Mi sveglio. Mi guardo allo specchio. Mi trucco. Il caffè sale nella moka e fischia, il sole pare salire a stento; giornata grigina. Indosso un paio di jeans, un maglioncino di lana verde petrolio, mi porto anche un quaderno per gli appunti. Prima stazione: i cassonetti “della Caritas”. Seconda: un capannone, nella periferia di Bergamo; è la sede del Laboratorio Triciclo. Terza e ultima: un negozio a Bergamo quasi-centro. Partiamo dalla fine.
Terza stazione
“Rivestiti” è il nome del negozio, in via Broseta. Nuova vita per abiti che hanno già vissuto, ma anche vintage e tanto altro, si legge in una descrizione che ho trovato on-line.
Varco la porta. Gentile scampanellio. Da sopra un armadio mi guardano cinque teste femminili di manichino tutte molto fiere dei loro cappelli (la prima a sinistra, ad essere precise, indossa un cerchietto con fiocco di un bel rosso brillante, e sciarpa coordinata sul collo decollato); dietro di loro c’è Audrey Hepburn, in tubino nero, sontuosa collana di perle bianche, guanti di seta nera fin sopra al gomito, chignon alto, occhialoni da sole, labbra serrate una contro l’altra, incorniciata in un frame di Colazione da Tiffany.
“Benvenuta!” La prima a salutarmi è Maria Paola, da dietro il bancone. Ha un’energia da ragazzina, un’esplosione controllata di ricci bruni in testa, un filo di rossetto che amplifica un bel sorriso; se fosse mia madre, credo, ne sarei felice. Le chiedo se è di Bergamo, tanto per rompere il ghiaccio. Lei mi risponde che è una mezzosangue, dice così, sempre sorridendo. “Mia madre faceva la maestra di taglio, era una sarta bravissima. Viveva in Sicilia. Poi arrivò mio padre laggiù, da Bergamo, durante la seconda guerra mondiale. Fu fatto prigioniero dagli Alleati. Fuggì, incontrò questa donna bellissima, che la guerra aveva già reso vedova – mia madre appunto. Si innamorarono, si sposarono, si trasferirono quassù con la pace. C’era il boom economico e il nemico era l’immigrato, il terrone. Mia madre smise di uscire di casa, si murò viva in questa città; se in Sicilia aveva una reputazione paragonabile a quella di una stilista, qui era una straniera guardata con diffidenza, che si vergognava del suo accento”.
Il sorriso di Maria Paola s’increspa un po’, ma prima che si sfaldi in un’espressione d’amarezza arriva Maria Daniela. È la sua socia, ha capelli perfettamente lisci e corvini, è sarda, di Cagliari. Da un’isola all’altra, penso io. Anche Maria Daniela ha seguito un amore: lui era nell’esercito, tecnico elicotterista, ed era stato assegnato a Orio al Serio. Così lei ha trovato un posto all’Oriocenter. “Il mio cognome è Lostia. Senza apostrofo e con l’accento sulla i. Le prime settimane non è stato semplice, quando mi chiamavano all’interfono”. Sono una bella coppia, Maria Paola e Maria Daniela, forse perché sono così diverse. Se Maria Daniela fosse mia zia, credo, ne sarei felice. “Mi ritengo una creativa” continua lei “e mi diverto, in questo lavoro: perché si tratta di pescare vestiti qua e là, dall’oblio, ridare loro un valore, rimetterli insieme su un manichino, in un outfit coerente e sensato, ridare loro una nuova vita”. “Ci sono alcuni maglioni della nonna, spesso arrivano dalle valli” s’intromette Maria Paola “che fanno impazzire le ragazze più giovani. Sono tornati di moda”. “E sono di un’ottima fattura, niente a che vedere con i capi prodotti oggi” riprende Maria Daniela.
Funziona così, questo negozio: la gente lascia i vestiti nei cassonetti della Caritas; i furgoni di Triciclo passano a svuotarli, e portano il carico nel laboratorio; nel laboratorio vengono scartati gli irrecuperabili, gli altri vengono selezionati, e igienizzati; e il meglio del meglio, finisce qui, da Rivestiti.
“Sentite,
ragazze” dico io, prendendomi quella certa confidenza che sento che è già
sospesa nell’aria “quanto costa quell’abito da sposa che avete in vetrina?”
Seconda stazione
Via Cavalieri di Vittorio Veneto. Sede del Laboratorio Triciclo. La prima impressione è quella di un luogo a metà tra un mercatino dell’usato, un negozio di vestiti, uno di arredamento, e un capannone.
Una donna di spalle, con un velo a coprirle il capo, passa in rassegna dei cappotti da uomo. Alla sua sinistra c’è una fila di magliette intime, bianche, tutte uguali, ognuna appesa al suo omino. Alla sua destra, un paio di metri più in alto, c’è Audrey Hepburn, anche qui, con il solito tubino nero, il solito chignon alto e i soliti guanti di seta fino al gomito, questa volta è di schiena e, senza occhiali, getta il suo sguardo dietro la sua spalla, pare guardare la signora col velo con una certa sufficienza aristocratica.
Mi presento a Federica, una dei
responsabili del progetto Triciclo. Mi offre un caffè, e mi inizia a spiegare
quello che accade qui dentro. E quello che accade prima.
I furgoni di Triciclo girano di cassonetto in cassonetto, per tutta Bergamo e provincia; li aprono e li svuotano. Il 95 per cento del contenuto non viene toccato, e viene mandato ad un’azienda, la MPT di Grassobbio, che a sua volta fa una selezione, decide cosa può essere rimesso sul mercato dell’abbigliamento italiano, cosa sul mercato estero, quali vestiti saranno smembrati e diventeranno pezze per meccanici o per autofficine. “Non si butta via niente. C’è anche un motivo pratico: se i vestiti finiscono nell’inceneritore, le loro fibre, bruciando, intoppano le cappe” mi dice Federica.
Fa capolino nella mia testa il pensiero delle storie intrise in quegli abiti, dei passati che proprio non ne vogliono sapere di farsi cenere, e lottano con le unghie con i denti e con le fibre contro l’oblio, si aggrappano alle cappe. Per bilanciare questo picco anomalo di romanticismo, faccio una domanda molto diretta: “Quanto vi dà MPT?” “Circa 20 centesimi al chilo. Con questi riusciamo a coprire le spese e pagare chi lavora per noi”.
