altri, forse semplicemente perché più tangibili, identificabili.

Anche Tiziano, un minatore incontrato al centro aggregativo, ci aveva detto qualcosa di simile, che «la sicurezza passa dall’esperienza». «Quando hai fatto una volata, cioè quando buchi la roccia e carichi il materiale esplosivo» diceva, «devi sempre controllare i colpi inesplosi e mai iniziare a scavare in un buco già fatto, perché potrebbe esserci un candelotto di dinamite, e puoi saltare in aria».

Sotto la statua di Santa Barbara lo scintillometro rileva una radioattività che supera i 150 cps. Ricalchiamo, ripercorrendoli al contrario, verso l’uscita, i binari per il trasporto del materiale che si schiantano contro il muro che sigilla la miniera. Riscendendo verso il paese, Daniele è in auto con noi, parla dei suoi libri preferiti, le biografie e i saggi, e della sua gemma preferita, lo smeraldo. «Si dice gemma, non pietra preziosa, mi raccomando» tiene a specificare. Il suo primissimo ricordo legato alle pietre è l’immagine in un libro di scuola. Dice che adesso che è pensionato ha recuperato una sua passione infantile, «le locomotive». E soggiunge: «Sai, si dice che quando uno diventa vecchio torna ad essere un bambino».

Cronistoria di un giacimento

1959. Scoperta casuale da parte di un geologo dell’Agip del giacimento di uranio a Novazza. Si costruisce la strada di collegamento con la provinciale.

1959/63. La Somiren (Eni) apre cinque gallerie di esplorazione per 6 km circa («I primi minatori erano sardi, quando siamo arrivati noi abbiamo dovuto alzare tutte le gallerie perché ci picchiavamo la testa», ci ha detto Ilario Negroni. Con il costo concorrenziale del petrolio, nel ’63 il cantiere chiude.

1974. Dopo la crisi petrolifera, l’Agip mineraria riattiva i cantieri. Nasce la Simur che opera a Novazza, si ricomincia a scavare il tunnel di semina fino a 14 chilometri di sviluppo complessivo.

1976. Il comune di Valgoglio vende 8.000 metri cubi di terreno all’Agip. Il Ministero Industria e Commercio rilascia le concessioni di sfruttamento. Vengono acquisite dagli abitanti le aree in località Foppa di Bani, con l’obiettivo di localizzarci la discarica del lavorato (il tenore del giacimento è di 1:1000, per un chilo di materiale utile, circa 1.000 vengono scartati).

1977. La biblioteca di Gromo con il Gruppo di Ricerca da Bergamo organizza cinque serate informative per illustrare i rischi dell’esposizione all’uranio e della sua estrazione. Si levano le prime proteste popolari. La Comunità Montana concede intanto lo svincolo per l’inizio lavori (un solo giorno: la sera stessa lo ritirerà, cedendo alla pressione dell’opinione pubblica).

1978/79. Si raccolgono le firme per chiedere un referendum.

1980. Maggio, grande manifestazione a Bergamo contro lo sfruttamento dell’uranio (Coordinamento, Agesci, Acli, Comunità di Base).

1981/1982. A febbraio Filippo Maria Pandolfi, ministro dell’Industria, chiamato a Clusone per un incontro pubblico viene contestato duramente. Ad agosto l’Agip abbandona Novazza. Ora l’attenzione è sul progetto ValveNova che unisce il giacimento della val Vedello, il più grande d’Europa. La popolazione di Fiumenero (identificato come base logistica per gli impianti di lavorazione dell’uranio) si oppone.
Le Province interessate da ValveNova, Bergamo e Sondrio, creano il Comitato d’Intesa Istituzionale (un comitato tecnico) per valutare le ricadute sul territorio del progetto.

1983. Il nuovo presidente dell’Eni Franco Reviglio sopprime l’Agip nucleare. Inizia la smobilitazione degli impianti di Novazza gestiti dalla Simur, malgrado il parere favorevole del Comitato d’Intesa Istituzionale all’estrazione dell’uranio e alla sua lavorazione.

