Uno
«Per prima cosa ti chiudono in questa cameretta tutta dipinta di nero. C’è una luce fioca, sufficiente a vedere solo qualche elemento disposto all’interno: un pezzo di zolfo, un gallo, una clessidra, un teschio. Il gallo è di porcellana. C’è una scritta: “V.I.T.R.I.O.L.”. Il tono è misterioso, ma basta riprodurla su Google: “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, Scavando in profondità e setacciando la terra troverai la pietra nascosta. Un’altra scritta appena sotto: “Se sei venuto qui per curiosità, vattene”».
È la mattina del giorno dopo il sabato. Appartamento su due piani, sito in Milano 3, Residenza dei Salici. Io reggo tra le mani un softbox, quella specie di ombrello collegato al flash che usano i fotografi per illuminare il soggetto senza rendere la luce troppo accecante e artificiale. Lo punto su di lui: si chiama Giuseppe Ivan Lantos, nato a Tangeri il 18 novembre 1942. È completamente nudo, fatta eccezione per una bombetta nera che gli copre e contiene pene e testicoli, il resto è un corpo di un settantaseienne esposto alla luce morbida che io gli indirizzo contro, per agevolare il lavoro al fotografo che è venuto con me qui. Ogni tanto si sente il click dello scatto e parte il flash. Giuseppe Ivan Lantos pare a suo agio, anche con il culo fuori, mi sta raccontando con grande abbondanza di particolari com’è avvenuta la cerimonia di iniziazione nella loggia massonica di cui fa parte da 35 anni.
«Lo stanzino nero si chiama, tecnicamente, gabinetto di riflessione. Quando entri, ti danno un foglio con tre domande. 1. “Chi sei?” 2. “Cosa è per te la patria?” 3. “Cosa è per te l’umanità?”. Le risposte costituiranno il tuo testamento massonico».
Gli chiedo quanto tempo ti danno per rispondere a quelle tre domande.
«Un quarto d’ora. Dopo di che arriva un tizio incappucciato, vestito di nero. Tu aspirante vieni bendato, e quello ti mette un cappio al collo e ti trascina come un animale all’interno del Tempio. Entri. Senti delle voci. Che si alzano di tono e si trasformano in un frastuono assordante. Poi si attenuano. Infine il silenzio. Che viene rotto da una domanda, pronunciata con tono poderoso: Perché nome-e-cognome vuole entrare a far parte della nostra loggia eccetera-eccetera-eccetera?»
La loggia di cui è membro Giuseppe Ivan è la Gran Loggia d’Italia degli ALAM, distaccatasi dal Grande Oriente d’Italia nel 1908. Sede centrale a Roma in via San Nicola de’ Cesarini, 3; sede milanese – quella che frequenta Giuseppe Ivan – in via del Progresso, 3. Alcuni personaggi celebri ad essa affiliati nel corso dei decenni: Curzio Malaparte, Hugo Pratt, Gabriele D’Annunzio, Antonio de’ Curtis meglio noto come Totò.
«A quella domanda risponde il tuo accompagnatore. E la risposta è fissa: Perché è un uomo libero e di buoni costumi».
Potrebbe mettersi una mano davanti agli occhi? Chiede il fotografo. Io resto immobile attento a non deviare il fascio di luce dal corpo di Giuseppe Ivan, che continua a raccontare, guardandosi il palmo della mano.
«Sempre lo stesso tizio, che poi è il Maestro Venerabile, pone un’altra domanda al tuo accompagnatore. E cosa chiede a noi nome-e-cognome? Altra risposta fissa: La mezza luce. A quel punto vieni sbendato. Il Tempio è semibuio. Sono tutti incappucciati. Segue una trafila di altre domande, fino all’ultima. Arrivati alla fine di questo percorso, cosa chiede a noi nome-e-cognome? E l’accompagnatore: Chiediamo per lui la piena luce. Tutti si tolgono il cappuccio, l’accompagnatore ti toglie il cappio dal collo, si accendono le luci, parte una musica trionfale. Sei diventato “apprendista”. A quel punto puoi partecipare alle riunioni di loggia, ma standotene zitto per un anno. Quando vieni elevato al grado di “compagno” puoi iniziare a parlare durante le sedute. I gradi nella mia loggia li ho ricoperti tutti, fino al 33esimo, l’ultimo».
