Quando giro l’angolo della calle, Anna sta uscendo dal portone di casa sua, i corti ricci color rame illuminati da un sole che sembra di fine inverno, sugli occhi un paio di occhiali scuri, quasi rotondi. Ci si riflette dentro il canale su cui si affaccia il palazzo da cui è appena apparsa.
L’appuntamento è nel sestiere di Cannaregio, in prossimità del Ghetto. Anna ha un saluto squillante. Mentre si avvicina, spiega che non riusciva a trovare – non è la prima volta – il bastone da passeggio che usa abitualmente, quindi oggi andremo in giro con quello che sta impugnando. Lo dice un po’ scocciata mentre lo oscilla piano sui masegni davanti a sé, calibrando i passi con una pazienza regale. Infila la mano nell’incavo del mio braccio. «Allora – l’intonazione della frase fa un’impennata giocosa – cosa vuoi sapere di me?».
Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua. A coinvolgerla in questa veste, un evento collaterale del Padiglione Catalano all’ultima Biennale: «L’artista Antoni Abad ha convocato l’Unione Ciechi per realizzare BlindWiki, una mappatura sonora della città che non si vede. Ma, soprattutto, della città che non si vede più», sottolinea la parola, «la Venezia sparita. Qui facciamo il ponte».
Nelle parole di Anna, le indicazioni giungono come un intercalare discreto, sempre puntuale rispetto a dove ci troviamo. L’oscillazione continua del bastone le suggerisce la fine della gradinata, prepara con cautela il piede alla discesa.
«Alla fine, mi sono trovata a essere l’unica veneziana cieca nata e cresciuta in città. Questo ha destato molta curiosità, perché le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano. Per esempio, una cosa che mi piace molto è la pietra d’Istria. Questa pietra bianca, bellissima. Si trova un po’ dappertutto, nei pozzi, lungo gli angoli dei palazzi, sui davanzali delle finestre». Rivolge il dito sottile verso ciò di cui sta parlando, che sembra apparire sornione alla sua menzione. «Faccio soprattutto riflettere su tante cose che la gente non vede».
Anna è nata con una grave forma di ipovisione – due retine di colori sbiaditissimi, i profili delle cose sfumati in una nebbia fittissima. Ma la sua Venezia ha forme e dimensioni precise, tradite occasionalmente solo dall’urto imprevisto contro i tavolini di qualche plateatico nato da troppo poco e in modo troppo poco normato per esserle noto. Mentre racconta la sua infanzia, la sua voce insiste leggermente su alcune vocali, con incedere fiabesco. «Sono nata all’arsenale militare. Proprio dentro, perché mio papà era in Marina. Io da bambina ero ipovedente grave, vedevo pochissimo. Il fatto di conoscere bene Venezia è dovuto alla pazienza, alla costanza di un fratello di mia madre». Tira lievemente verso una calle un po’ nascosta.
«Per darmi più autonomia, mio zio faceva una cosa molto particolare: oltre a leggermi tantissimi libri storici, come i diari del Molmenti, mi portava in giro per la città. Camminare, camminare, camminare. Continuamente. Mi leggeva i nomi dei nizioleti, sai cosa sono? Le targhe delle calli. E poi, mi faceva toccare». Lo scandisce quasi per sillabe. «Toccare le cose per farmele capire».
Una comprensione costruita con le dita, i polpastrelli a scorrere per tutta la vita contro tutte le cose: «Mio zio, leggendo tantissimo, sapeva dov’erano le cose belle da vedere. Anche all’interno dei palazzi. Suonava proprio il campanello alle persone e chiedeva posso far entrare mia nipote che non ci vede? Le fa toccare il pozzo? Le fa toccare il portale? Mi faceva toccare qualsiasi cosa: altorilievi, balaustre, ponti. Adesso qui giriamo. Attenzione, è una calle un po’ stretta».