1977-1983. In sei anni a Novazza e nei paesi limitrofi Gromo, Bani, succede di tutto. O meglio, il solito: la questione miniera sì/miniera no divide la popolazione, le famiglie, chi “ha fatto i soldi” vendendo i terreni all’Agip da chi non li ha venduti. I pro insistono sull’opportunità di lavoro offerte dalla miniera, sminuendo i rischi della lavorazione del materiale radioattivo. Rischi che sembrano eccessivi e soprattutto poco valutabili nel tempo per i contro, preoccupati anche per la tutela del territorio e la compromissione del paesaggio.

Pure la Chiesa scende in campo. Osvaldo Belotti, il parroco di Boario di Gromo, diventa la testa di ponte degli attivisti di Bergamo, con cui organizza la mobilitazione locale.  Nelle foto dell’epoca appare orgoglioso e sorridente in dolcevita bianca e barba nera.

Prima che arrivi Natale

Il Laboratorio Triciclo della Coperativa Ruah di Bergamo ha compiuto 20 anni di attività. In una serie di reportage cercheremo di trasmettere quello che è il senso del loro lavoro.
Quello che leggerai qui è il racconto di una giornata di lavoro trascorsa a pochi giorni da Natale. 

Era il primo giorno d’inverno. Stava per terminare l’anno 2017 e il sole della mattina splendeva timido come se stesse per finire un giorno di primavera. Dall’immenso edificio, sede un tempo di ritiri spirituali, si domina il ponte di Sedrina che sovrasta il fiume Brembo. In cima alla collina di Botta che guarda verso Bergamo, la foschia e il fumo del camino acceso che esce dal tetto appena sotto la nostra visuale, permettono di immaginare più che di vedere. Alle nostre spalle le finestre dell’edificio con le tapparelle alzate riflettono il sole e ad accoglierci a mo’ di tappeto rosso un viale fatto di pietre. Il sole della mattina scalda i vestiti stesi sulle siepi provate dall’autunno appena trascorso, accompagnano all’ingresso. Sono passate le 9 da pochi minuti e con il timore di essere scambiati per giornalisti, entriamo timidamente nella struttura d’accoglienza dei richiedenti asilo di Botta di Sedrina, in provincia di Bergamo.

Ad aspettarci ci sono Ramon, Yahya e Oltian, fanno parte di una delle squadre di Triciclo che si occupa, fra le altre cose, della manutenzione dei centri di accoglienza della provincia. Pochi minuti dopo arriva anche Yari. Sul muro del corridoio, un albero di Natale formato dai pensieri degli ospiti della struttura ci ricorda che fra pochi giorni sarà Natale. Ramon comincia a staccare con cura, pezzo per pezzo, la parte inferiore dell’albero formato da cartoncini colorati, per riappiccicarli, mantenendone la disposizione, sulla vetrata del corridoio. La missione della giornata è sovrastare con un colore verde tenue ma intenso, il primo metro di muro dell’immenso corridoio e delle aule comuni.

Alcuni esponenti della nuova generazione del rap italiano potrebbero trarre grande ispirazione dai versi scritti sui cartoncini che formano l’albero di Natale: “I want documento and good job” spicca per stile accanto a “Le persone si sono svegliate con la nostra filastrocca / Quindi pensa come sarà / Per il quale faccia rima A”.

L’idea dell’albero dei pensieri è nata durante le ore delle lezioni di italiano e fra quelli dei richiedenti asilo si trovano anche i cartoncini firmati dalle insegnanti Silvia ed Elisabetta, che non possono far altro che sintetizzare le speranze più ricorrenti affidate al muro del corridoio: “Auguro a tutti i miei studenti un 2018 ricco di sorrisi, documenti, lavoro e amore”. “Documenti”, “Lavoro”, “Italia”, “Famiglia”, “Dio”, “Molto importante” e “Grazie” sono le parole più gettonate fra i desideri scritti su quell’albero di carta. Accanto ad esse trovano spazio alcune perle che hanno il profumo di rara spensieratezza: fra le altre “Vorrei andare in Giamaica” vince a mani basse.

“Documenti”, “Lavoro”, “Italia”, “Famiglia”, “Dio”, “Molto importante” e “Grazie” sono le parole più gettonate fra i desideri scritti su quell’albero di carta.

