Nel dialetto sloveno locale è conosciuta come “Topoluove”, situata a pochi chilometri dal confine tra Italia e Repubblica della Slovenia, nell’estremo Friuli-Venezia Giulia, è la frazione più popolosa del Comune di Grimacco. Ogni luglio, da ventiquattro anni, si popola delle più varie personalità creative in occasione della rassegna artistica che prende il nome di Stazione di Topolò, Postaja Topolove. Non so molto altro mentre mi dirigo lì, ho fiducia che il luogo stesso mi parlerà per farsi conoscere. Suo principale portavoce sarà per me Moreno Miorelli, non solo poeta, ideatore e organizzatore del festival, ma anche ex coinquilino di Andrea Pazienza, nel suo periodo a Montepulciano.
Abbiamo appuntamento alle nove nella piazzola che affaccia sulle montagne, più che una piazzola è un incrocio di viottole. La frazione ne è piena, è un borgo piccolissimo, tutto raccolto nelle montagne, a circa seicento metri di altitudine. È un luogo che non parla subito, aspetta a schiudersi. Rompe il suo guscio di foglie e sassi, curva dopo curva, non alla prima, non alla seconda, nemmeno alla terza. Ma se pazienti lo vedi. Gli alberi fanno spazio per un secondo alla vista panoramica. Da quel punto vedi l’intero borgo in lontananza, centrato in pieno dal sole, che ti saluta. Ti spiazza.
Il confine qui è stato attraversato dalla Guerra Fredda per anni e in quanto zona militare non avrei potuto raggiungere la zona con una macchina fotografica, sarebbe stata sequestrata. Per lo stesso motivo questi paesi non venivano tracciati sulle cartine di sentieristica, al loro posto veniva raffigurata solo una macchia verde. Nel 1991 con la caduta della Jugoslavia e del comunismo è divenuta accessibile.
Moreno è alto, è illuminato di luce. Ha un sorriso accomodante e contagioso, stagliato in un viso segnato ma al contempo disteso, tutto barba incolta e capelli brizzolati. È raggiante nella sua camicia tartan azzurra e bianca. Mi fa strada fino alla sua casa, una salita di qualche gradino in pietra, la villetta affaccia su un’ampia vallata. All’interno c’è una luce calda e tenue. Alla finestra, sotto le tende colorate, una mosca si centrifuga contro il vetro. Moreno siede alla mia destra.
“È una zona molto densa, e questa densità è qualcosa che ha fatto nascere la Postaja, che vuol dire stazione, in sloveno”, mi spiega Moreno. Stazione Topolò è metafora di tante cose, non è un vero e proprio festival, più che altro un laboratorio dove artisti internazionali propongono interventi ed opere che giudicano adatti alla realtà del luogo.
“Abbiamo portato qui delle persone che sanno mettersi in ascolto, non solo esporre. Dal 1994 vengono in queste valli perché si possano guardare intorno, vivere questa atmosfera con l’obiettivo di creare qualcosa, sulla base di quello che ascoltavano, vedevano, sentivano, provavano” aggiunge.
Tramite una ricerca sonora, visiva e narrativa la cultura respira e rivive in tutte le sue forme adattandosi all’ambiente circostante. Un luogo al limite del reale. “E come mai hai deciso di darle questo nome?” chiedo. “Non è stato facile trovarne uno adatto, ed essendo in difficoltà ho deciso di utilizzare un metodo che nel mio caso è infallibile. Ho gli scaffali dei libri di poesia, li osservo, passo e ne prendo uno a caso. Ho aperto Evtušenko, La stazione di Zimà. Alè. Stazione di Topolò”. Sorride.
Un nome azzeccato, penso. La gente arriva da ogni dove, sosta il tempo necessario per rigenerarsi spiritualmente, per incontrare altri artisti e spettatori. Arriva con una valigia vuota e riparte con bagagli carichi di nuove idee, ricordi e dolcetti tipici sloveni (almeno nel mio caso).