Veniamo al fortunato 5 per cento. I furgoni lo portano direttamente in questo capannone, in un’ala apposita. Federica mi ci accompagna. È qui che avviene la selezione; i destini sono due: prima scelta o seconda scelta. “Tutti quanti i vestiti vengono igienizzati. A questo punto, secondo la legge, smettono di essere considerati rifiuti e si trasformano in materia prima seconda. La prima scelta viene esposta in questo punto vendita, e una parte – diciamo la crème de la crème – finisce al negozio Rivestiti”. “La seconda scelta, invece?” “Viene venduta al chilo, ad alcuni ragazzi africani. Loro preparano dei container e spediscono tutto in patria, dove spesso ci sono le mogli, che a loro volta allestiscono dei piccoli (ma anche grandi) mercati, in cui il vestito italiano compete con quello cinese…e vince pure”. Tortuosi sentieri della globalizzazione, che partono da un cassonetto in una piccola città del Nord Italia.
La donna che decide il destino degli abiti appena arrivati – prima scelta o seconda scelta – si chiama Doris, ed è nigeriana. Prende in mano, controlla, rivolta e ispeziona un capo alla volta, va alla ricerca di macchie indelebili, o di buchi. E poi assegna ogni pezzo alla sua categoria. Ha delle scarificazioni sul volto; sono un segno distintivo, vengono scavate, con un coltellino, sul volto dei bimbi quando hanno appena un paio di settimane di vita. Sono segni di appartenenza a una comunità, a un popolo di antica discendenza, nel caso di Doris si tratta del popolo Edo. “Adesso non si fanno più”, mi dice, mentre passa in rassegna un vecchio maglione color latte “si sta perdendo la tradizione, anche a Benin City, che è la città da cui vengo”.
La voce Wikipedia “cicatrici ornamentali” si conclude in questo modo: La pratica delle cicatrici ornamentali in Africa è in netto calo. Persiste solo nelle aree più lontane dalle zone urbane e ha di solito perso molto del suo significato sociale e religioso. È invece in netta crescita il fenomeno dei tatuaggi, soprattutto nelle grandi città. È questo un fenomeno che può essere ricondotto sia all’occidentalizzazione, che alla riscoperta di una pratica che è stata presente in Africa per migliaia di anni.
Doris
è stata assunta da Triciclo grazie a un programma di reinserimento. Ha una
quarantina d’anni e un passato di violenze alle spalle.
Prima stazione
I cassonetti della Caritas, quelli
gialli. Tutta questa storia, e questa piccola filiera che dà lavoro a una
decina di persone, parte da lì.
Solo a Bergamo città ce ne sono 45. In
tutta la provincia, circa 150. Ci si potrebbe condurre un’indagine sociologica;
ambiente, demografia, cambiamento di usi, mode e costumi a partire dagli
scarti.
Federica, a riguardo, traccia una prima linea di differenziazione: quella tra città e valli. “A Bergamo i cassonetti si riempiono molto più rapidamente. Ma quasi sempre sono abiti di scarsa qualità; molte cose sintetiche, che si usurano in fretta. In Val Seriana i cassonetti si riempiono ad un ritmo molto più lento, si butta via di meno, e le materie prime sono di qualità migliore, generalmente, durano di più. Le cose cambiano nettamente con la stagione turistica. E poi c’è il grande capitolo dei ritrovamenti alieni…” Di nuovo il punto di domanda si dipinge sulla mia fronte. “…portafogli rubati, quindi vuoti, cellulari caduti all’interno, chiavi di casa; bè, poi capitano anche ritrovamenti meno piacevoli. C’è chi scambia il cassonetto dei vestiti per quello della spazzatura; ma per fortuna sono casi molto isolati”.
Rumore di motore. Colpetto gentile di
clacson. Victor e Mamadou
sono venuti a prendermi. Andiamo a svuotare un cassonetto in zona stadio. Parcheggiamo.
Loro s’infilano i guanti. Aprono. Nessuna cattiva sorpresa; tutto regolare; gli
abiti sono quasi tutti avvolti in sacchi di plastica; ci penserà Doris, a
scegliere cosa tenere e cosa scartare.
L’abito da sposa di mia madre è rimasto
nello stesso armadio per decenni, come imbalsamato, una specie di monumento
sotto naftalina, il sarcofago di un momento memorabile. Buttarlo in un
cassonetto, credo, sarebbe per lei il sommo dei sacrilegi.
Chissà chi l’ha buttato, quello che c’era in vetrina da Rivestiti? Non era neppure male. Magari una moglie tradita. Oppure una vedova, ancora innamorata, che non poteva reggerne più la vista, e un poco le addolciva il dolore pensare che qualcun’altra l’avrebbe indossato, che la felicità scorre ancora, anche se altrove. Oppure qualcuno di una compagnia di teatro; e quell’abito era solo un costume di scena. Oppure una donna insospettabile, annoiata della vita, un poco nauseata dalla voce di quel marito che tutti i giorni, tutti i giorni uguali, se ne torna a casa dal lavoro, col solito bacio già pronto sulle labbra, e così un pomeriggio come un altro ha aperto l’armadio, ha visto l’abito e gli ha fatto un ghigno tremendo, l’ha preso, l’ha infilato in un sacco nero, l’ha chiuso nel baule, ha guidato fino al cassonetto, è scesa e ce l’ha scaraventato dentro, poi ha sorriso, ha acceso una sigaretta, e se n’è tornata a casa fischiettando.
Voci di dentro – Un reportage sul carcere è un racconto fotografico e narrativo sul carcere di Reggio Emilia. Un progetto durato otto mesi, per raccontare l’esperienza quotidiana di detenzione, la percezione del tempo della pena, il cambiamento di identità e la visione del futuro dei detenuti. Ne è nato un libro, edito dall’Associazione Culturale Anemos, acquistabile qui. Quella che leggerai qui sotto è una riduzione del libro.
Novembre
Da tre anni è in vigore la vigilanza dinamica. Durante il giorno le celle sono aperte e i detenuti possono circolare nelle sezioni da cui escono per partecipare ad attività o lavorare – sempre all’interno dell’istituto. Prima del provvedimento i tempi morti si passavano in cella, adesso si cammina per il corridoio, si ozia nella piccola sala comune o si va in visita ad altre celle. Vista da fuori la differenza è enorme. Ma se chiedi a loro cambia poco. La sezione è solo una cella più spaziosa. «Cammini avanti e indietro e hai cinquanta compagni invece che tre».