Una ragazza che viene dalla direzione opposta alla nostra nota il bastone di Anna e si appiattisce contro il muro per farci passare vicine fino a una lunga fondamenta poco battuta, scaldata dal sole. Ci arriva addosso una corrente fredda e gentile. «Senti che arietta da nord. Così si asciugheranno le lenzuola che ho steso». Mentre Anna racconta, qualcuno dal canale avvia una barca a motore con un rombo al cherosene. La mia guida si tura il naso con delicatezza teatrale: «Questa barca ha il motore leggermente ingolfato! Portarla subito a controllare!».
Catalogati in una mappa ampia e precisa, in assenza della vista suoni e odori costituiscono una fonte di orientamento fondamentale e preziosa, latitudine e longitudine su cui fissare la posizione di palazzi, chiese, abitazioni.
«Quando da bambina giravo da sola, quello che mi faceva capire che dovevo svoltare o che ero arrivata erano gli odori». Per andare a trovare sua nonna, l’odore delle salsicce appese da un salumiere stava a segnalare la prima svolta, la seconda all’altezza del profumo di formaggi freschi di una latteria. «Lì dovevo continuare dritta fino a un negozio di baccalà. E io così mi orientavo».
Nei suoi ricordi, al profumo del pane portato alle rivendite in barca nel primo mattino si accompagna quello della polenta arrostita attraverso le calli all’alba, insieme all’odore intenso di frutta e verdura. «Adesso, quando scendi dal ponte di Rialto, trovi solo negozi di quelle che chiamano specialità veneziane, ma in effetti è paccottiglia da due soldi. Quando ero piccola, c’erano banchi di frutta e verdura a destra e salumi e formaggi a sinistra. E i venditori parlavano continuamente della loro merce. Vara che bei! Vara che boni! I carciofi di Sant’Erasmo, le castraure! E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare. Oggi, i suoni hanno avuto una trasformazione incredibile. Quello che rimane di molto bello sono le campane. La prima che senti al mattino è la Marangona, quella di San Marco. Don! Don!». Anna cerca di imitarne il suono, la nota è così bassa che la voce le esce a fatica. «Però c’è anche molto più silenzio. L’ho fatto notare anche ad altri veneziani e mi hanno dato ragione. Tutti più educati, sicuramente. Ma c’è anche una perdita di identità in questo».
Arriviamo in un campo largo, dove troneggia una chiesa il cui campanile diffonde un’eco orientale. «La Chiesa della Madonna dell’Orto. Qui dentro c’era la famosa Madonna del Bellini, che se la son rubata». La compostezza di Anna si rompe in un moto di indignazione: «Non è più stata trovata. Era una meravigliosa madonna, più o meno di questa dimensione – allarga di poco le braccia – perché l’ho toccata, senza nessun allarme. E se la sono portata via. Inevitabile. Sai che dietro la chiesa cresceva una pianta di fichi?».
Anna inizia a snocciolare una serie di informazioni botaniche, lanciandosi in una dissertazione sulla riscoperta del melograno e sulla morte di molte magnolie nei giardini privati veneziani. Ci tiene a segnalare che la più antica di Venezia è quella piantata nel suo giardino, la sua voce corre insieme al rumore leggero tracciato dal suo bastone sul selciato. Passeggiando, sembra dimenticarsi di una stretta rientranza della fondamenta necessaria per la salita in barca, dove alcuni gradini conducono direttamente dentro l’acqua. Quando se ne rende conto, si scosta e riprende a camminare con la sicurezza di poco prima. La competenza con cui si muove renderebbe plausibile immaginarla girare da sola in città.
«Solo alla mattina molto presto. Una volta potevi girare a tutte le ore e non ti succedeva niente, ora non è più la Venezia di una volta. Ed è anche diventata una città piuttosto invivibile, dove il turismo ha dilagato in maniera esponenziale. Il che non fa bene alla città, ma neanche al turista. Perché diamo un servizio non sincero, non veritiero. E questo è molto brutto».