Mentre la squadra Triciclo continua il lavoro cominciato il giorno prima e il verde sul muro si accosta man mano al giallo spento dagli anni, il corridoio inizia a popolarsi in vista della lezione di italiano della mattina. Oltian, intento a porre il nastro adesivo di carta sui bordi della porzione di muro da verniciare, ci racconta un po’ della sua vita. «Ormai è già quasi un anno che lavoro per Triciclo. Bisogna saper fare un po’ tutto e mi piace che ci siano tante cose diverse da fare».
Oltian è albanese ed è il più giovane della squadra.

Mentre parliamo, una nuova canzone suona dal telefono di uno dei ragazzi che aspettano l’inizio della lezione. Oltian si ferma di colpo e, con l’aria di chi resta tra l’incredulo e il sospettoso, guarda il ragazzo e chiede: «Come fai tu a conoscere questa canzone?».

La canzone in questione è “E kam pas”, hit della popstar albanese Sabina Dana, centouno milioni di visualizzazioni su YouTube. Il ragazzo pakistano, DJ del corridoio, spiega che prima di arrivare in Italia aveva un amico albanese che la ascoltava spesso. Poco più tardi il giovane pakistano sarà protagonista di una sfida a calcio balilla Asia VS Africa con una sola regola scritta in tre lingue: “Non usare l’olio della cucina!”.

Ormai è mattina inoltrata e il corridoio è sempre più popolato. Yahya imperterrito continua a lavorare. È originario della Mauritania e ci racconta la sua vita, un’odissea di spostamenti. Ascoltando la sua storia pare di ascoltare la vita di uno dei tanti richiedenti asilo che lo circondano in questa mattina di dicembre. Lui invece fa parte della squadra di Triciclo, il suo punto di arrivo dopo anni passati a rincorrere speranze e documenti. Ha le cuffie nelle orecchie e un sigaro spento che quando non stringe fra i denti tiene agilmente fra le dita senza che possa limitare i suoi movimenti.

«Come fai tu a conoscere questa canzone?»

Sul lato opposto del corridoio, con aria pensierosa, lavora Yari, tunisino, un artista. Non lo dice lui ma è l’impressione che dà e che emerge dopo qualche parola scambiata con lui. «Fra tutte le mansioni che dobbiamo fare come squadra Triciclo, dipingere è quella che preferisco». Capita che nella bergamasca l’imbianchino sia chiamato pittore e Yari incarna questa disambiguazione quasi dialettale. «Mi piace portare colore, mi rende felice». Ha lavorato anche come parrucchiere e la sua vena estetica è confermata dalla sua passione: Yari dipinge.

Alessandra, la responsabile del centro di accoglienza di Botta di Sedrina, ci porta a fare un giro in tutta la struttura. Diversi piani e corridoi, alcuni già verdi, altri ancora sbiaditi. «Ci sono circa 150 richiedenti asilo in questa struttura. Per lo più arrivano da Nigeria, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e Togo».

Grazie alla presenza di Alessandra possiamo dare un’occhiata anche alle stanze. Sono molto piccole ma confortevoli. Tutti ci salutano. Chi sta in cucina insiste per offrirci un caffè. Accettiamo più che volentieri. «Sono tutti molto tranquilli e non succede mai nulla di grave. Solo una volta è capitato che un richiedente asilo perdesse il senno. Un eritreo che stava al telefono con il fratello mentre a migliaia di kilometri di distanza stava per partire per il viaggio della speranza. Proprio mentre stavano parlando al telefono, il fratello è stato ucciso».

Il caminetto continua a fumare e il sole che poche ore prima sembrava quello di un tardo pomeriggio di aprile ora pare quello di una bella giornata d’autunno. Ma il Natale è alle porte. Rifiutiamo per educazione e senza pochi ripensamenti di fermarci per pranzo. Una volta tornati nella struttura per salutare Ramon, Oltian, Yahya e Yari incontriamo un personaggio sorridente e stravagante che sta terminando il suo turno di pulizie prima di raggiungere gli altri per giocare a calcio. È tifoso dell’Inter e gli mancano solo le scarpette giuste.