«All’aria non ci va più nessuno, ecco una differenza», spiega Luka. L’aria, il camminamento, cioè una gabbia di cemento a cielo aperto, lunga trenta metri e larga venti. Ci andavano per camminare, chiacchierare, allentare la claustrofobia della cella. «Ma è deprimente, adesso non ci va quasi nessuno». Alcuni detenuti addirittura corrono, nel piccolo cortile dell’aria, fino a quando la sensazione di girare su se stessi non prende il sopravvento.
Dicembre
Il giorno di Natale abbiamo appuntamento alle nove davanti al cancello. Il freddo non è insopportabile, ma l’umidità sembra penetrare anche il cemento del parcheggio. Mostriamo i documenti e l’agente, dopo aver controllato i dati a computer, ci apre. In un angolo del piazzale, Giuseppe e la Madonna contemplano la mangiatoia vuota sotto una capanna di legno scollato.
Tra il cancello e la guardiola, io e Cristian – il fotografo che mi accompagna – mostriamo nuovamente i documenti e l’autorizzazione. Spieghiamo agli agenti di turno perché entriamo.
«Quindi siete giornalisti». «Non proprio». «E cosa venite a fare?». «Proviamo a raccontare la vita dentro». «Contenti voi», dice consegnandoci le chiavi dell’armadietto. Lasciamo telefono, effetti personali e l’agente apre la seconda porta blindata. Alla fine del corridoio una quarta porta dà accesso al giardino interno, il primo spazio dentro alle mura. Da qui in poi siamo dentro.
Il cortile è l’interruzione di un percorso di avvicinamento che passa attraverso richieste di autorizzazioni legali, controlli, cancelli, porte, proiezioni, paure. In mezzo a quello spazio – che è una camera di decompressione a cielo aperto, sia per entrare che per uscire – si intensifica l’attesa di una realtà fuori dall’ordinario che al tempo stesso sembra non esistere, perdere di senso.
Alla fine del corridoio una quarta porta dà accesso al giardino interno, il primo spazio dentro alle mura. Da qui in poi siamo dentro.
Terminata la messa incontro per la prima volta Samir. Si avvicina timidamente, mi stringe la mano e chiede quando possiamo parlare. Ha saputo di noi tramite Stefan, in biblioteca. Non so dico, magari le prossime volte. Siamo dentro da un paio d’ore e non vedo l’ora di uscire, mi appunto il suo nome, il numero della sezione e gli dico che ci faremo vivi noi. Cerco Cristian in mezzo alla confusione, ma lui continua. «Io ci sono» dice, «se volete ci sono».
Ci presentiamo e mi racconta che dentro lo chiamano Tyson, ha ventitré anni e da più di quattro è in carcere. Tutto d’un fiato. Vive a Reggio con sua madre e le sue sorelle, «cioè vivevo a Reggio, bè comunque». Tiene le mani in tasca e parla con la voce bassa, gli occhi neri vagano per la stanza. Lo ascolto in mezzo alla confusione e quando gli agenti lo chiamano ci salutiamo.
Non lo andiamo a cercare e le volte successive incontriamo Samir nei corridoi della sua sezione, tra i banchi di scuola o nella cella di altri detenuti. Ai suoi saluti, che portano le tracce involontarie di un rituale religioso, fa eco un buonumore spontaneo ma volatile che mi sorprende sempre. Come quelli di molti suoi compagni i racconti di Samir sono liberatori quanto dolorosi e hanno a che fare con un insieme di fattori che riguardano il coraggio, l’incoscienza, la rassegnazione e la rabbia. Vuole e non vuole parlare di sé, ne ha bisogno, ma spesso senza sapere a cosa va incontro.
Gennaio
L’Istituto di Reggio è il quarto carcere per Luka, è arrivato per ricongiungersi a suo padre, Stefan. Prima era detenuto in Lombardia, dove abitava al momento dell’arresto. È nato a Milano e lì ha sempre vissuto. «Reggio non la conosco» dice. «Mai vista. Ma tanto fino a che sei dentro poco importa la città».
Gli chiedo cos’è cambiato dai primi anni. «Tolto me» dice, «niente. Sì c’è meno gente. E le celle sono aperte, ma il resto è uguale». Alza le spalle e sprofonda sulla sedia. Nel silenzio che segue si intromette Stefan. Abbandona la sua postazione e dice a Luka che ha due notizie per lui, una buona e l’altra buonissima. Luka lo guarda muto.
«Quale vuoi per prima?». «È uguale» dice Luka. «Come è uguale? Va bene allora la buonissima» lo interrompe. «Ti hanno accreditato centocinquanta euro sul conto per l’ultimo anno di scuola. Centocinquanta euro». «Me l’hanno detto stamattina». Luka si risolleva sulla sedia per non finire a terra. «Sei un ingrato figliolo», poi guarda me e Cristian e dice che per stare in biblioteca quattro ore al giorno, lui viene pagato ottanta euro al mese. «Meglio di niente».
Dallo stipendio di ogni detenuto viene trattenuta la quota mensile di mantenimento in carcere, circa centodieci euro. A chi non lavora invece, viene addebitato ogni mese di detenzione. Luka è molto attivo all’interno dell’istituto, ma non lavora. Aiuta le volontarie della Caritas nel magazzino degli abiti usati.
Dallo stipendio di ogni detenuto viene trattenuta la quota mensile di mantenimento in carcere, circa centodieci euro. A chi non lavora invece, viene addebitato ogni mese di detenzione.
«Il venerdì mettiamo in ordine la roba che arriva e la distribuiamo a chi ha fatto domanda. Tute, asciugamani, scarpe, giacche, cose del genere. Poi vado a scuola e al pomeriggio faccio un corso di informatica e uno di magazzino. A scuola sono al quarto anno. Non si riesce a fare lezione come in una scuola seria, ma meglio di niente. Vedi persone esterne». Fa una pausa.
«Più che altro qua dentro è difficile studiare, non sei mai solo. Comunque qualsiasi cosa è meglio che rimanere in sezione». Gli chiedo se con l’apertura delle celle non è cambiata la situazione. «Mah, sì meglio adesso, ma comunque che fai su? Cammini avanti e indietro per il corridoio e senti a ripetizione gli stessi discorsi. Adesso per esempio è tutto sospeso, fino al 7 gennaio: scuola, palestra, corsi, non c’è niente da fare. Te ne stai in branda a guardare il soffitto o giocare a carte».
Solleva e riabbassa la cuffia smarrito dal vuoto, ci guarda senza dire niente. Impariamo a conoscere anche questi silenzi, tolgono punti di riferimento e atterriscono il linguaggio; come se la vita all’interno del carcere fosse afasica e i discorsi usurati dalla ripetizione quotidiana, dal circuito chiuso dei percorsi tra le mura.