La voce di Anna si appiattisce all’improvviso. «Siamo arrivate ai portici dell’Abbazia. Lo capisco da com’è cambiato il suono della mia voce». Un porticato di colonne in mattone è l’anticamera al campo davanti a una chiesa gotica: «Per terra puoi vedere uno dei pochi pavimenti rimasti in cotto veneziano, disposto a spina di pesce. E c’è anche un pozzo con dei meravigliosi altorilievi, li ho toccati tutti. Senti, ti volevo chiedere: sei mai stata sulla terrazza del Fontego dei Tedeschi? Proviamo a vedere se ci fanno entrare!».
L’altana sopra al discusso centro commerciale di lusso aperto in città da poco più di un anno diventa la nuova meta della passeggiata, scandita dalle descrizioni entusiaste rivolte a ciò che ci circonda: un ponte privo di spallette – unico esemplare rimasto in città a testimoniare la natura originaria dei ponti veneziani – precede il vociare crescente lungo Fondamenta San Felice, a cui Anna sembra non prestare attenzione, salvo poi commentare con aria divertita la qualità dei discorsi che ha ascoltato.
Di voci nella sua vita ne ha sentite moltissime, avendo conseguito il diploma di centralinista al Collegio dei Ciechi di Padova, per poi iniziare a lavorare ancora diciassettenne a Reggio Emilia. Mi spiega che a Venezia è tornata anche per dare al figlio Fulvio la possibilità di crescere in una città diversa da tutte le altre: «Amo la pietra, il sole, il vento. L’acqua. Venezia è la mia città. Alcuni a volte mi dicono che ce l’ho tutta in testa, che sono meglio di Google Maps. Il fatto è che la amo profondamente».
Il percorso sbuca in Strada Nova, una delle principali arterie della città, attraversata dal brulichio turistico del primo pomeriggio. Il flusso di persone intorno a noi è aumentato di molto, ci sciama intorno con scarso riguardo. Dopo quasi trent’anni di sapiente convivenza con la cecità, è in parte difficile misurare dall’esterno quanto Anna senta la mancanza della vista. La risposta arriva senza esitazione: «Da molto tempo non mi manca più. A volte, però, mi capita di dover chiedere chiarimenti. Per esempio, qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe».
La folla crescente ricorda il preludio ai festeggiamenti di carnevale, uno dei momenti dell’anno in cui la città si fa più invivibile. «Da quando è diventata una questione poco veneziana e tanto di business, Venezia è diventata impraticabile. Chiaramente, conservo anche dei ricordi belli. Quando lavoravo in banca, un anno chiedemmo al direttore se potevamo andare a lavoro in maschera, e lui accettò. Indossavo un bellissimo abito da dama stile Settecento con tanto di parrucca, prestato da un’amica di mia mamma. Avevo letto la storia di una cieca veneziana che si era fatta fuori al gioco i soldi del Conte Sagredo: siccome mi piace scherzare, mi portai anch’io un bussolotto con due grossi dadi per giocare a tutto o niente, un vecchio gioco veneziano. Quando qualche cliente si complimentava per il costume lo sfidavo, proponendogli una partita a dadi contro di me».
L’arrivo al Fondaco ha il colore di un imponente palazzo bianco a pochi passi dal Ponte di Rialto: a testimoniare la sua vita precedente, la grande scritta Poste e Telecomunicazioni in metallo intatta sulla facciata. Poco dopo l’ingresso, un’ampia corte circondata sui quattro lati da tre piani a vista, illuminati da un sistema di faretti che gettano fasci di luce aggressiva. «Potrei essere al Cortes Inglés o in qualsiasi altro centro commerciale. Lo senti in particolare dalla musica, che è la stessa dappertutto».