Io sono a posto, grazie. È il fotografo. Io depongo il softbox. Giuseppe Ivan mi sfila a lato, diretto verso la sua camera da letto, ben attento alla bombetta, ma disinvolto, a suo agio. Va a rivestirsi.
Due
Lunedì.
La strada che dal mio appartamento, nella periferia nord della città, porta al tempio milanese della Gran Loggia d’Italia degli ALAM costeggia il naviglio della Martesana. Cammino con le cuffie nelle orecchie, ho il file con le registrazioni che ho fatto ieri a casa di Giuseppe Ivan nella memoria dello smartphone. Play.
«Per iniziare la narrazione della mia famiglia devo partire da quando attraversammo il mar Rosso. C’è questo Mosè, un ragazzo di ottime speranze allevato alla corte del Faraone, che a un certo punto si trova costretto a fuggire: probabilmente si sarà trombato qualche sorella del sovrano; ma questo è gossip, non è nelle Scritture. Fa le valigie, raduna il suo popolo, attraversa il mare, si ferma ai piedi del monte Sinai, allestisce una sorta di camping. Ha l’urgente necessità di organizzare religiosamente e socialmente questa banda di disperati: ecco le Tavole della Legge. Poco dopo prende una tribù più o meno a caso e dice loro: Voi sarete la casta dei sacerdoti, e vi chiamerete Cohen! Fino a quel tempo gli ebrei avevano solo nome e patronimico, nessun cognome. Poi prende un’altra tribù e dice loro: Voi sarete gli assistenti, gli addetti alle pulizie! Vi chiamerete Levi. La storia della famiglia Lantos inizia lì: noi, in realtà, siamo Levi. Il cambio di cognome è avvenuto nel Settecento, sotto gli Asburgo, per ordine dell’Imperatore; poi ti racconto.
Salto qualche manciata di secoli e arrivo alla diaspora: noi ebrei perdiamo la Terra Promessa e ci disperdiamo nei quattro angoli d’Europa. Nel Cinquecento ci chiudono nei ghetti. Intanto ci facciamo la fama di essere intelligenti. Niente di genetico, semplicemente avevamo uno strumento di aumento dell’intelligenza: la lettura. Qualsiasi ebreo, di qualsiasi condizione sociale, deve imparare a leggere e scrivere in ebraico, perché la prima cosa che dovrà fare alla sua presentazione in sinagoga sarà leggere un passo delle Scritture. Questo, nel corso delle generazioni, ha contribuito a una certa apertura mentale; che porta sempre con sé qualche vantaggio nell’ambito del commercio e della cultura».
Il naviglio scorre lento e torbido alla mia destra. Cammino e ogni tanto incrocio lo sguardo concentrato di qualche runner che corre nella direzione opposta alla mia.
«Il cambio di cognome della nostra famiglia è imputabile a Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, imperatore del Sacro Romano Impero – di cui i miei avi erano sudditi – dal 1765 al 1790. Era un buon uomo, anche se un po’ sprovveduto. Pensò: Gli ebrei sono identificabili come tali dai loro cognomi e questo non va bene; anche per il loro bene, devono asburgicizzarsi. Se non hanno cognome, che se ne prendano uno. Per cui inviò per tutte le province dell’Impero dei funzionari dell’anagrafe, che vendevano i cognomi. C’era una sorta di listino prezzi, fondato sulla gerarchia delle pietre preziose: si andava da Diamant, diamante, il cognome più costoso, fino a Liverstein, il calcolo renale, quello più economico; e in mezzo c’erano i vari rubini, oro, argento, ferro, Rubinstein, Goldstein, Silverstein, Eisenstein. Non so per quale ragione i miei avi hanno scelto Lantos, che in ungherese significa sia “suonatore di liuti” che “costruttore di liuti”… Forse volevano risparmiare ulteriormente».
Stop.
Tre
«Da piccolo avevo un’idea ben chiara in testa: non avrei fatto il dentista come mio padre. Mi piaceva molto la chirurgia, però. Passavo ore a tagliare, disinfettare, mettere i punti a una bambola di pezza di mia sorella. Poi al liceo mi appassionai di letteratura e filosofia: così scelsi la facoltà di Lettere, all’università di Genova, la città dove abitavamo».
Giuseppe Ivan Lantos si è rivestito e ora indossa un abito comodo da casa. Sta caricando pizzico per pizzico il tabacco nella pipa. Mi chiede se sto apprezzando la sonata per pianoforte in sottofondo, composta da Felix Mendelssohn, imparentato con i Lantos attraverso il ramo della famiglia di sua madre.