Febbraio
La settimana successiva incontriamo l’educatrice che segue il nostro progetto e affrontiamo l’argomento del terrorismo islamico. È passato meno di un mese dalla strage alla redazione di Charlie Hebdo e ci spiega che il radicalismo, in carcere, è un problema sottovalutato.
«Quello che sto per dire può sembrare una banalità, eppure è così: le dinamiche sociali all’interno del carcere sono accelerate, i problemi che fuori sembrano casi isolati dentro esplodono. Vale sempre il detto che se la società ha il raffreddore, in carcere si cura la polmonite. Per Parigi qua dentro hanno brindato. E di far entrare un imam ancora non se ne parla. Se c’è una testa calda con più carisma, il rischio è che si porti dietro altri compagni. E la frustrazione, la rabbia, il malessere fanno il resto. Il carcere dovrebbe essere un osservatorio di problemi che si riflettono nella società, ma sembra difficile capirlo e farne tesoro. È sempre stato così, si sottovalutano i sintomi e si ragiona col senno di poi. È successo per il terrorismo negli anni Ottanta, per i problemi di tossicodipendenza e HIV, per la mafia».
Vale sempre il detto che se la società ha il raffreddore, in carcere si cura la polmonite.
Il pomeriggio successivo, ci fermiamo a salutare Stefan prima di salire nei reparti. Il giornale che legge riporta notizie sulle contromisure degli stati europei all’emergenza terrorismo. E lui non perde tempo per ribadire quello che è successo in sezione. «Lo sanno tutti» dice. Ne parla con disprezzo, più che con preoccupazione. L’episodio non ha avuto ripercussioni e le persone che hanno partecipato al macabro rituale del brindisi sono pochi casi isolati.
«In molte sezioni c’è una moschea, e non dà fastidio a nessuno. La religione islamica è rispettata». E non potrebbe andare diversamente penso, la popolazione straniera supera la metà dei carcerati e al suo interno la maggioranza è di origine musulmana.
«Possiamo parlare camminando su e giù per il corridoio» dice Luka. «Fai il carcerato anche tu oggi». Tra pochi mesi dovrebbe passare in articolo 21. «Semilibertà, lavori fuori e torni dentro a dormire». Lo dice senza percettibili variazioni del suo entusiasmo. Gli chiedo cosa pensa di fare una volta fuori. Alza la testa, «boh, non ne ho idea». «Torni a Milano?». «No cioè non so. Non è detto, dipende dove faccio lo stage, che gente conosco. Se si aprono possibilità da queste parti, rimango in Emilia». Ha in testa la cuffia di lana che solleva e riabbassa. «Trovo una ragazza con cui fare una famiglia e boh, ti dirò non ne ho proprio idea».
Ancora una volta le parole che scambiamo, per quanto oneste, non scalfiscono la sua sfera emotiva. Gli chiedo se è preoccupato del passaggio dalla detenzione alla libertà. «Preoccupato no – alza lo sguardo, fissandolo davanti a sé – dentro ho fatto un percorso. Sono cambiato». Dopo cinque passi lo riabbassa. «Una volta fuori non lo so, non ci penso».
Arriviamo alla fine del corridoio e torniamo indietro.
«Molta gente qui dentro è uguale a quando è entrata. Non cambia niente, il tempo che passa è solo attesa. Spesso succede». Alza di nuovo lo sguardo. «Però se vuoi cambiare cambi – si gira, mi guarda e dice – se adesso mi vieni a dire Luka rubiamo una macchina, ci penso cento volte». Arrotola una sigaretta in tre passi e aspetta ad accenderla. La sua determinazione, penso, s’è ispessita in carcere, anno dopo anno. La sofferenza della privazione ha costruito binari da cui non serve uscire. Il suo equilibrio è tutto lì. Oppure sbaglio e Luka non ha mai deragliato dal presente che stava vivendo per immaginare scenari futuri o cedere a rimpianti.
Parliamo e camminiamo da mezz’ora. Avremo fatto avanti e indietro dieci volte, forse venti, oltrepassando gli stessi gruppi di persone che si sfaldano e riuniscono, incapaci di arginare la noia dello stare insieme e di respingere la solitudine. Ad ogni passaggio dimentico quello precedente o lo confondo senza riuscire ad ancorare quello che diciamo a un indice della memoria. Sembra una pratica amnesica. E per analogia, penso che su larga scala, tutta l’esperienza in carcere sia così, una dimenticanza che si corrobora giorno per giorno. Un tempo inerte che, per quanto lungo, lambisce sempre lo zero.
Dopo quattro mesi di carcere e venti entrate, io e Cristian, scorrendo le foto sul monitor, cerchiamo un modo per rendere più efficaci le impressioni che registriamo. Siamo fuori da un paio d’ore. Ogni volta che esco, dico, tiro un sospiro di sollievo, dentro si respira male. Abbandonato sulla sedia, annuisce. La tensione di quello spazio – soggetto a un tempo alienato, oppresso dal controllo cronico e da limiti invalicabili – dopo avermi occupato s’allontana come un’ombra, fuoriesce lasciandomi addosso una stanchezza eccessiva.
Penso che su larga scala, tutta l’esperienza in carcere sia così, una dimenticanza che si corrobora giorno per giorno. Un tempo inerte che, per quanto lungo, lambisce sempre lo zero.
«Dovremmo stare dentro una settimana», dice Cristian. «Invece di fare fuori e dentro, chiedere il permesso, fare la vita da detenuti e poi raccontarla». Lasciamo macerare l’idea e la volta successiva che ci vediamo torna fuori. «Diventerei matto dopo un giorno», gli dico.
Ho immaginato di essere dentro. Scendere per l’aria alle nove di mattina, fino a quando quel pozzo di cemento armato che è l’aria non ti fa vomitare. Tornare in sezione alle dieci. Il secondo giorno provi con la scuola, torni in sezione a mezzogiorno e mangi il meno possibile dal carrello del vitto. Dormi un’ora, guardi la televisione e sono le due. Se c’è un corso o palestra scendi e ti bruci un altro paio d’ore. Torni in cella e ci stai quaranta minuti per la conta. Fai la doccia, pensi alla cena e alle otto è tutto finito. Ci siete tu e il tuo compagno nei vostri dieci metri quadrati. Senti le voci dalle altre celle, qualcuno urla, chiamano l’assistente. Poi ti addormenti. Sogni di chiedere all’agente di scendere, per compilare la domandina e fissare un colloquio. Scendi due rampe di scale, suoni, ma ti fanno segno di aspettare. Quando ti aprono, spieghi cosa devi fare e ti avvii in biblioteca. Attraversi il corridoio in ombra. Apri la porta e dietro alla scrivania c’è tuo padre. Compili il modulo, torni in cella e aspetti che ti chiamino. Vai in palestra due volte a settimana. Passi i pomeriggi in branda. Alle sei di sera la sezione chiude. Una settimana ti sembra un mese. In cui non è successo niente.