Le indicazioni molto precise fornite per raggiungere la terrazza all’ultimo piano sfumano man mano che Anna inizia a cogliere i cambiamenti fisici occorsi intorno a lei. Dopo un attimo di confusione si fa interdetta e poi seccata, fino a chiudersi in uno sdegnato mutismo, che rompe solo qualche istante dopo aver trovato l’ascensore. Sbuchiamo in una sala con una corta scala di legno.
Si è fatto un po’ nuvoloso, ma l’aria è tersa e la vista che domina l’intera città si estende nitida sino alle cime pulite delle montagne, srotolando un tappeto di rettangoli rossi e bianchi che sembrano coriandoli. Anna ritrova lo slancio.
«Vieni, ti faccio vedere la tavola in braille». Oltre il parapetto, una lastra di metallo riporta il profilo di tutto ciò che abbiamo davanti. Anna ci appoggia sopra una mano e inizia a parlare più velocemente, le dita in un moto minuto e continuo. L’increspatura dei rilievi le suggerisce in che direzione rivolgere il viso.
«Ecco, vedi, vedi? Qui ci sono i disegni. Poi ci sono le scritte, che ti dicono tutto quello che hai davanti. Sono talmente piccole che ci vorrebbe la lente di ingrandimento nelle dita, però per me è bellissimo qui. È il braille americano, scritto a lettere in rilievo. Hanno fatto una cosa simile a Castel Sant’Elmo a Napoli. Puoi toccare il Golfo di Napoli, hai davanti tutte le varie isole, Capri, Ischia. È molto bello qui sopra. Ti dà questa sensazione di aperto, di spazio. Vedi? Qui hai un campanile».
Insiste sul disegno con l’indice con gesto lieve e metodico. Il medio sembra sondare piano le distanze da un palazzo vicino.
Quando giro l’angolo della calle, Anna sta uscendo dal portone di casa sua, i corti ricci color rame illuminati da un sole che sembra di fine inverno, sugli occhi un paio di occhiali scuri, quasi rotondi. Ci si riflette dentro il canale su cui si affaccia il palazzo da cui è appena apparsa.
L’appuntamento è nel sestiere di Cannaregio, in prossimità del Ghetto. Anna ha un saluto squillante. Mentre si avvicina, spiega che non riusciva a trovare – non è la prima volta – il bastone da passeggio che usa abitualmente, quindi oggi andremo in giro con quello che sta impugnando. Lo dice un po’ scocciata mentre lo oscilla piano sui masegni davanti a sé, calibrando i passi con una pazienza regale. Infila la mano nell’incavo del mio braccio. «Allora – l’intonazione della frase fa un’impennata giocosa – cosa vuoi sapere di me?».
Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sull’acqua. A coinvolgerla in questa veste, un evento collaterale del Padiglione Catalano all’ultima Biennale: «L’artista Antoni Abad ha convocato l’Unione Ciechi per realizzare BlindWiki, una mappatura sonora della città che non si vede. Ma, soprattutto, della città che non si vede più», sottolinea la parola, «la Venezia sparita. Qui facciamo il ponte».
Nelle parole di Anna, le indicazioni giungono come un intercalare discreto, sempre puntuale rispetto a dove ci troviamo. L’oscillazione continua del bastone le suggerisce la fine della gradinata, prepara con cautela il piede alla discesa.
Anna è veneziana, ha 65 anni ed è cieca. Da alcuni mesi, opera come guida al patrimonio a cielo aperto della città sullacqua.
«Alla fine, mi sono trovata a essere l’unica veneziana cieca nata e cresciuta in città. Questo ha destato molta curiosità, perché le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano. Per esempio, una cosa che mi piace molto è la pietra d’Istria. Questa pietra bianca, bellissima. Si trova un po’ dappertutto, nei pozzi, lungo gli angoli dei palazzi, sui davanzali delle finestre». Rivolge il dito sottile verso ciò di cui sta parlando, che sembra apparire sornione alla sua menzione. «Faccio soprattutto riflettere su tante cose che la gente non vede».