Moreno lo sa bene, sa quanto valore abbia il clima di libertà che vige a Topoluove, lui che la libertà l’ha sempre inseguita sin da ragazzo. Non a caso saluta la famiglia e a ventiquattro anni si trasferisce dal biellese a Montepulciano con il suo furgone. Va in giro ora trasportando mobili, ora aiutando con le vendemmie e le raccolte delle susine. Si inventa perfino di fare da Cicerone per le strade di Montepulciano e Pienza quando ancora la zona non era molto conosciuta e turistica, intercettando quei rarissimi pullman di visitatori che arrivavano lì per assaggiare il vino nobile.
“Sai in quegli anni ci si spostava così, si inseguiva la bellezza. Non seguivi il lavoro e non c’erano quelle regole che oggi non ti permettono di vivere così. All’epoca era tutto sciolto. Si viveva proprio alla giornata, eravamo in tanti fuori di casa, la vita in qualche modo la sfangavi”.
Ed è proprio a Montepulciano che Moreno conosce l’allora ventottenne Andrea Pazienza, nel 1984, ormai mito del fumetto nei giri bolognesi e nel resto dell’Italia. Non sa molto di lui quando diventa suo coinquilino nel grande appartamento dove la proprietaria per alloggiare Andrea e Marina, sua moglie, aveva sistemato un armadio per separare le due zone della casa.
“Ci parlavamo attraverso quello. Da dove stavo io al lato di appartamento dove stava lui. Io avevo meno soldi, potevo permettermi una sola stanza. Lui non aveva molti soldi, però godeva degli aiuti di Mauro Paganelli, di Editori del Grifo, che lo aveva tolto da Bologna, dove rischiava un po’ la vita perché era finito già due volte in rianimazione”.
Entrambi amanti delle passeggiate i due legano in fretta. Ogni giorno escono per esplorare le terre toscane della Val D’Orcia.
“Lui era sempre fuori di sé, con gli occhi fuori dalle orbite, attentissimo agli animali, alle storie delle persone, a tutto. Una bellissima persona. Era molto diverso dal personaggio trasgressivo e alternativo che viene fuori dai suoi fumetti”.
Durante quel periodo Moreno si interessa di arte e icone bizantine oltre che di poesia, e pianifica di laurearsi. Così, mentre fa ricerca per lavorare alla sua tesi, coglie l’occasione per avvicinare Andrea al mondo dell’arte rinascimentale dei dintorni, di cui lui non era a conoscenza. Paz se ne appassiona rapidamente e resta folgorato davanti ad opere come il dipinto dell’Annunciazione del Beato Angelico, al museo di Cortona, in provincia di Arezzo.
“Siamo entrati in questa stanza e l’Annunciazione era lì, un quadro incredibile. Ricordo che lui entra, si porta le mani alla testa, esce in fretta, e mi fa Non posso, non posso, aspetta, aspetta, aspetta. Si calma per qualche minuto e dopo un po’ di tempo decide di rientrare. Ebbe un’emozione fortissima nel vederlo. C’è rimasto davanti non so quanto. Era inverno, eravamo vestiti pesante, andiamo nel bar davanti al Museo per prendere un cappuccino e lì mi dice Morris – perché mi chiamava così – dobbiamo tornare dentro, io devo rivederlo, però cazzo io non gli do i soldi di nuovo per rientrare. Allora rientra, chiacchiera con la cassiera, prende a raccontarle perché deve assolutamente rivedere il quadro. La assedia al punto che alla fine lei ci fa entrare di nuovo, estenuata”.
Mentre vengono alla luce altre storie di quelle giornate si delinea perfettamente nella mia mente l’immagine di Andrea Pazienza dagli occhi di eterno bambino, travolto dalle sensazioni e dalle emozioni in modo unico e irripetibile, quasi fosse senza pelle.
“Mi ricordo che davanti alla Rocca d’Orcia c’era lo strapiombo continuo, noi eravamo seduti uno di fronte all’altro. Gli raccontavo le storie degli imperatori bizantini, lui se ne stava a fissarmi, poi si alzava ed espirava forte, come per defaticare, poi si risiedeva e mi diceva di riprendere”.