Marzo
Una sera incontriamo Eaco nella sua cella. Lo abbiamo conosciuto qualche settimana prima, a cena con Samir e altri due compagni. Ha passato in carcere molti anni mi sembra di capire, non tutti a Reggio e non continuativi. È nato a Bologna ma a tredici anni si è trasferito in Cile con la famiglia. Dopo le superiori è tornato in Italia e si è iscritto all’Accademia di Belle Arti, facendo saltuariamente ritorno a Santiago. Sono gli anni Novanta e abbandonata l’università inizia a frequentare l’underground della musica elettronica e dei rave party. «E tutto quello che ci sta intorno» dice. Parla a scatti, s’illumina e m’investe con raffiche di nomi, di artisti e locali e performance. Nello stesso periodo lavora come assistente alle riprese e video maker per alcune compagnie teatrali d’avanguardia. «Avevo l’attrezzatura e seguivo spettacoli e manifestazioni in giro per il mondo». Torna in Cile, a Santiago, e sia in Sudamerica che in Europa segue le tracce dei rave party. Ma la casa base è sempre Bologna, i suoi centri sociali.
Quando s’interrompe mi accorgo di aver perso la cognizione del tempo. I suoi racconti mi hanno rapito. Non sono approfonditi né generosi di dettagli, ma ricreano la sua identità – distorta o dominata dall’immaginazione e libera da quella parte di realtà che, tra le altre cose, lo tiene dentro ad una cella da più di sette anni. «Poi c’è la parte criminale dice». E non parla più.
A marzo otteniamo il permesso per entrare dopo le 18.00. È un orario di tregua, in cui i detenuti ricavano momentanei ripari nell’assenza di privacy. Si ritirano nei loro spazi, guardano la tv, alcuni leggono. Samir disegna, Eaco tiene un diario. Da lontano vediamo un agente di nostra conoscenza, Morabito, e senza sapere che è il giorno sbagliato lo seguiamo. Alla fine di un lungo corridoio vuoto c’è il suo ufficio. Con la cornetta all’orecchio fa segno di aspettare fuori.
«Cosa volete a quest’ora?» dice a voce alta fissandoci negli occhi. «Vorremmo…». «Lo so cosa volete, scassare la minchia». Cristian ride, Morabito no. «Andiamo va».
Le rampe di scale che portano in seconda sono una colata di cemento levigato dai passi. «Vi lascio in mezzo a questi, vi lascio. Sono le sette di sera e ancora non hanno finito di creare problemi, sali». Apre la porta e bussa nella guardiola davanti alla sezione. Il collega di turno avrà al massimo venticinque anni e parla con il suo stesso accento. È troppo magro per qualsiasi divisa, Morabito invece la riempie dai polpacci alle spalle della sua vitalità irosa, un’armatura che rende sicuri a guardarla.
Butta la sigaretta a terra e ringhia al collega «è tutto il giorno che vanno avanti questi». Il biondo ride con il naso e dice «e lo viene a dire ammé?».
Come altri colleghi del reparto, Morabito lavora in carcere da più di vent’anni. Anche se è lavoro, penso, sono anni di prigione.
Morabito pesta la sigaretta, annuisce e gli chiede di aprire la porta. Guarda i detenuti che ci stanno intorno e urla «attenti a questi due, sono pericolosi!». Poi senza attendere risposta si sbatte la porta alle spalle e sparisce giù dalle scale.
Come altri colleghi del reparto, Morabito lavora in carcere da più di vent’anni. Anche se è lavoro, penso, sono anni di prigione. Il tempo è recluso e lo spazio perimetra il modo di pensare, spezza i movimenti. Ad ogni porta devi suonare, attendere il riconoscimento. Il turno lo passi tra i reparti e le guardiole e nessuno all’interno ti chiama per nome – per evitare ritorsioni sono tutti colleghi, agenti, ispettori. Non stupisce che sia un lavoro ad alto turn-over, stupisce piuttosto incontrare un agente che faccia lo stesso mestiere da più di vent’anni.
La sera stessa, prima di uscire, veniamo a sapere che durante il giorno c’è stato un tentativo di suicidio. La notizia è circolata e lo stato di tensione ha toccato più di una sezione. Samuele però non ne parla, per tutto il tempo che stiamo nella sua cella. Sulla parete di fianco al letto sono appese due foto, una ritrae due bambine davanti a una torta, la seconda una moto sopra a un piedistallo.
«Quelle sono le mie figlie» dice indicando le bambine che sorridono insieme alla sua fidanzata a pochi centimetri dalla moto. «Ex fidanzata, sono sei mesi che non la sento e ha deciso che non vuole più vedermi. Dice che i miei figli se vorranno vedermi, lo faranno da grandi, e sarà una loro decisione. In realtà non lo dice lei, lo dice un avvocato. Lei non l’ho più sentita, né per telefono né per lettera».
La cella di Samuele è ordinata e decorosa, ma non sembra appartenergli. I suoi effetti personali si mimetizzano con quelli di chi è venuto prima e lui porta sempre le scarpe come se fosse all’esterno. È dentro da meno di un anno e sta in seconda, la sezione degli imputati in attesa di processo. Ha a carico una serie di denunce per cui rischia più di cinque anni.
«Dice che i miei figli se vorranno vedermi, lo faranno da grandi, e sarà una loro decisione. In realtà non lo dice lei, lo dice un avvocato»
Lo interrompo per chiedergli quanti anni ha. Che sia giovane è evidente, ma sembra aver vissuto una decina d’anni in più della sua età anagrafica. Molto dipende anche dall’isolamento della detenzione, penso. Lo conosciamo in uno stato che, annientando le esperienze quotidiane, amplifica il deposito dei ricordi nella sua memoria – e ai nostri occhi. «Ho ventott’anni» dice.