«1967: ho terminato gli esami e mi manca solo la tesi. Vengo a sapere che Ugo Mursia sta cercando dei redattori per la sua casa editrice, a Milano. A novembre parto per sostenere il colloquio con lui, mi chiede la storia del mio strano cognome, mi assume, e io mi trasferisco. Contemporaneamente mi iscrivo al Partito Socialista e inizio a lavorare come ufficio stampa per il senatore Francesco Fossa. Il giorno dopo la strage di piazza Fontana sono a casa con la febbre, mi chiama il figlio del senatore: Papà è stato nominato sottosegretario del governo, vuole che tu vada a lavorare con lui a Roma. Un attimo, calma, ho la febbre, devo riflettere. Sta arrivando un motociclista della prefettura al tuo indirizzo, ti consegnerà un biglietto del treno: è per domani, vagone letto. Dopodomani devi essere a Roma».
Giuseppe Ivan Lantos è in partenza. Sua moglie Giusi è morta da pochi mesi, dopo quarantanove anni di matrimonio. Forse andrà a ritirarsi alle Canarie, un amico gli ha indicato una buona casa con vista sull’oceano. Forse opterà per Londra, dove abita sua figlia e dove suo figlio – che è arbitro internazionale nei tornei di golf – lavora per metà della settimana (l’altra metà a Firenze). È ancora indeciso, mi dice.
Nel frattempo il piano inferiore della sua abitazione ha l’aspetto di un’enorme valigia gonfia e disordinata; si raggiunge con una scala a chiocciola. Su una sedia imbottita c’è una foto di un sorridente Bettino Craxi, che giace sdraiato, arreso, su un lato. Sepolta da qualche parte tra souvenir di viaggio e pile di libri ammonticchiati uno sull’altro c’è una valigia che Giuseppe Ivan ha ereditato dallo zio paterno, zeppa di fotografie di famiglia, pranzi di Natale e di Shavuot, l’ultima festa di compleanno di una zia di seconda grado che poi venne deportata ad Auschwitz – cinquantaquattro sono i membri della famiglia allargata Lantos che sono morti nei campi di concentramento nazisti – documenti di matrimonio, passaporti, diari, lettere censurate dei tempi delle due guerre, una foto del lago Balaton che il padre dello zio di Giuseppe Ivan è riuscito a stampare, con un qualche ingegnoso primo-novecentesco metodo, su una conchiglia raccolta sulle rive dello stesso lago Balaton.
Arriverà un’azienda di traslochi, impacchetterà tutto – sedie, scrivania, mobili, ritratto di Craxi, valigetta con ricordi, souvenir, libri, tutto – spedirà alle Canarie o a Londra, quando la scelta sarà stata fatta. Avrei voluto guardare dentro quella valigetta. Ma sono anni che è chiusa; e Giuseppe Ivan la riaprirà fra qualche giorno – mi ha detto – prendendosi il suo tempo, forse riordinandone il contenuto. Non ho insistito.
«Due giorni dopo la chiamata del figlio del senatore – era il dicembre del 1970 – ho preso il treno per Roma da solo. Io e Giusi eravamo sposati da un anno e mezzo. Il lavoro era precario, se il governo cade te ne torni a casa, e i governi cadevano spesso. Ma lo stipendio era ottimo. Incentivi ogni sei mesi. Avevo l’autista. Tessere di vari spacci della città. Dopo quindici giorni mi ha raggiunto mia moglie: sono andato alla stazione a prenderla, e abbiamo concepito Isabella quel mattino, la seconda figlia, nell’albergo dove stavo. Al governo c’era Mariano Rumor. Cadde, e al suo posto venne eletto Emilio Colombo: Fossa restò sottosegretario, io continuavo ad avere un lavoro. Cadde anche Colombo. E nel 1972 fu il turno di Andreotti. Con Andreotti non si va, decisero i vertici del PSI. Tutti a casa, Fossa compreso, io compreso, mia moglie e i due figli compresi. Facciamo le valigie, torniamo a Milano. Io passo da un lavoro all’altro nell’editoria, mia moglie inizia a intrufolarsi qua e là, nelle produzioni dei programmi televisivi RAI e poi Fininvest. Un giorno sono a Padova, su incarico del settimanale Gente: devo incontrare una tizia che si è schiantata a bordo di un Range Rover – la macchina una poltiglia di lamiere, lei uscita perfettamente illesa – e scriverne la storia. Faccio l’intervista e poi il fotografo mi riaccompagna in stazione; prima, però, si ferma in edicola, mi dice che vuole vedere se c’è la rivista che dirige sua moglie. Che rivista è?, gli chiedo io. Una rivista di cultura ferroviaria. Quando sono tornato a casa da Giusi, quella sera, le ho detto: Ho un’idea, facciamo il giro del mondo in treno. Aiutami a trovare dei finanziamenti».