Moreno mi parla di come insieme hanno sbloccato il Pompeo, che era fermo da un po’ quando un giorno decise di fargli ascoltare un disco recuperato dai suoi scatoloni pieni di libri di poesie, suo unico mobilio. L’ellepì in questione era un disco doppio di Carmelo Bene che legge Blok, Majakovskij, Pasternak ed Esenin, versi che effettivamente ritroviamo proprio nel fumetto. Non appena Paz le sente casca per terra e scoppia in lacrime. Moreno viene travolto dal panico convinto gli fossero venute delle coliche, che stesse per avere un infarto. Andrea! gli chiedo, cosa faccio, chiamo un’ambulanza?. No, no! mi risponde, questo, questo, voglio sentirlo ancora!. Prendeva le cose così. A quel punto non so quante volte lo risentimmo quel giorno”.
Una signora ci chiede da quante ore stiamo parlando. In effetti con Moreno il tempo scorre diversamente.
“Così sbloccammo il Pompeo e lo portò alla fine, anche perché nel fumetto tutto quello che vedi è trasposizione del reale. Andrea non inventava niente, si può dire fosse quasi senza fantasia. Si muoveva partendo dal racconto di tutti, magari faceva delle modifiche, ma raffigurava immagini precise”.
Quando Moreno parte e si trasferisce in Piemonte assieme alla sua prima moglie i due continuano a sentirsi telefonicamente per scambiarsi informazioni e raccontarsi storie.
“Lui aveva questa passione del telefono, ci trascorreva ore e ore. Che fossero i suoi amici, sua mamma, sua sorella, proprio con un atteggiamento del Sud. La famiglia prima di tutto”.
Tutto questo era una vera sciagura per la signora del bar che abitava a circa quattrocento metri da casa di Moreno, che non aveva il telefono. La poveretta, una signora anziana, ogni giorno doveva raggiungerlo a piedi ad avvisarlo. Guardi che c’è il suo amico diceva, mi racconta sorridendo.
Ben presto decidono di realizzare insieme una storia, intitolata Campofame, che esce sulla rivista di Comic Art, viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001.
Il poema era di un americano poco conosciuto di nome Robinson Jeffers. Racconta di un uomo che vive in una zona sulla costa del Carmelo in California, chiamato alle armi nel 1918 e ferito mortalmente durante un conflitto. Prima di spirare, l’uomo vede arrivare la morte e intrattiene un combattimento con lei sconfiggendola.
“Quando sente questa storia del combattimento con la Morte fu come per Carmelo Bene, mi interrompe immediatamente, all’improvviso corre su per le scale – lui si muoveva proprio come nelle sue vignette – quattro gradini alla volta. Si attacca al telefono e chiama subito la Rizzoli, di cui conosceva la segretaria, e comincia a raccontarle questa storia incredibile di quest’uomo. Sai che quest’uomo ha combattuto con la Morte?? le dice. Ridiamo.
“Proprio lui non aveva
sai, non pensava questa qui magari sta prendendo un caffè, sta lavorando, sta pensando agli affari suoi, no. Fermi tutti, c’è un uomo che ha combattuto con la morte!, ma in lacrime lo diceva, capisci? In lacrime. Piangeva molto, aveva questo dono, raro per gli uomini, di commuoversi. E aveva questa grande capacità di coinvolgimento, chiunque si sentiva importante di fronte a lui. Ti alzava di grado, ti faceva sentire Napoleone. Non era un metodo però, era un atteggiamento di pancia, avrebbe anche potuto non disegnare”.
“Dunque Andrea non è mai stato a Stazione Topolò, pensi gli sarebbe piaciuto?” gli chiedo.
“Uff, non ce lo saremmo più tolti di qua”, risponde ridendo. “Avrebbe fatto di tutto. Qui abbiamo proiettato il documentario Andrea Pazienza a Montepulciano in cui ci sono le testimonianze della gente di lì su com’era l’Andrea che conoscevamo. Una specie di boy-scout con dei tratti completamente diversi da quelli che descrivono le persone che l’hanno conosciuto a Bologna. Lui aveva una sorta di doppia personalità, chi se ne intende di oroscopi ti avrebbe detto che era proprio del segno dei Gemelli. Perché in effetti in città lui probabilmente diventava un altro”.
A pensarci bene, mi torna in mente come proprio nel Pompeo Andrea scrive: “Ora che vivo in campagna i ragazzi di qui mi chiamano vecchio Paz e, faccio per dire, ho ventinove anni”.