L’immaginazione di Samir è proiettata fuori dalle mura – non gli manca molto a fine pena – e i suoi racconti si tendono in un arco che unisce quello che è successo a quello che sta per venire, senza attenzione per il presente. «Voglio aprire qualcosa, un bar, un ristorante o un locale… non so – ride – ti dirò la verità, non mi vedo a fare un lavoro regolare, alzarti alle sette di mattina, lo stipendio ogni mese. Non mi ci vedo. Ci dovrò passare lo so». Nella sala comune il biliardino è abbandonato e si riesce a parlare. Fa una pausa e si dondola sulla sedia.
«Sai cosa – dice – tre anni e nove mesi sono troppi, davvero troppi… penso a tutto il tempo che ho buttato via. A quello che avrei potuto fare. E quando esci cosa fai? Sei un pregiudicato, ogni volta che ti fermano lo vedono. Ai colloqui di lavoro lo vedono». Silenzio.
È difficile raccogliere in modo neutrale i loro racconti. Gli dico che non sono anni buttati via, che forse è riuscito a cambiare grazie al tempo passato in prigione. «No», mi interrompe. «Quattro anni sono troppi…», appoggia i gomiti sul tavolo di plastica che sembra deformarsi sotto la sua rassegnazione, «per un ragazzo di diciannove anni che entra in carcere con dei problemi di tossicodipendenza, per reati minori». Alza la testa. «Non riesco a sbarazzarmi di tutti gli anni che ho passato qui dentro». Dice che non ha più i documenti, anche se è in Italia da sempre non ha la cittadinanza. «E adesso chi me la da più? Fuori dicono che non si trova lavoro, figurati se lo trova un pregiudicato».
La prima volta che è finito in carcere aveva diciott’anni. È entrato per direttissima, una settimana di isolamento e quando è uscito tutto ha ripreso dal punto in cui si era interrotto. Un anno dopo lo arrestano di nuovo, «torno dentro e prima di capire cosa sta succedendo mi prendo sette anni. Nel tempo si erano accumulate le denunce a mio carico e mi arrivano tutte insieme, come un colpo in testa». Fa una Pausa. «Sette anni». Mi guarda per qualche secondo.
«Quando capisco che devo fare sette anni in questo buco, dove ti manca l’aria dopo un’ora, sto male. Mi viene un esaurimento dopo l’altro. All’inizio non sai la questione dell’abbuono ogni semestre, o della possibilità di passare in articolo 21 per buona condotta. E anche se lo sapessi non cambia. Vado dallo psichiatra. Se non ce la fai più chiedi la terapia allo psichiatra. Per tre giorni te ne stai sedato e non pensi a un cazzo, dopo tre giorni tutto daccapo, torni dallo psichiatra che ti dà altre pillole. Oppure ti tagli per attirare l’attenzione».
Samir ha due cicatrici spesse sullavambraccio, sotto l’incavo del gomito.
Aprile
Franco, il coinquilino di Eaco, ci accoglie al suo posto. «È disperso quello là, ma prima o poi torna, non ti preoccupare» dice serio. Indossa guanti di gomma rosa e canta. «Non vi stringo la mano perché sto pulendo i cessi, finisco e arrivo, intanto mettetevi comodi, fate come a casa vostra». Pochi istanti e arriva anche Eaco: «Visto che brava compagna mi sono trovato? Pulisce, cucina, cosa posso chiedere di più?». Ride.
Franco è lunico che ci parla dei propri reati. Inizia Eaco, non ricordo per quale ragione, a dire che era un artista della rapina. E Franco racconta la sua carriera criminale, dalle prime truffe fino ai colpi da maestro. Eaco invece continua a parlare dei propri interessi culturali, ancora di teatro e libri. Parla di quello che fa fuori, dove abita, chi incontra, come se lo stesse facendo anche adesso, come se il carcere non esistesse, fosse un tempo azzerato. «E nei fatti lo è» dice, «non distingui un giorno dall’altro, sono tutti uguali, non fai niente».
«Arrivi a un punto in cui non c’è davvero più niente da fare, se non ammazzare il tempo».
Poi indica i libri che ha impilato sul tavolo e spiega che glieli manda suo fratello. Sono in prevalenza di autori sudamericani. Gli chiedo che attività segue in carcere, se partecipa al corso di teatro. «Faccio poco e niente, sto seguendo un corso da giardiniere. Ma ho fatto di tutto, anche teatro. Arrivi a un punto in cui non c’è davvero più niente da fare, se non ammazzare il tempo».
Veniamo interrotti dalla conta. Io e Cristian dobbiamo allontanarci. L’agente chiede a tutti di entrare in cella e fa il giro di rito. I detenuti lentamente rientrano e chiudono la porta a grate. Ci vogliono quaranta minuti prima che riprendano a circolare liberamente in sezione. Quando la procedura finisce il corridoio è livido, devono ancora accendersi i neon e su tutto prevale il grigio che entra dalle finestre sprangate. I detenuti escono dividendosi in piccoli gruppi. Eaco, che ci aveva chiesto di attendere la fine della conta, quasi non ci riconosce; accorgendosi che lo cerchiamo, si allontana dal suo gruppo e ci saluta in fretta. Ha un’espressione diversa, il rituale della conta ha smagato la realtà che stava rievocando e adesso ci divide uno spazio incolmabile. La distanza tra esterni e detenuti, che si annulla quando parliamo con loro, d’improvviso torna a separarci ed esaurisce il nostro tempo di permanenza all’interno del carcere. Succede anche con gli agenti. L’equilibrio interno è delicato e chi ci lavora, come chi ci vive, sa individuarne d’istinto il punto di rottura.
Maggio
Passando davanti alla sua cella, un pomeriggio sorprendiamo Samir intento a disegnare. A breve uscirà, manca un anno al termine della sua pena, dopo il continuato è stata abbassata di qualche mese e con gli abbuoni degli ultimi due anni ne ha guadagnati altri sei. «L’ultimo lo sconto in comunità» dice. Ma ancora non è sicuro. Sa che deve presentare la richiesta al giudice, che inizialmente l’istanza era stata respinta, ma adesso dovrebbe essere accolta.
Samir non riesce a seguire con precisione il corso delle sue vicende giudiziarie, fa confusione sulle norme che regolano la detenzione e questa nuvola d’incomprensione si ripercuote sulle sue giornate. In realtà è una condizione comune a molti detenuti. In pochi conoscono con precisione i termini della propria pena, gli sviluppi processuali, le revisioni, le istanze presentate dai loro avvocati, i tempi di risposta alle richieste di colloqui con legali, educatori, psicologi, famigliari. La vaghezza dipende in parte dai tempi della giustizia e dalla macchinosità delle procedure, in parte dalla loro imprecisione o pigrizia mentale, dalla rassegnazione davanti a uno strumento sgangherato contro cui è deleterio accanirsi. Tanto non funziona.