I finanziamenti li hanno trovati. Hanno messo insieme una piccola troupe. Sono stati sui treni di Svizzera, Lapponia e Finlandia, Bretagna, Canada, Giamaica, Giordania, Bali e in un mucchio di altri posti. Hanno venduto i documentari a Hobby & Work per una buona cifra.
Quattro
Un piccolo salto e il naviglio della Martesana si tuffa sotto l’asfalto di via Melchiorre Gioia, e lì sotto continua a scorrere. Play.
«Seconda metà dell’Ottocento. I miei bisnonni fanno le valigie, e dalla regione dei Sudeti, dove abitavano, si trasferiscono a Budapest. In breve tempo al mio bisnonno materno, orologiaio, affidano la cura di tutti gli orologi municipali. Il mio bisnonno paterno apre il primo salone di automobili dell’intera Ungheria.
Poi c’è un salto della famiglia dalle attività commerciali a quelle intellettuali. Mio nonno Emilio si iscrive all’università, prima si laurea in Matematica, poi in Lettere; diventa insegnante a scuola e sposa una ragazza ebrea con cognome asburgicizzato, Heim, che significa casa. Lei era diplomata in pianoforte, di famiglia ricchissima ma in completa rovina per via di un padre stronzo che si era bruciato tutto al gioco, si era fatto la fama di baro, e si era suicidato al confine tra Yugoslavia e Ungheria per sfuggire al processo. Così mia nonna non divenne concertista come sognava, ma insegnante di pianoforte. Mise al mondo due bambini: Andrea e Paolo Ludovico, mio padre».
A questo punto, nella mia registrazione, attacca l’Inno alla Gioia; è la suoneria del cellulare di Giuseppe Ivan Lantos. Risponde. La chiamata è breve. Poi continua a raccontare, discendendo lungo i rami del suo albero genealogico. Io continuo a camminare, guardo a sinistra, guardo a destra, attraverso la strada e proseguo su via Melchiorre Gioia.
«Scoppia la prima guerra mondiale. Crolla l’Impero austroungarico. Il 1919 e il 1920 sono gli anni del biennio rosso. Poi viene nominato reggente d’Ungheria l’ammiraglio Miklós Horthy che, per prima cosa, promulga delle leggi razziali. Non pesantissime. Ma includono il divieto per gli ebrei di frequentare l’università. Mio padre voleva fare il medico: così prende un treno per l’Italia – in quegli anni Mussolini cercava di attrarre il maggior numero di cervelli dall’Europa centrale – insieme a un amico, un certo Cohn. Insomma, un Levi e un Cohen si ritrovano, con i cognomi un po’ mutati, coscia a coscia nello stesso scompartimento di un treno; scendono e si iscrivono a Medicina a Padova, la prima città universitaria in cui s’imbattono lungo il percorso. Poi mio padre si trasferisce a Genova, poi a Milano, poi a Torino, diventa dentista e medico condotto a Gassino Torinese. Infine torna a vivere a Genova. Guadagna bene, si compra la prima automobile, fa le vacanze sulla riviera ligure. Nell’estate del 1938, il regime fascista promulga le leggi razziali».
Stop.
Cinque
È il turno dell’ultimo set fotografico. Giuseppe Ivan Lantos esce dalla camera in calze filo di Scozia, un completo spezzato (pantaloni antracite, giacca nera), camicia bianca, papillon di seta giallo, fazzoletto bianco con trama floreale nel taschino della giacca, giacca su cui è appuntata una spilla in oro giallo che rappresenta un rametto d’acacia (simbolo massonico poco noto), gilet in tartan, anello con incisione di squadra e compasso (simbolo massonico molto noto), occhiali. Prima di mettersi in posa sfila un bastone da passeggio, che stava sull’attenti dentro una sacca da golf che ha tutta l’aria di essere molto costosa; si appoggia a quello. Io mi rimetto al mio posto, softbox in mano, e luce puntata sul soggetto ora sontuosamente vestito.