Quello che hai appena letto è il racconto di una giornata di lavoro svolta in collaborazione con Laboratorio Triciclo – Ritiro, Riuso Riciclo.
Attività e missione di Triciclo: laboratoriotriciclo.it cooperativaruah.it

La solitudine della memoria – Piero Terracina, sopravvissuto alla Shoah

Piero Terracina è un romano di Trastevere. Nasce nel 1928 e trascorre una normale infanzia tra la scuola (la Francesco Crispi a Monteverde) e il calcio, giocato ancora in strada. La storia potrebbe essere quella di un normale ragazzo della sua età di quell’epoca, senonché un giorno nell’ottobre del 1938, senza nessun motivo apparente, è cacciato dall’istituto scolastico e gli viene impedito di ritornarci. Non solo, alla sua famiglia vengono vietate cose come il poter andare in villeggiatura, il possedere una radio, finanche lavorare. I Terracina sono ebrei.

Fino a qui può sembrare un racconto non particolarmente drammatico, in particolare alla luce del momento complessivo in cui si trovava l’Europa in quel frangente e di quello che sappiamo che succederà dopo, ma così si rischia di non cogliere il trauma di un bambino che percepisce di subire una profondissima ingiustizia. La lente con cui guardiamo il passato è infatti distorta dal nostro punto d’osservazione, e inevitabilmente mi ritrovo a sorridere quando sento narrare da Piero della sua speranza che il 25 luglio del ’43, il giorno della caduta di Mussolini come capo del governo, rappresentasse la fine di quella vicenda. Mentre parla della sua infanzia in realtà sto aspettando solo che la vera “storia” inizi, considerando le leggi razziali come un piccolo preambolo della tragedia che seguirà. Così facendo però non colgo il reale sentimento del mio interlocutore, il quale soffre anche in quel frangente e al contempo s’illude che il peggio sia passato.

Ad arrestarlo sono i tedeschi, ma la delazione arriva da alcuni italiani, che per qualche migliaio di lire a ebreo vendono la sua famiglia.

Piero Terracina è stato davvero vicino a scampare al suo destino. Viene infatti catturato il 7 aprile 1944, solo un paio di mesi prima della liberazione di Roma da parte degli Alleati. Ad arrestarlo sono i tedeschi, ma la delazione arriva da alcuni italiani, che per qualche migliaio di lire a ebreo vendono la sua famiglia. Gli otto Terracina vengono portati in carcere al Regina Coeli (altro trauma non da poco, per un ragazzo, finire in carcere da innocente), poi al campo di Fossoli e infine ad Auschwitz II-Birkenau.

«La fila delle donne iniziò ad avanzare e le SS davanti a loro presero a indicare chi dovesse andare da una parte e dall’altra. Era cominciato lo sterminio, ma noi ancora non lo sapevamo».

So già che il tema di questo articolo potrebbe suscitare noia nei lettori. Si parla e si è parlato molto di Olocausto: perché trattare un’altra volta questo tema? Perché la Shoah è diventata il paradigma del male assoluto, ma anche il simbolo della memoria storica e delle necessità (e dei motivi) per i quali bisogna ricordare il passato. Concetti, e i conseguenti termini (genocidio, crimine contro l’umanità) legati all’Olocausto e nati all’indomani della Seconda Guerra Mondiale sono ora comunemente usati per ogni altro contesto, sia esso più o meno appropriato. Parlando del passato – anzi: di questo passato – in realtà dunque parliamo del futuro della nostra memoria, di come ci approcciamo e di come ci approcceremo ad altri eventi drammatici, come per esempio quelli accaduti nei Balcani o come quelli che ancora avvengono in molte parti del mondo; fatti che diventeranno a loro volta memoria e storia, e che per il nostro bene dobbiamo imparare a trattare correttamente.

Il contesto in cui la casa attuale di Terracina si trova è assai differente da quello della tragedia passata. La periferia collinare di Roma sa essere tranquilla, verde e accogliente. Ci sono poche auto per strada e pochi passanti sui marciapiedi. L’appartamento si trova in uno di quei palazzi figli del benessere economico e della crescita demografica. Immagino che qui prima fosse tutta campagna, mentre ora edifici né belli né brutti chiudono il paesaggio, pur senza aver eliminato del tutto la presenza di erba e alberi.