“A Montepulciano era davvero una persona pulita. Talmente pulita da essere addirittura un benpensante. Mi ricordo che dopo un paio di settimane delle nostre passeggiate pomeridiane, tutti i giorni, in giro per i colli della Toscana, un giorno mi ferma, mi dice Ferma. Adesso te lo dico, ed io ho pensato porca puttana, adesso mi dice che è omosessuale, che si è innamorato, chissà che cosa. Pensai immediatamente a quello, aveva la voce tremante, con lo sguardo agitato. Mi dice penso che se ti dico questa cosa dopo non sarai più mio amico come prima. Non sapevo cosa fare, ero già pronto a rispondergli che non ricambiavo il sentimento. Io, io fino a poche settimane fa e non adesso, io mi drogavo, mi dice. Io ero dei uno pochi a non farsi e ne conoscevo pochi altri, buona parte dei miei amici allora erano tossici, per cui mi chiedevo quale fosse il problema. Lui tira un enorme sospiro di sollievo, e mi fa io non sapevo come dirtelo, io ero disperato. Quel gesto mi ha sconvolto quanto vederlo per terra dopo le poesie che gli avevo fatto ascoltare. Avevo letto i suoi fumetti, sapevo di che scriveva, non mi spiegavo come potesse avere istintivamente una reazione di paura e vergogna per il fatto di bucarsi, in un periodo in cui tutti si vantavano di bucarsi. Perché tutti si vantavano. Quella era la linea di demarcazione. È l’unica persona di centinaia che incontrai di quelle che facevano uso di sostanze pesanti che abbia vissuto in quel modo l’eroina. Invece a Bologna era un altro, aveva un pubblico che gli richiedeva essere il Pazienza dei fumetti”.
Dalle parole di Moreno sembra trasparire una sorta di piccolo dramma personale che probabilmente Pazienza ha sofferto negli ultimi anni della sua vita. Quando realizzava cose come Campofame prendeva appena la sufficienza sulle classifiche realizzate da Comic Art, mentre schizzava subito al dieci non appena uscivano nuove vicende su Zanardi, personaggio ampiamente più noto.
Si intuisce quanto possa risultare difficile per un artista continuare a realizzare sempre la stessa cosa. Come chiedergli di continuare a vivere lo stesso sentimento allinfinito.
“Ricordo che voleva tanto dei figli. Voleva essere il patriarca. Il suo sogno era essere a tavola con la moglie e tutta la sua progenie. Ma d’altronde Marina era giovane, erano andati in Brasile, a Bali, volevano ancora godersi un po’ la vita itinerante e non fecero in tempo ad averne. Era il classico uomo del Sud, andava dal barbiere tutti i giorni a farsi la barba, ci teneva a un certo atteggiamento. Quando uscivamo per fare la spesa e i negozianti ci chiedevano che mestiere facessimo io rispondevo sempre di fare il trasportatore, mentre lui fingeva d’essere un pubblicitario. Quando gli chiesi perché si dichiarasse tale lui mi rispose ma tu stai scherzando? Questi qui si sono alzati alle cinque del mattino, per andare a prendere la verdura, se ne stanno tutto il giorno sotto il sole a vendere cose e io gli dico Faccio fumetti? Quelli mi pigliano a calci nel culo e fanno bene! Per dirti com’era”.
Rido e mi torna in mente una delle citazioni di Paz a cui sono più affezionata.”Fai l’artista, te ne freghi, ma in verità è la gente che se frega! Dici: che mi frega, sono un artista, se vi va bene così, sennò ciccia. Ma sai che gliene frega alla gente che sei un artista! Sei un artista? E ce lo cachi che sei un artista!”.
Saluto Moreno con un lungo abbraccio di gratitudine. Mi incammino felice e in mente ho questo pensiero, Paz e Moreno, impettiti e gonfi d’amore, seduti lì a tavola tra le montagne, a brindare con le loro ridenti numerosissime famiglie sotto al sole, quello che batte solo a Topolò.