Samir tamburella i palmi sulla base di plastica del tavolo. Sorvola prudente ma contento l’idea della comunità. Dice che non vede l’ora. Gli hanno spiegato che è sulle nostre colline, «un posto tranquillo, in mezzo al verde». Abiterà con persone che si stanno disintossicando, anche se lui non si sente più dipendente dalle sostanze. «Ma l’importante è uscire. Per tre mesi non posso vedere proprio nessuno, poi un po’ alla volta cambia». Batte ancora le dita contro il tavolo, un rullio improvviso, poi fissa la superficie bianca e non dice niente.
Passa un minuto di silenzio, d’improvviso mi guarda e dice: «L’ho quasi strangolato, avevo diciassette anni». Gli tremano le mani, appoggia le braccia sulle ginocchia. «Non sono nato qua, sono venuto con la mia famiglia dalla Tunisia, pochi mesi dopo». A parte qualche breve parentesi, ha sempre vissuto in Italia. È tornato in Tunisia solo per frequentare la prima elementare, poi di nuovo in Italia.
Samir tamburella i palmi sulla base di plastica del tavolo. Sorvola prudente ma contento l’idea della comunità. Dice che non vede l’ora.
«Appena arrivati stavamo da Ernesto, un signore di qua, aveva trovato lavoro a mio padre, lui ha sempre lavorato come operaio. Poi ci siamo trasferiti». Ha due sorelle più piccole, una di diciannove e una di dodici anni, è cresciuto con loro e i genitori.
«In casa non è mai andata bene. Mio padre era un tiranno, musulmano e praticante per quello che gli faceva comodo. Le regole valevano per le donne a casa mia, non per lui. Mia madre a casa a fare tutto, e zitta, se no le prendeva come me».
«Lui era mezzo matto, beveva e ci picchiava. Mi sentivo oppresso, avevo sempre paura delle sue reazioni. Fino a quando una sera un mio amico mi guarda e dice prendilo a calci. «Eh?». Cosa aspetti? Sei due volte lui.
«In effetti ero già come sono adesso. Era molto tempo che ci pensavo, ma avevo paura. Poi un giorno è successo, gli ho risposto. Lo spingo, lui tira fuori un coltello e mi taglia la giacca, mia madre urla, io gli salto addosso e gli metto le mani al collo. Quasi lo strangolo». Si appoggia allo schienale. «Mi sono sentito bene, per la prima volta mi sono sentito libero. È stato uno dei giorni più belli della mia vita». Fa una pausa. «Però immagina uno che a diciassette anni, da oppresso diventa libero. Perde l’unica forma di controllo, anche se è la violenza. Mio padre se ne va di casa. Non so neanche dove sta, adesso».
Epilogo
Lo sfondo della foto di profilo di Luka su WhatsApp è l’esterno del primo bar che si incontra fuori dal carcere. Poi lui in primissimo piano con una sciarpa fin sotto agli occhi. Poi lui, serio, nel giardino della casa di cura in cui lavora. La raggiunge con i mezzi, «comodo» dice. «Fino a settembre venivo in bicicletta, sono pochi chilometri, poi si è bucata». Ci accompagna fuori e fuma un’altra sigaretta. C’è il sole e sembra primavera, anche se è novembre. Il lavoro gli piace, non pensava, non l’aveva mai fatto, invece gli piace. «Do da mangiare ai pazienti, gli tengo compagnia, aiuto gli infermieri ad allettarli, cose di questo tipo».
Di notte torna dentro a dormire, nella palazzina dei semiliberi. Adesso c’è anche suo padre Stefan.
«Devo rientrare per le undici di sera» dice Luka. «Tutti i giorni quando finisco di lavorare vado a scuola. Frequento i serali dello stesso indirizzo che ho iniziato dentro. Però nei tempi morti faccio quello che voglio. Per dire oggi finisco alle tre, torno dentro mi faccio una doccia e poi esco per andare a scuola. Mangio qualcosa in giro, un kebab o una pizza e poi vado a lezione».
Mentre camminiamo per le vie del centro Stefan lo chiama, gli chiede cosa sta facendo, dov’è e con chi, gli ricorda di tornare per tempo.
Un paio di settimane dopo lo passiamo a prendere all’uscita della scuola e andiamo verso il centro per mangiare qualcosa e fare due passi. Luka è entusiasta, fotografa i teatri, il duomo e chiede a Cristian di fargli una foto da mettere sul profilo o inviare a una ragazza che ha conosciuto su Facebook. Ma viene troppo serio o troppo in posa, «non sono io» dice, «lascia stare».
Insiste per passare davanti alla biblioteca comunale, per vedere com’è, «papà la settimana prossima inizia a lavorare lì». È stato assegnato anche lui in articolo 21. Mentre camminiamo per le vie del centro Stefan lo chiama, gli chiede cosa sta facendo, dov’è e con chi, gli ricorda di tornare per tempo. Luka ascolta, poi lo liquida dicendo che richiama più tardi.
Prima di riaccompagnarlo dentro ci fermiamo in birreria. Parliamo del più e del meno, Luka è calamitato dal telefono e dalle immagini dei televisori. I monitor del locale proiettano vecchie partite dellInter di Ronaldo. «È il ’98», dice a colpo sicuro, «eravamo sempre allo stadio». Ride, «non c’era volta che non riuscivamo a entrare». Seguono le immagini del derby e Luka dice «c’ero», ricorda chi ha segnato, sorride di nuovo, poi torna chino sul telefono.
Alle undici precise siamo davanti all’ingresso del carcere. Mentre attraversa la guardiola diamo un occhio alla sua bici legata alle cancellate. La sua ombra attraversa il cortile e sparisce dentro alla palazzina.
Le popolazioni artiche li descrivono come sibili di breve durata, fischi sommessi, deboli crepitii. Nella mitologia Inuit sono segnali di risposta da parte degli antenati; in quella finlandese, il fruscio prodotto dalla coda di una volpe di fuoco.
La storia dei suoni prodotti da intense manifestazioni dellaurora boreale parte da lontano e affonda le sue radici nel folklore. I primi tentativi di dare un valore scientifico a tali osservazioni risalgono alla metà degli anni Sessanta, quando un gruppo di geofisici dellUniversità dellAlaska effettua la prima registrazione con microfoni a banda larga. Dallanalisi delle tracce non emerge nulla. Nel 1969 arriva la prima conferma di una vibrazione prodotta da unaurora. Il suono è nel regime delle basse frequenze e non risulta udibile allorecchio delluomo se non tramite sofisticate apparecchiature.