«La signora che attualmente riposa in quella cassettina» e col bastone da passeggio indica un’urna cineraria di legno sopra un tavolino, su cui giace una rosa rossa «l’ho conosciuta a Genova. Frequentavamo lo stesso circolo culturale americano. Io ero lì per imparare l’inglese».
Deglutisce, sorride, non si scompone, prende una boccata di pipa, il fumo esce dalla sua bocca e si porta dietro un sentore gentile di vaniglia. Continua dicendomi che il sabato e la domenica il circolo organizzava delle gite in montagna, sulle piste da sci. Che in primavera si andava a vedere la fioritura dei narcisi: era una cosa che andava di moda. Durante una di queste uscite era seduto sul pullman in una delle prime file: stava mollando una ragazza, litigavano e urlavano. Quella seduta sul sedile davanti, si gira, lo guarda e gli dice: Scusate, se dovete litigare, potreste accomodarvi in fondo? Qui vorremmo cantare. Grazie. Che faccia di culo che ha questa, pensa lui. Va bene, senz’altro, si figuri, ha ragione, risponde. Questo è stato il primo contatto di Giuseppe Ivan con Giusi.
Riesce a sbuffare del fumo verso l’obiettivo? Chiede il fotografo. Lui esegue, una due, tre, quattro, cinque sbuffate di fumo denso, che poi si dissipa nel salotto.
«Qualche mese dopo l’episodio del pullman, sto lavorando alla drammaturgia di uno spettacolo teatrale, un racconto poetico sull’amore, dai trogloditi fino ai giorni nostri. Faccio dei piccoli casting: e a uno di questi si presenta una ragazza. La stessa delle prime file del pullman. Naturalmente le ho dato subito la parte. E sono partito con un corteggiamento spietato, un lavoro ai fianchi durato sei mesi. Poi un giorno lei mi dice: Devo parlarti. E ci diamo appuntamento in un caffè di Genova. Non funziona Giuseppe. E credo non funzionerà. Forse è meglio se la finiamo qui.
Incasso il colpo. Poi viene il mio turno: Bene, tu hai parlato. Fai parlare me, ora. Le dico che avrei voluto sposarla. Diventammo marito e moglie il 15 aprile 1968. Due anni dopo».
Potremmo fare uno scatto sulla porta di casa? Poi abbiamo concluso. Sempre il fotografo. Io mi porto dietro il softbox, lo punto, e ricominciano i flash.
La porta è blindata. Sull’altro lato, quello che dà sul pianerottolo, c’è un grosso stemma con squadra e compasso che Giuseppe Ivan si è comprato su Amazon. Poco distante, fissata allo stipite con un chiodo, c’è la mezuzah. Un oggetto rituale che gli ebrei affiggono alle loro porte. Ricorda il segno che, durante l’ultima notte in Egitto, Dio intimò a Mosè di tracciare sugli usci della gente del suo popolo. Quella notte sarebbe giunto l’angelo della morte a prendere con sé tutti i primogeniti della terra d’Egitto. Avrebbe risparmiato solo le case segnate col sangue d’agnello, quelle dei figli d’Israele.
«Mia madre e mio padre, hanno vissuto tutta la loro vita dopo la guerra, in Italia, assediati dal complesso del profugo. Come se qualcuno sarebbe potuto sbucare all’improvviso, bussare alla loro porta, prendersi tutto quello che avevano costruito, e distruggerlo, di nuovo. A me non piace nascondermi. Ti basta dare un’occhiata alla mia porta per capire che qui vive un ebreo e massone».
Giuseppe Ivan Lantos pronuncia queste ultime parole in tono bonario. E senza rabbia o risentimento mi dice che, una settimana fa, qualcuno ha tracciato una stella di David sul cofano della sua auto con delle chiavi. Ha sporto denuncia. Secondo lui è stato il gesto di qualche ragazzotto idiota, niente più, niente di cui avere paura. Così mi ha detto, ci ha riso sopra. È passato ad altro. Io con lui – un po’ titubante – ho cambiato argomento, sono tornato sulla massoneria, gli ho chiesto come avvengono le riunioni, concretamente. «Niente di speciale». Ha risposto. «L’incontro base avviene in un locale apposito, detto Tempio, disegnato, all’incirca, sul modello del tempio di Salomone. Ci sono due ordini di sedie. Una cattedra sopraelevata, a cui si accede tramite tre gradini, su cui siede il Maestro Venerabile. Poi ci sono due aiutanti, i sorveglianti, seduti di fronte. Un segretario che redige il verbale. E un oratore che fa una sintesi finale dei discorsi pronunciati».