Nel dialetto sloveno locale è conosciuta come “Topoluove”, situata a pochi chilometri dal confine tra Italia e Repubblica della Slovenia, nell’estremo Friuli-Venezia Giulia, è la frazione più popolosa del Comune di Grimacco. Ogni luglio, da ventiquattro anni, si popola delle più varie personalità creative in occasione della rassegna artistica che prende il nome di Stazione di Topolò, Postaja Topolove. Non so molto altro mentre mi dirigo lì, ho fiducia che il luogo stesso mi parlerà per farsi conoscere. Suo principale portavoce sarà per me Moreno Miorelli, non solo poeta, ideatore e organizzatore del festival, ma anche ex coinquilino di Andrea Pazienza, nel suo periodo a Montepulciano.
Abbiamo appuntamento alle nove nella piazzola che affaccia sulle montagne, più che una piazzola è un incrocio di viottole. La frazione ne è piena, è un borgo piccolissimo, tutto raccolto nelle montagne, a circa seicento metri di altitudine. È un luogo che non parla subito, aspetta a schiudersi. Rompe il suo guscio di foglie e sassi, curva dopo curva, non alla prima, non alla seconda, nemmeno alla terza. Ma se pazienti lo vedi. Gli alberi fanno spazio per un secondo alla vista panoramica. Da quel punto vedi l’intero borgo in lontananza, centrato in pieno dal sole, che ti saluta. Ti spiazza.
Il confine qui è stato attraversato dalla Guerra Fredda per anni e in quanto zona militare non avrei potuto raggiungere la zona con una macchina fotografica, sarebbe stata sequestrata. Per lo stesso motivo questi paesi non venivano tracciati sulle cartine di sentieristica, al loro posto veniva raffigurata solo una macchia verde. Nel 1991 con la caduta della Jugoslavia e del comunismo è divenuta accessibile.
È un luogo che non parla subito, aspetta a schiudersi. Rompe il suo guscio di foglie e sassi, curva dopo curva.
Moreno è alto, è illuminato di luce. Ha un sorriso accomodante e contagioso, stagliato in un viso segnato ma al contempo disteso, tutto barba incolta e capelli brizzolati. È raggiante nella sua camicia tartan azzurra e bianca. Mi fa strada fino alla sua casa, una salita di qualche gradino in pietra, la villetta affaccia su un’ampia vallata. All’interno c’è una luce calda e tenue. Alla finestra, sotto le tende colorate, una mosca si centrifuga contro il vetro. Moreno siede alla mia destra.
“È una zona molto densa, e questa densità è qualcosa che ha fatto nascere la Postaja, che vuol dire stazione, in sloveno”, mi spiega Moreno. Stazione Topolò è metafora di tante cose, non è un vero e proprio festival, più che altro un laboratorio dove artisti internazionali propongono interventi ed opere che giudicano adatti alla realtà del luogo.
“Abbiamo portato qui delle persone che sanno mettersi in ascolto, non solo esporre. Dal 1994 vengono in queste valli perché si possano guardare intorno, vivere questa atmosfera con l’obiettivo di creare qualcosa, sulla base di quello che ascoltavano, vedevano, sentivano, provavano” aggiunge.
Questi qui si sono alzati alle cinque del mattino, se ne stanno tutto il giorno sotto il sole a vendere cose e io gli dico “Faccio fumetti”?!
Tramite una ricerca sonora, visiva e narrativa la cultura respira e rivive in tutte le sue forme adattandosi all’ambiente circostante. Un luogo al limite del reale. “E come mai hai deciso di darle questo nome?” chiedo. “Non è stato facile trovarne uno adatto, ed essendo in difficoltà ho deciso di utilizzare un metodo che nel mio caso è infallibile. Ho gli scaffali dei libri di poesia, li osservo, passo e ne prendo uno a caso. Ho aperto Evtušenko, La stazione di Zimà. Alè. Stazione di Topolò”. Sorride.
Un nome azzeccato, penso. La gente arriva da ogni dove, sosta il tempo necessario per rigenerarsi spiritualmente, per incontrare altri artisti e spettatori. Arriva con una valigia vuota e riparte con bagagli carichi di nuove idee, ricordi e dolcetti tipici sloveni (almeno nel mio caso).