Anna è nata con una grave forma di ipovisione – due retine di colori sbiaditissimi, i profili delle cose sfumati in una nebbia fittissima. Ma la sua Venezia ha forme e dimensioni precise, tradite occasionalmente solo dall’urto imprevisto contro i tavolini di qualche plateatico nato da troppo poco e in modo troppo poco normato per esserle noto. Mentre racconta la sua infanzia, la sua voce insiste leggermente su alcune vocali, con incedere fiabesco. «Sono nata all’arsenale militare. Proprio dentro, perché mio papà era in Marina. Io da bambina ero ipovedente grave, vedevo pochissimo. Il fatto di conoscere bene Venezia è dovuto alla pazienza, alla costanza di un fratello di mia madre». Tira lievemente verso una calle un po’ nascosta.
«Per darmi più autonomia, mio zio faceva una cosa molto particolare: oltre a leggermi tantissimi libri storici, come i diari del Molmenti, mi portava in giro per la città. Camminare, camminare, camminare. Continuamente. Mi leggeva i nomi dei nizioleti, sai cosa sono? Le targhe delle calli. E poi, mi faceva toccare». Lo scandisce quasi per sillabe. «Toccare le cose per farmele capire».
Una comprensione costruita con le dita, i polpastrelli a scorrere per tutta la vita contro tutte le cose: «Mio zio, leggendo tantissimo, sapeva dov’erano le cose belle da vedere. Anche all’interno dei palazzi. Suonava proprio il campanello alle persone e chiedeva posso far entrare mia nipote che non ci vede? Le fa toccare il pozzo? Le fa toccare il portale? Mi faceva toccare qualsiasi cosa: altorilievi, balaustre, ponti. Adesso qui giriamo. Attenzione, è una calle un po’ stretta».
«Le persone vedenti spesso non considerano l’aspetto artigianale di Venezia, di questa città completamente fatta a mano».
Una ragazza che viene dalla direzione opposta alla nostra nota il bastone di Anna e si appiattisce contro il muro per farci passare vicine fino a una lunga fondamenta poco battuta, scaldata dal sole. Ci arriva addosso una corrente fredda e gentile. «Senti che arietta da nord. Così si asciugheranno le lenzuola che ho steso». Mentre Anna racconta, qualcuno dal canale avvia una barca a motore con un rombo al cherosene. La mia guida si tura il naso con delicatezza teatrale: «Questa barca ha il motore leggermente ingolfato! Portarla subito a controllare!».
Catalogati in una mappa ampia e precisa, in assenza della vista suoni e odori costituiscono una fonte di orientamento fondamentale e preziosa, latitudine e longitudine su cui fissare la posizione di palazzi, chiese, abitazioni.
«Quando da bambina giravo da sola, quello che mi faceva capire che dovevo svoltare o che ero arrivata erano gli odori». Per andare a trovare sua nonna, l’odore delle salsicce appese da un salumiere stava a segnalare la prima svolta, la seconda all’altezza del profumo di formaggi freschi di una latteria. «Lì dovevo continuare dritta fino a un negozio di baccalà. E io così mi orientavo».
Nei suoi ricordi, al profumo del pane portato alle rivendite in barca nel primo mattino si accompagna quello della polenta arrostita attraverso le calli all’alba, insieme all’odore intenso di frutta e verdura. «Adesso, quando scendi dal ponte di Rialto, trovi solo negozi di quelle che chiamano specialità veneziane, ma in effetti è paccottiglia da due soldi. Quando ero piccola, c’erano banchi di frutta e verdura a destra e salumi e formaggi a sinistra. E i venditori parlavano continuamente della loro merce. Vara che bei! Vara che boni! I carciofi di Sant’Erasmo, le castraure! E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare. Oggi, i suoni hanno avuto una trasformazione incredibile. Quello che rimane di molto bello sono le campane. La prima che senti al mattino è la Marangona, quella di San Marco. Don! Don!». Anna cerca di imitarne il suono, la nota è così bassa che la voce le esce a fatica. «Però c’è anche molto più silenzio. L’ho fatto notare anche ad altri veneziani e mi hanno dato ragione. Tutti più educati, sicuramente. Ma c’è anche una perdita di identità in questo».