E di cosa si parla, ho chiesto: «Dipende. C’è un ordine del giorno deciso dal Maestro Venerabile di volta in volta. Non è un dibattito o una discussione. Si interviene uno alla volta e non si ribatte al discorso precedente. Quando tutto è finito si esce fuori, si va al ristorante – abbiamo una convenzione con una trattoria in zona – e si continua a discutere, molto più liberamente».
E come arrivano le convocazioni alle riunioni? «Un tempo via posta, raccomandata con ricevuta di ritorno. Da qualche anno via mail. Nella convocazione c’è l’ordine del giorno».
E l’età media, più o meno? «Ci sono molti giovani».
E si può assistere? «Se non si è iniziati no; in nessun caso. Ma facciamo molti eventi aperti al pubblico. La massoneria, da dentro, è molto più normale di come appare da fuori».
Grazie. Io qui ho finito. Aiuto il fotografo a smontare il softbox e inserirlo nella sua valigetta. Salutiamo. Ringraziamo. Chiudiamo la porta.
Sei
Svolta a destra su via del Progresso!, mi intima la voce femminile del navigatore.
«1938. A casa di mio padre si presenta un ufficiale della milizia, accompagnato da altri due uomini. Signor Paolo Ludovico Lantos, lei ha 48 ore per lasciare il paese. Può portarsi solo gli effetti personali. L’unica, a quel punto, era tornare in Ungheria. Il viaggio durò un paio di mesi: a mio padre venne un terribile mal di denti, che lui ritenne di curarsi con abbondanti sciacqui di cognac. Arrivò in piazza Oktogon, a Budapest. Gli mancava solo l’ultima tappa del percorso, in tram. Era alticcio, si mise a cantare arie di opere liriche italiane. Il caso volle che di lì, in quel momento, passò una ragazza, che doveva prendere lo stesso tram. La ragazza conosceva già mio padre: le loro famiglie erano amiche. Ma era la prima volta che lo sentiva cantare. Lì in piazza Oktogon nacque il lungo e travagliato amore tra mio padre e mia madre».
Sei arrivato! La tua destinazione si trova sulla sinistra!
«A Budapest mio padre ritrova anche Cohn, l’amico con cui era partito per l’Italia, anche lui costretto ad andarsene. C’era già stata l’annessione nazista dell’Austria. Nel 1939 l’invasione della Cecoslovacchia. In Ungheria l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Il posto non era più sicuro. Bisognava partire. Una sera a cena, Cohn dice a mio padre che ci sono solo due posti sicuri, in quel nuovo mondo, per gli ebrei. Uno è Shanghai. L’altro è Tangeri. Mio padre gli domanda: E tu dove vai? Cohn: A me piacciono i cinesi, vado a Shanghai. Mio padre: E come si arriva a Shanghai? Cohn: Si va in un porto, si prende un battello; un mese e mezzo o due di navigazione e si arriva. Mio padre soffriva di mal di mare anche solo a guardare le barche al cinema. Per Tangeri, invece? Cohn: Passi dall’Austria, se ti fanno passare i tedeschi. Svizzera. Francia. Spagna. E arrivi fino a Lisbona: tutto in treno. Lì puoi prendere un aereo. E andò così. Mio padre salutò mia madre, la sua fidanzata, le disse che lei era libera di decidere quello che voleva fare. Partì. Venne fermato al confine tra Austria e Svizzera: aveva due valigie, in una i libri, nell’altra gli strumenti chirurgici. I tedeschi gli sequestrarono qualcosa ma lo lasciarono passare. A Lisbona – per via di quel fermo – verrà arrestato, in attesa di accertamenti. Una settimana in carcere. Poi lo liberarono. Aereo per Tangeri, dove trovò un posto come assistente chirurgo all’ospedale francese della Charité. Nel febbraio del 1940 lo raggiunse mia madre. Ad aprile si sposarono».
Sono arrivato al Tempio della Gran Loggia d’Italia, sede di Milano. Da fuori è un parallelepipedo alto quattro o cinque metri, con le sbarre alle finestre, completamente anonimo. Potrebbe essere una piccola ditta familiare che produce qualcosa di non troppo ingombrante.