Moreno lo sa bene, sa quanto valore abbia il clima di libertà che vige a Topoluove, lui che la libertà l’ha sempre inseguita sin da ragazzo. Non a caso saluta la famiglia e a ventiquattro anni si trasferisce dal biellese a Montepulciano con il suo furgone. Va in giro ora trasportando mobili, ora aiutando con le vendemmie e le raccolte delle susine. Si inventa perfino di fare da Cicerone per le strade di Montepulciano e Pienza quando ancora la zona non era molto conosciuta e turistica, intercettando quei rarissimi pullman di visitatori che arrivavano lì per assaggiare il vino nobile.
“Sai in quegli anni ci si spostava così, si inseguiva la bellezza. Non seguivi il lavoro e non c’erano quelle regole che oggi non ti permettono di vivere così. All’epoca era tutto sciolto. Si viveva proprio alla giornata, eravamo in tanti fuori di casa, la vita in qualche modo la sfangavi”.
Ed è proprio a Montepulciano che Moreno conosce l’allora ventottenne Andrea Pazienza, nel 1984, ormai mito del fumetto nei giri bolognesi e nel resto dell’Italia. Non sa molto di lui quando diventa suo coinquilino nel grande appartamento dove la proprietaria per alloggiare Andrea e Marina, sua moglie, aveva sistemato un armadio per separare le due zone della casa.
“Ci parlavamo attraverso quello. Da dove stavo io al lato di appartamento dove stava lui. Io avevo meno soldi, potevo permettermi una sola stanza. Lui non aveva molti soldi, però godeva degli aiuti di Mauro Paganelli, di Editori del Grifo, che lo aveva tolto da Bologna, dove rischiava un po’ la vita perché era finito già due volte in rianimazione”.
Entrambi amanti delle passeggiate i due legano in fretta. Ogni giorno escono per esplorare le terre toscane della Val D’Orcia.
“Lui era sempre fuori di sé, con gli occhi fuori dalle orbite, attentissimo agli animali, alle storie delle persone, a tutto. Una bellissima persona. Era molto diverso dal personaggio trasgressivo e alternativo che viene fuori dai suoi fumetti”.
Durante quel periodo Moreno si interessa di arte e icone bizantine oltre che di poesia, e pianifica di laurearsi. Così, mentre fa ricerca per lavorare alla sua tesi, coglie l’occasione per avvicinare Andrea al mondo dell’arte rinascimentale dei dintorni, di cui lui non era a conoscenza. Paz se ne appassiona rapidamente e resta folgorato davanti ad opere come il dipinto dell’Annunciazione del Beato Angelico, al museo di Cortona, in provincia di Arezzo.
“Siamo entrati in questa stanza e l’Annunciazione era lì, un quadro incredibile. Ricordo che lui entra, si porta le mani alla testa, esce in fretta, e mi fa Non posso, non posso, aspetta, aspetta, aspetta. Si calma per qualche minuto e dopo un po’ di tempo decide di rientrare. Ebbe un’emozione fortissima nel vederlo. C’è rimasto davanti non so quanto. Era inverno, eravamo vestiti pesante, andiamo nel bar davanti al Museo per prendere un cappuccino e lì mi dice Morris – perché mi chiamava così – dobbiamo tornare dentro, io devo rivederlo, però cazzo io non gli do i soldi di nuovo per rientrare. Allora rientra, chiacchiera con la cassiera, prende a raccontarle perché deve assolutamente rivedere il quadro. La assedia al punto che alla fine lei ci fa entrare di nuovo, estenuata”.
Mentre vengono alla luce altre storie di quelle giornate si delinea perfettamente nella mia mente l’immagine di Andrea Pazienza dagli occhi di eterno bambino, travolto dalle sensazioni e dalle emozioni in modo unico e irripetibile, quasi fosse senza pelle.
“Mi ricordo che davanti alla Rocca d’Orcia c’era lo strapiombo continuo, noi eravamo seduti uno di fronte all’altro. Gli raccontavo le storie degli imperatori bizantini, lui se ne stava a fissarmi, poi si alzava ed espirava forte, come per defaticare, poi si risiedeva e mi diceva di riprendere”.