«E le donne veneziane, soprattutto nei sestieri più popolari, quando facevano i lavori di casa tenevano sempre le finestre aperte e le sentivi cantare»
Arriviamo in un campo largo, dove troneggia una chiesa il cui campanile diffonde un’eco orientale. «La Chiesa della Madonna dell’Orto. Qui dentro c’era la famosa Madonna del Bellini, che se la son rubata». La compostezza di Anna si rompe in un moto di indignazione: «Non è più stata trovata. Era una meravigliosa madonna, più o meno di questa dimensione – allarga di poco le braccia – perché l’ho toccata, senza nessun allarme. E se la sono portata via. Inevitabile. Sai che dietro la chiesa cresceva una pianta di fichi?».
Anna inizia a snocciolare una serie di informazioni botaniche, lanciandosi in una dissertazione sulla riscoperta del melograno e sulla morte di molte magnolie nei giardini privati veneziani. Ci tiene a segnalare che la più antica di Venezia è quella piantata nel suo giardino, la sua voce corre insieme al rumore leggero tracciato dal suo bastone sul selciato. Passeggiando, sembra dimenticarsi di una stretta rientranza della fondamenta necessaria per la salita in barca, dove alcuni gradini conducono direttamente dentro l’acqua. Quando se ne rende conto, si scosta e riprende a camminare con la sicurezza di poco prima. La competenza con cui si muove renderebbe plausibile immaginarla girare da sola in città.
«Solo alla mattina molto presto. Una volta potevi girare a tutte le ore e non ti succedeva niente, ora non è più la Venezia di una volta. Ed è anche diventata una città piuttosto invivibile, dove il turismo ha dilagato in maniera esponenziale. Il che non fa bene alla città, ma neanche al turista. Perché diamo un servizio non sincero, non veritiero. E questo è molto brutto».
La voce di Anna si appiattisce all’improvviso. «Siamo arrivate ai portici dell’Abbazia. Lo capisco da com’è cambiato il suono della mia voce». Un porticato di colonne in mattone è l’anticamera al campo davanti a una chiesa gotica: «Per terra puoi vedere uno dei pochi pavimenti rimasti in cotto veneziano, disposto a spina di pesce. E c’è anche un pozzo con dei meravigliosi altorilievi, li ho toccati tutti. Senti, ti volevo chiedere: sei mai stata sulla terrazza del Fontego dei Tedeschi? Proviamo a vedere se ci fanno entrare!».
L’altana sopra al discusso centro commerciale di lusso aperto in città da poco più di un anno diventa la nuova meta della passeggiata, scandita dalle descrizioni entusiaste rivolte a ciò che ci circonda: un ponte privo di spallette – unico esemplare rimasto in città a testimoniare la natura originaria dei ponti veneziani – precede il vociare crescente lungo Fondamenta San Felice, a cui Anna sembra non prestare attenzione, salvo poi commentare con aria divertita la qualità dei discorsi che ha ascoltato.
Di voci nella sua vita ne ha sentite moltissime, avendo conseguito il diploma di centralinista al Collegio dei Ciechi di Padova, per poi iniziare a lavorare ancora diciassettenne a Reggio Emilia. Mi spiega che a Venezia è tornata anche per dare al figlio Fulvio la possibilità di crescere in una città diversa da tutte le altre: «Amo la pietra, il sole, il vento. L’acqua. Venezia è la mia città. Alcuni a volte mi dicono che ce l’ho tutta in testa, che sono meglio di Google Maps. Il fatto è che la amo profondamente».