Nonostante il mio timore e la curiosità d’incontrare un simile personaggio, all’ingresso Terracina sa mettere subito a suo agio l’ospite. Si dimostra allegro, affabile, e la sua leggera sordità offre più spunti di riso che d’imbarazzo. Il piccolo corridoio in cui mi accoglie è l’unico luogo in cui la casa comunica apertamente la religione del suo proprietario. Su un mobiletto stanno in bella mostra oggetti tipici della tradizione ebraica, come candelabri a sette braccia, trottole, quadri a soggetto biblico, fotografie e attestati. Per il resto sembra una normale abitazione di un normale pensionato, per quanto attento alla cultura e all’ordine. Questo pensionato è stato però uno dei primi e tra i più attivi italiani a impegnarsi nel raccontare la sua esperienza in pubblico, e quello che oggi m’interessa è di comunicare la storia della memoria e del racconto della Shoah, che come tutti i fatti umani ha un inizio, dei fattori scatenanti, uno sviluppo e delle considerazioni da fare.

La raccolta di memorie, la narrazione di massa della propria esperienza, iniziò con la Prima Guerra Mondiale e da lì divenne una prassi per ogni altro fatto di grande portata. Nessun altro evento ha però raccolto un numero di testimonianze simile a quelle raccolte sulla Shoah. Su di essa esistono centinaia di migliaia di testimonianze scritte e queste iniziarono a essere raccolte già durante lo sterminio, probabilmente come reazione a quella che non voleva essere solo l’eliminazione fisica di tutti gli ebrei, ma anche la cancellazione della loro memoria.

È stato uno dei primi e tra i più attivi italiani a impegnarsi nel raccontare la sua esperienza in pubblico.

Nel dopoguerra questi ricordi continuarono a essere prodotti, ma la maggioranza dei superstiti si rinchiuse nel suo silenzio. Non è facile parlare di simili questioni, in particolare perché queste memorie non venivano comunicate all’esterno: non esisteva ancora un dibattito pubblico sull’Olocausto e quindi i manoscritti non uscivano dagli archivi. Forse finita la guerra nessuno voleva sentir parlare di tragedie, forse i sensi di colpa spingevano a un accordo di silenzio, forse mancava un’occasione per portare alla luce tutti questi ricordi, fatto sta che i superstiti per decenni vissero da soli col peso del loro tragico passato.

Una prima occasione per uscire da questa condizione fu data ai sopravvissuti dal processo Eichmann nel 1961, procedimento in cui le testimonianze furono fondamentali per portare alla condanna del gerarca nazista. Nel dibattito pubblico è stata però la televisione – in parte a causa della sua attitudine a considerare e a dare voce a tutti, anche agli appartenenti alle classi prima non considerate – ad aprire il primo varco. L’evento simbolo fu la messa in onda del serial Holocaust, di Marvin J. Chomsky: anche se ampiamente criticato, aprì uno spazio per parlare di Shoah.
Anzi, fu proprio la scarsa accuratezza del prodotto a spingere molti sopravvissuti a raccontare, nel timore di “essere derubati” della propria memoria/storia, che vedevano in tv deformata per potersi adattare ai canoni hollywoodiani. A riscuotere consensi e a creare ancor più ampie conseguenze fu invece Schindler’s list. Il film di Spielberg (e non solo, in realtà) trasformò il testimone in una persona rispettabile, anzi rispettabile proprio in quanto sopravvissuto. E questo aiutò a superare la vergogna. L’Olocausto passò dall’essere un momento fonte d’imbarazzo a un momento del passato da brandire come vessillo della propria identità.

La vicenda di Terracina ricalca molto bene questo andamento. Al rientro, tace. Come i suoi compagni di quella sventura ha paura di non essere creduto, le cose di cui parla sono di una tale enormità che la gente stenta a credergli. Talvolta nota nell’interlocutore perfino un senso di fastidio.

Piero il 27 gennaio 1945 ha 15 anni, pesa 38 chili e degli otto membri della sua famiglia è l’unico a essere scampato alla morte. I russi lo ricoverano in un ospedale a Sochi, sul Mar Nero, e formalmente lo arruolano nell’Armata Rossa, ma il suo unico atto pubblico in divisa è quello di partecipare alla parata per celebrare la fine della guerra contro il Giappone. Ritorna a Roma e, oltre che solo, si trova senza casa: la sua abitazione è stata saccheggiata e occupata da sfollati. Il giudice gli concede di rientrare in possesso di un’unica stanza, in quanto essendo solo «gli poteva bastare». C’è anche però chi mostra comprensione nei suoi confronti: l’azienda in cui lavoravano suo fratello e sua sorella lo assume. A 17 anni Piero Terracina inizia a lavorare e riprende una parvenza di vita normale.