Moreno mi parla di come insieme hanno sbloccato il Pompeo, che era fermo da un po’ quando un giorno decise di fargli ascoltare un disco recuperato dai suoi scatoloni pieni di libri di poesie, suo unico mobilio. L’ellepì in questione era un disco doppio di Carmelo Bene che legge Blok, Majakovskij, Pasternak ed Esenin, versi che effettivamente ritroviamo proprio nel fumetto. Non appena Paz le sente casca per terra e scoppia in lacrime. Moreno viene travolto dal panico convinto gli fossero venute delle coliche, che stesse per avere un infarto. Andrea! gli chiedo, cosa faccio, chiamo un’ambulanza?. No, no! mi risponde, questo, questo, voglio sentirlo ancora!. Prendeva le cose così. A quel punto non so quante volte lo risentimmo quel giorno”.
Una signora ci chiede da quante ore stiamo parlando. In effetti con Moreno il tempo scorre diversamente.
“Così sbloccammo il Pompeo e lo portò alla fine, anche perché nel fumetto tutto quello che vedi è trasposizione del reale. Andrea non inventava niente, si può dire fosse quasi senza fantasia. Si muoveva partendo dal racconto di tutti, magari faceva delle modifiche, ma raffigurava immagini precise”.
Quando Moreno parte e si trasferisce in Piemonte assieme alla sua prima moglie i due continuano a sentirsi telefonicamente per scambiarsi informazioni e raccontarsi storie.
“Lui aveva questa passione del telefono, ci trascorreva ore e ore. Che fossero i suoi amici, sua mamma, sua sorella, proprio con un atteggiamento del Sud. La famiglia prima di tutto”.
Tutto questo era una vera sciagura per la signora del bar che abitava a circa quattrocento metri da casa di Moreno, che non aveva il telefono. La poveretta, una signora anziana, ogni giorno doveva raggiungerlo a piedi ad avvisarlo. Guardi che c’è il suo amico diceva, mi racconta sorridendo.
Ben presto decidono di realizzare insieme una storia, intitolata Campofame, che esce sulla rivista di Comic Art, viene stampata in volume su “Zanardi e altre storie” e poi come titolo a sé dalla Edizioni Di nel 2001.
Il poema era di un americano poco conosciuto di nome Robinson Jeffers. Racconta di un uomo che vive in una zona sulla costa del Carmelo in California, chiamato alle armi nel 1918 e ferito mortalmente durante un conflitto. Prima di spirare, l’uomo vede arrivare la morte e intrattiene un combattimento con lei sconfiggendola.
“Quando sente questa storia del combattimento con la Morte fu come per Carmelo Bene, mi interrompe immediatamente, all’improvviso corre su per le scale – lui si muoveva proprio come nelle sue vignette – quattro gradini alla volta. Si attacca al telefono e chiama subito la Rizzoli, di cui conosceva la segretaria, e comincia a raccontarle questa storia incredibile di quest’uomo. Sai che quest’uomo ha combattuto con la Morte?? le dice. Ridiamo.
“Proprio lui non aveva
sai, non pensava questa qui magari sta prendendo un caffè, sta lavorando, sta pensando agli affari suoi, no. Fermi tutti, c’è un uomo che ha combattuto con la morte!, ma in lacrime lo diceva, capisci? In lacrime. Piangeva molto, aveva questo dono, raro per gli uomini, di commuoversi. E aveva questa grande capacità di coinvolgimento, chiunque si sentiva importante di fronte a lui. Ti alzava di grado, ti faceva sentire Napoleone. Non era un metodo però, era un atteggiamento di pancia, avrebbe anche potuto non disegnare”.
“Dunque Andrea non è mai stato a Stazione Topolò, pensi gli sarebbe piaciuto?” gli chiedo.
“Uff, non ce lo saremmo più tolti di qua”, risponde ridendo. “Avrebbe fatto di tutto. Qui abbiamo proiettato il documentario Andrea Pazienza a Montepulciano in cui ci sono le testimonianze della gente di lì su com’era l’Andrea che conoscevamo. Una specie di boy-scout con dei tratti completamente diversi da quelli che descrivono le persone che l’hanno conosciuto a Bologna. Lui aveva una sorta di doppia personalità, chi se ne intende di oroscopi ti avrebbe detto che era proprio del segno dei Gemelli. Perché in effetti in città lui probabilmente diventava un altro”.