Lo studio dei suoni prodotti dalle aurore ha da sempre suscitato grande diffidenza nel mondo accademico. Il motivo è presto a dirsi: i fasci danzanti dellaurora hanno origine a unaltitudine di oltre 100 km dal suolo, laddove le particelle del vento solare perdono energia sotto lazione del campo magnetico terrestre, regalando riflessi verdi, azzurri, violacei. Ammettendo pure che da tale interazione scaturisca un suono, questo non avrebbe alcuna possibilità di raggiungere un osservatore a terra con caratteristiche apprezzabili, dato il lungo percorso e lattenuazione.
Il campo di ricerca vive vicende alterne e gli scarsi progressi avvengono grazie ad appassionati e accademici residenti alle alte latitudini che vi si dedicano in forma saltuaria. A credere più di ogni altro nel progetto è il professore di acustica Unto K. Laine, dellUniversità Politecnica di Helsinki.
“Ho assistito alla mia prima aurora boreale alletà di tre anni. Laurora era accompagnata da strani suoni.”
Il professor Laine è guidato non solo da un interesse professionale, ma soprattutto dallaver fatto esperienza in prima persona del raro fenomeno sonoro nellautunno del 1990, nella Lapponia finlandese. Laine, insieme al suo gruppo di ricerca, sviluppa nuove tecniche di rilevazione acustica e nel 2011, in concomitanza di un massimo solare, registra la prima traccia riconducibile a un suono prodotto da unaurora boreale ben entro il limite di frequenze percepite dalluomo. Il suono pare avere origine a una distanza di soli 70 metri dal suolo.
Nel giungo del 2016, incrociando nuovi segnali con dati da una sonda aerostatica dellistituto finlandese di meteorologia, il professore svela il meccanismo che cè dietro alla produzione di tali fruscii, e dimostra in via definitiva la veridicità del fenomeno. Abbiamo chiesto al prof. Laine di rispondere ad alcune delle nostre domande.
Professor Laine, quando ha sentito parlare per la prima volta dellaurora boreale e che impressione le ha fatto?
Ho assistito alla mia prima aurora boreale alletà di tre anni. Ho un ricordo vago dellaccaduto, è stato mio fratello a confermare che abbiamo davvero assistito a unintensa manifestazione dellaurora boreale insieme a tutta la famiglia. Lui ricorda che in quelloccasione abbiamo avuto la fortuna non solo di guardarla, ma anche di ascoltarla. Laurora era accompagnata da strani suoni. Il mio interesse più rigoroso per il fenomeno risale allautunno del 1990, in seguito ad un viaggio in Lapponia in compagnia di alcuni amici.
Quali sono le condizioni atmosferiche ideali per il verificarsi di suoni aurorali e qual è il meccanismo che li produce?
I suoni sono favoriti dalle tempeste geomagnetiche associate a intense manifestazioni dellaurora boreale. Nei giorni di sole, con lalta pressione, laria al suolo si riscalda e la sera in assenza di vento prende lentamente a salire, fermandosi a unaltezza di circa 70100m. Questaria trasporta un eccesso di ioni negativi. Con il verificarsi di unaurora boreale il campo magnetico terrestre subisce delle piccole perturbazioni che aumentano la permettività elettrica dellaria, favorendo la scarica a terra degli elettroni in eccesso. Come sappiamo dallesperienza quotidiana, una piccola scarica elettrica produce un suono, in questo caso il suono prodotto è quello dellaurora.
Ha incontrato difficoltà nel racimolare finanziamenti per la sua attività di ricerca? Pensa ci siano altri campi, oltre al suo, che soffrono di un certo pregiudizio da parte della comunità scientifica e che meriterebbero invece maggiore attenzione?
È stato tutto molto difficile. In un campo speculativo come il nostro, racimolare fondi è unimpresa quasi impossibile. Questo atteggiamento è in parte giustificato, dato che nessuno vuole correre il rischio di sprecare soldi e tempo per niente. Per lo stesso motivo molte idee nuove e radicali fanno fatica a trovare lo spazio che meriterebbero. Dovremmo dare spazio anche a quei progetti di ricerca che implicano un certo rischio.
A che punto è la sua ricerca e quali sono i suoi prossimi obiettivi?
Io mi sento di dire che dal punto di vista scientifico la questione è chiusa. Al momento sono impegnato a studiare la storia di questi suoni e limpatto che hanno avuto sulla cultura dei popoli che li hanno ascoltati. In mio archivio si arricchisce di nuove informazioni ogni giorno. Recentemente ho studiato alcune pitture rupestri rinvenute in Finlandia e risalenti a 50007000 anni fa che potrebbero darci nuovi indizi su queste affascinanti fenomeni celesti. Nellantichità laurora è stata interpretata come unentità magica, un essere luminoso che faceva la sua comparsa nei cieli invernali. Questa è stata la spiegazione ufficiale prima che nel sedicesimo secolo si iniziasse a dare una spiegazione scientifica ai fenomeni naturali.
Non pensa che a volte sarebbe più confortante pensare allaurora come a un fenomeno dalla natura prettamente magica, piuttosto che al risultato della fluttuazione di un campo magnetico? La scienza moderna non scoraggia ad apprezzare il lato ingenuo, immaginativo della natura?
Qualche giorno fa ho discusso il tema in un seminario aperto al pubblico. Ho iniziato la mia presentazione introducendo il sistema cognitivo umano, e ho spiegato come un bambino prenda coscienza del mondo attraverso i sensi: la vista, ludito. A questo stadio le nostre interpretazioni sono innate. Ma andando avanti, esse diventano frutto della cultura in cui ci troviamo. Per trovare qualcosa di nuovo dovremmo guardare il mondo con gli occhi di un bambino, dimenticando tutte le interpretazioni. Dovremmo chiudere i libri e andare a osservare la realtà originale e oggettiva del mondo, quella della natura. Tutto ciò che abbiamo imparato dalla nostra cultura ci impedisce di guardare la realtà con onestà. Abbiamo frapposto delle lenti culturali, colorate, tra noi e la realtà. La verità finale è nascosta nella realtà, ed è nostro dovere andare a cercarla con metodi nuovi e nuove idee. Questo richiede moltissima immaginazione.
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