Al rientro, tace. Come i suoi compagni di quella sventura ha paura di non essere creduto.

Il tempo passa e alla fine degli anni Ottanta è eletto nel Consiglio dell’Aned (Associazione ex deportati). L’interesse a livello internazionale si è risvegliato e i libri di Primo Levi e quelli di altri autori sopravvissuti alla deportazione hanno aperto il dibattito nell’opinione pubblica italiana. L’occasione per sfruttare questa attenzione giunge quando l’Accademia dei Lincei lo invita come rappresentante dell’Aned al convegno in memoria di Emilio Segrè, fisico italiano la cui madre fu deportata il 16 ottobre 1943 e assassinata al suo arrivo ad Auschwitz. Terracina parla per venti minuti. Quando termina il pubblico non fiata. Anche il presidente Giorgio Salvini non dice nulla, lo abbraccia solamente. Altri fanno altrettanto. Quello è l’inizio: subito dopo riceve delle richieste per andare in alcune scuole da parte di alcuni professori presenti al convegno. La Shoah esce dalla memoria personale ed entra nella memoria pubblica.

A questo punto anni di studi di storia mi portano a frenare l’entusiasmo per quello che – questo senza nessun dubbio – è stato il lungo e ottimo impegno che Terracina ha dedicato alla divulgazione del suo passato. Il passato però è diverso dalla storia, quindi la memoria di un reduce è una testimonianza di quanto è successo, ma non una sua precisa analisi. Il racconto di un sopravvissuto è, né più né meno, una fonte al pari di un documento cartaceo prodotto da un ufficio. Si tratta certamente di una tipologia di testimonianza dal passato spesso incredibilmente ricca d’informazioni e di spunti, fra l’altro di diverse discipline, ma pur sempre una fonte resta. È quindi utilizzabile non di per sé, ma solo attraverso le domande che le vengono poste: lo storico non legge le fonti, le interroga. Un reduce può inconsapevolmente parlare di altro rispetto alla trama del suo racconto. Può indirettamente fornire materiale per studiare aspetti non direttamente narrati. Le sue omissioni talvolta sono perfino più importanti del detto e così anche i suoi errori. Sono le discrepanze che offrono i varchi migliori dietro i quali indagare le strutture nascoste della realtà, ma bisogna sapere dell’esistenza di questi varchi e come poter sbirciare al loro interno.

Con la nascita della necessità di divulgare la storia in diversi modi e su canali che non fossero più solo quelli accademici, questi temi e la consapevolezza di questi aspetti sono passati in secondo piano e a prevalere è stato l’impatto, la forza, che una testimonianza di una persona reale ha sul pubblico. È innegabile che sentir parlare un uomo o una donna di un fatto (magari drammatico, come nel caso della Shoah) ha una potenza incredibilmente maggiore rispetto alla narrazione scritta, a maggior ragione se di taglio saggistico. Sbattere in faccia al pubblico un documento senza contestualizzarlo però non è onesto. E neppure utile. Come un’epigrafe romana richiede anni di studio e competenze per essere interpretata in tutti i suoi aspetti, così la testimonianza di un reduce necessita di un’attenta lettura e di mezzi che il grande pubblico non possiede. Una testimonianza può quindi essere presentata, ma solo se sorretta da un adeguato supporto.

Mentre penso tutto ciò, che in fondo fa parte del mio retroterra culturale, della mia impostazione mentale e di conseguenza della mia personale visione e interpretazione della realtà, cerco però anche di mettermi nei suoi panni. Anzi no: “mettermi nei suoi panni” o “vestire i panni delle vittime” è una truffa del marketing. Per quanto si possa studiare, per quanto si possa essere empatici, per quanto tempo si possa passare con Piero Terracina, non si potrà mai capire la sua esperienza, non si potrà mai davvero provare quello che ha provato lui mentre altri uomini lo consideravano inumano e cercavano di ucciderlo. Si può però cercare di raccogliere la sua storia, la sua memoria. Si può provare a sintetizzare parte del suo vissuto per mettere quanta più gente possibile in condizione di capirlo. E magari trasmettere qualcosa.