A pensarci bene, mi torna in mente come proprio nel Pompeo Andrea scrive: “Ora che vivo in campagna i ragazzi di qui mi chiamano vecchio Paz e, faccio per dire, ho ventinove anni”.
“A Montepulciano era davvero una persona pulita. Talmente pulita da essere addirittura un benpensante. Mi ricordo che dopo un paio di settimane delle nostre passeggiate pomeridiane, tutti i giorni, in giro per i colli della Toscana, un giorno mi ferma, mi dice Ferma. Adesso te lo dico, ed io ho pensato porca puttana, adesso mi dice che è omosessuale, che si è innamorato, chissà che cosa. Pensai immediatamente a quello, aveva la voce tremante, con lo sguardo agitato. Mi dice penso che se ti dico questa cosa dopo non sarai più mio amico come prima. Non sapevo cosa fare, ero già pronto a rispondergli che non ricambiavo il sentimento. Io, io fino a poche settimane fa e non adesso, io mi drogavo, mi dice. Io ero dei uno pochi a non farsi e ne conoscevo pochi altri, buona parte dei miei amici allora erano tossici, per cui mi chiedevo quale fosse il problema. Lui tira un enorme sospiro di sollievo, e mi fa io non sapevo come dirtelo, io ero disperato. Quel gesto mi ha sconvolto quanto vederlo per terra dopo le poesie che gli avevo fatto ascoltare. Avevo letto i suoi fumetti, sapevo di che scriveva, non mi spiegavo come potesse avere istintivamente una reazione di paura e vergogna per il fatto di bucarsi, in un periodo in cui tutti si vantavano di bucarsi. Perché tutti si vantavano. Quella era la linea di demarcazione. È l’unica persona di centinaia che incontrai di quelle che facevano uso di sostanze pesanti che abbia vissuto in quel modo l’eroina. Invece a Bologna era un altro, aveva un pubblico che gli richiedeva essere il Pazienza dei fumetti”.
Dalle parole di Moreno sembra trasparire una sorta di piccolo dramma personale che probabilmente Pazienza ha sofferto negli ultimi anni della sua vita. Quando realizzava cose come Campofame prendeva appena la sufficienza sulle classifiche realizzate da Comic Art, mentre schizzava subito al dieci non appena uscivano nuove vicende su Zanardi, personaggio ampiamente più noto.
Si intuisce quanto possa risultare difficile per un artista continuare a realizzare sempre la stessa cosa. Come chiedergli di continuare a vivere lo stesso sentimento allinfinito.
“Ricordo che voleva tanto dei figli. Voleva essere il patriarca. Il suo sogno era essere a tavola con la moglie e tutta la sua progenie. Ma d’altronde Marina era giovane, erano andati in Brasile, a Bali, volevano ancora godersi un po’ la vita itinerante e non fecero in tempo ad averne. Era il classico uomo del Sud, andava dal barbiere tutti i giorni a farsi la barba, ci teneva a un certo atteggiamento. Quando uscivamo per fare la spesa e i negozianti ci chiedevano che mestiere facessimo io rispondevo sempre di fare il trasportatore, mentre lui fingeva d’essere un pubblicitario. Quando gli chiesi perché si dichiarasse tale lui mi rispose ma tu stai scherzando? Questi qui si sono alzati alle cinque del mattino, per andare a prendere la verdura, se ne stanno tutto il giorno sotto il sole a vendere cose e io gli dico Faccio fumetti? Quelli mi pigliano a calci nel culo e fanno bene! Per dirti com’era”.
Rido e mi torna in mente una delle citazioni di Paz a cui sono più affezionata.”Fai l’artista, te ne freghi, ma in verità è la gente che se frega! Dici: che mi frega, sono un artista, se vi va bene così, sennò ciccia. Ma sai che gliene frega alla gente che sei un artista! Sei un artista? E ce lo cachi che sei un artista!”.
Saluto Moreno con un lungo abbraccio di gratitudine. Mi incammino felice e in mente ho questo pensiero, Paz e Moreno, impettiti e gonfi d’amore, seduti lì a tavola tra le montagne, a brindare con le loro ridenti numerosissime famiglie sotto al sole, quello che batte solo a Topolò.