Il percorso sbuca in Strada Nova, una delle principali arterie della città, attraversata dal brulichio turistico del primo pomeriggio. Il flusso di persone intorno a noi è aumentato di molto, ci sciama intorno con scarso riguardo. Dopo quasi trent’anni di sapiente convivenza con la cecità, è in parte difficile misurare dall’esterno quanto Anna senta la mancanza della vista. La risposta arriva senza esitazione: «Da molto tempo non mi manca più. A volte, però, mi capita di dover chiedere chiarimenti. Per esempio, qui c’è un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui c’era un negozio di scarpe».
La folla crescente ricorda il preludio ai festeggiamenti di carnevale, uno dei momenti dell’anno in cui la città si fa più invivibile. «Da quando è diventata una questione poco veneziana e tanto di business, Venezia è diventata impraticabile. Chiaramente, conservo anche dei ricordi belli. Quando lavoravo in banca, un anno chiedemmo al direttore se potevamo andare a lavoro in maschera, e lui accettò. Indossavo un bellissimo abito da dama stile Settecento con tanto di parrucca, prestato da un’amica di mia mamma. Avevo letto la storia di una cieca veneziana che si era fatta fuori al gioco i soldi del Conte Sagredo: siccome mi piace scherzare, mi portai anch’io un bussolotto con due grossi dadi per giocare a tutto o niente, un vecchio gioco veneziano. Quando qualche cliente si complimentava per il costume lo sfidavo, proponendogli una partita a dadi contro di me».
«Qui cè un odore intenso di patatine fritte, e kebab anche. Ma io so che qui cera un negozio di scarpe»
L’arrivo al Fondaco ha il colore di un imponente palazzo bianco a pochi passi dal Ponte di Rialto: a testimoniare la sua vita precedente, la grande scritta Poste e Telecomunicazioni in metallo intatta sulla facciata. Poco dopo l’ingresso, un’ampia corte circondata sui quattro lati da tre piani a vista, illuminati da un sistema di faretti che gettano fasci di luce aggressiva. «Potrei essere al Cortes Inglés o in qualsiasi altro centro commerciale. Lo senti in particolare dalla musica, che è la stessa dappertutto».
Le indicazioni molto precise fornite per raggiungere la terrazza all’ultimo piano sfumano man mano che Anna inizia a cogliere i cambiamenti fisici occorsi intorno a lei. Dopo un attimo di confusione si fa interdetta e poi seccata, fino a chiudersi in uno sdegnato mutismo, che rompe solo qualche istante dopo aver trovato l’ascensore. Sbuchiamo in una sala con una corta scala di legno.
Si è fatto un po’ nuvoloso, ma l’aria è tersa e la vista che domina l’intera città si estende nitida sino alle cime pulite delle montagne, srotolando un tappeto di rettangoli rossi e bianchi che sembrano coriandoli. Anna ritrova lo slancio.
«Vieni, ti faccio vedere la tavola in braille». Oltre il parapetto, una lastra di metallo riporta il profilo di tutto ciò che abbiamo davanti. Anna ci appoggia sopra una mano e inizia a parlare più velocemente, le dita in un moto minuto e continuo. L’increspatura dei rilievi le suggerisce in che direzione rivolgere il viso.
«Ecco, vedi, vedi? Qui ci sono i disegni. Poi ci sono le scritte, che ti dicono tutto quello che hai davanti. Sono talmente piccole che ci vorrebbe la lente di ingrandimento nelle dita, però per me è bellissimo qui. È il braille americano, scritto a lettere in rilievo. Hanno fatto una cosa simile a Castel Sant’Elmo a Napoli. Puoi toccare il Golfo di Napoli, hai davanti tutte le varie isole, Capri, Ischia. È molto bello qui sopra. Ti dà questa sensazione di aperto, di spazio. Vedi? Qui hai un campanile».
Insiste sul disegno con l’indice con gesto lieve e metodico. Il medio sembra sondare piano le distanze da un palazzo vicino.