Chiedo a Terracina, alla luce della sua lunghissima esperienza nelle scuole, come sia possibile andare di fronte a una platea di bambini e parlare di Auschwitz. Risponde che le difficoltà maggiori le ha incontrate proprio coi più piccoli delle elementari perché malgrado eviti di entrare nei particolari, i bambini intuiscono tutto. A qualcuno di loro comincia a spuntare una lacrima già parlando solo di come è stato cacciato senza colpa da scuola, di come amici di gioco iniziarono a trattarlo come uno sconosciuto da un giorno all’altro; e a questo punto entra in crisi. Con tutti, anche gli adulti, cerca in ogni caso di non entrare mai nei particolari più crudi. Racconta la quotidianità della vita nel lager di Auschwitz, ma anche nella quotidianità c’era l’orrore.

Intanto che Piero parla, dalla cucina giunge un profumo di pesce in padella, accompagnato da un suono che inizialmente non riconosco: è la sigla di Radio Maria. Terracina ride della cosa: la sua colf da anni è una sudamericana, religiosa e ovviamente cattolica. Presenta il figlio della donna quasi come fosse un suo nipote. È curioso notare la differenza di rapporto. Per noi Terracina è un monumento vivente. Un testimone di eventi del passato, che trattiamo con una giusta sacralità, con tutta l’attenzione che questa ferita della nostra identità Occidentale richiede e causa in noi. Per la signora e suo figlio, Piero è invece una persona normale.

Più ci penso e più mi pare incomprensibile: che Terracina sia così sereno, così bendisposto nei confronti del suo paese da cui ha subito un tale trattamento, mi sembra incredibile. Trovo ammirevole anche la sua fiducia nel genere umano. Non è un caso che le piante che ha sulla sua terrazza (aranci, ulivi, etc.) siano tutte legate a un’immagine di mediterraneo caldo e pacifico. In effetti penso non sia un caso neppure la scelta – sia essa consapevole o meno – di vivere in un appartamento così luminoso: l’esposizione è ottima e le ampie vetrate illuminano la libreria, ricolma di alcuni libri che parlano di temi assai meno solari.

Forse non è neppure un caso che sia rimasto a vivere in una città popolosa come Roma: i reduci della Shoah sono stati lasciati soli troppo spesso. Una prima volta quando l’indifferenza delle persone permise che le leggi razziali e la deportazione avvenissero. Una seconda volta quando al loro rientro in patria non furono accolti con nessun reale supporto psicologico o morale e furono così spinti a rimanere in silenzio. Una terza volta quando sulle loro spalle è stato caricato tutto l’enorme peso della responsabilità del comunicare e trasmettere la loro esperienza. Una società che non voleva (e forse tutt’ora non vuole) fare veramente i conti col suo passato ha deciso di trincerarsi dietro il paravento emotivo dei racconti drammatici di quelle persone che riuscirono a tornare.

L’esperienza di Terracina e di tutti gli altri internati nei lager nazisti rimane irraggiungibile per la nostra comprensione.

L’esperienza di Terracina e di tutti gli altri internati nei lager nazisti rimane irraggiungibile per la nostra comprensione. La storia però è un processo d’avvicinamento alla distanza. Serve a comprendere e ad accostarci a epoche e a luoghi passati, a vite che mai potranno essere le nostre e di cui abbiamo solo informazioni parziali. Così, anche se nulla ci potrà far sapere tutto dell’esperienza concentrazionaria, possiamo però arrivare a comprendere Terracina e il suo vissuto. E comprendere con consapevolezza è il passo che deve precedere qualsiasi altra cosa.

Devo ora rivelare una cosa: io Piero Terracina non l’ho mai incontrato. Questo articolo è un reportage che ho scritto come un saggio di storia. Il tono è ovviamente diverso, mancano delle vere note a piè pagina e molte altre formalità, ma tutto quello che state leggendo è stato tratto da fonti scritte (una lunga intervista avvenuta tra me e Terracina via mail e saggi accademici); audiovisive (l’intervista rilasciata da Terracina alla Shoah Foundation il 17-3-1998); e orali (il racconto dell’incontro tra lui e Terracina fattomi dal fotografo Paolo Vezzoli).