Mi avvicino. C’è un citofono senza alcun nominativo. Una targa che recita “Centro sociologico italiano”, Giuseppe Ivan mi aveva anticipato che quello è il nome legale della parte di struttura che si occupa dell’amministrazione. «Un po’ serve anche come copertura, mica puoi scrivere “Tempio Massonico della Gran Loggia d’Italia degli ALAM. Anche se c’è poco da coprire: i nominativi di tutti gli affiliati sono depositati regolarmente in questura». Un’altra targa avverte che l’area è sottoposta a video-sorveglianza. Ci sono due telecamere puntate sull’ingresso. Tutto qui.
Il muro di fronte è scalcinato, qualcuno con una bomboletta nera ha scritto: “Curva Nord, Padroni di Milano”; gli interisti. A lato hanno ribattuto i milanisti con la bomboletta rossa: “Curva Sud”. E sopra quella scritta qualcuno ha tracciato una stella di David, in nero, e sotto: “Ebrei”. Nel gergo ultras i milanisti sono “ebrei” perché hanno una curva di destra troppo poco estrema, secondo le tifoserie rivali.
«L’eliminazione degli ebrei ungheresi fu una cosa rapida, perché nell’inverno del 1944 a Budapest arrivò Eichmann. I primi morirono nel Danubio gelato. Venivano disposti in fila sugli argini, legati l’uno all’altra con il fil di ferro. I soldati sparavano alla testa dei primi tre, che si trascinavano nel fiume gli altri dieci. Poi furono organizzati i treni. I miei nonni riuscirono a mettersi in salvo in alcune case protette di Budapest gestite da uno svedese. A mia madre e mio padre le notizie da casa arrivavano a singhiozzo, tramite qualche lettera che riusciva ad attraversare l’Europa. Dai racconti fatti molto sottovoce nella mia famiglia, ho scoperto che mia madre rimase incinta, ma decise di abortire. Mio padre, però, pian piano la convinse che un figlio ci voleva. Così il 18 novembre 1942 nacqui io.
Finì la guerra. Nel 1947 nacque mia sorella. Nel 1948 tornammo a Genova. La città era distrutta. Al posto della nostra casa c’era un cumulo di macerie. Siamo ripartiti da lì, e ci siamo ricostruiti una vita».
Stop. Mi tolgo le cuffie. Suono al citofono senza nominativo. Aspetto. Non risponde nessuno.
Sette
Un qualche cosa l’uomo avrà
In tutta la pena sua di sotto il sole?
Un vaevieni di generazioni
E la terra che sta nel tempo
Sole si leva
Sole tramonta
Corre laggiù
Di là riappare
Andato a Sud gira a Nord
Il vento nel suo andare
Dopo giri su giri
Il vento ricomincia il suo girare
Si versano nel mare tutti i fiumi
Senza riempire il mare.
[Qohélet, I, 3-7]
Uno
«Per prima cosa ti chiudono in questa cameretta tutta dipinta di nero. C’è una luce fioca, sufficiente a vedere solo qualche elemento disposto all’interno: un pezzo di zolfo, un gallo, una clessidra, un teschio. Il gallo è di porcellana. C’è una scritta: “V.I.T.R.I.O.L.”. Il tono è misterioso, ma basta riprodurla su Google: “Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem”, Scavando in profondità e setacciando la terra troverai la pietra nascosta. Un’altra scritta appena sotto: “Se sei venuto qui per curiosità, vattene”».
È la mattina del giorno dopo il sabato. Appartamento su due piani, sito in Milano 3, Residenza dei Salici. Io reggo tra le mani un softbox, quella specie di ombrello collegato al flash che usano i fotografi per illuminare il soggetto senza rendere la luce troppo accecante e artificiale. Lo punto su di lui: si chiama Giuseppe Ivan Lantos, nato a Tangeri il 18 novembre 1942. È completamente nudo, fatta eccezione per una bombetta nera che gli copre e contiene pene e testicoli, il resto è un corpo di un settantaseienne esposto alla luce morbida che io gli indirizzo contro, per agevolare il lavoro al fotografo che è venuto con me qui. Ogni tanto si sente il click dello scatto e parte il flash. Giuseppe Ivan Lantos pare a suo agio, anche con il culo fuori, mi sta raccontando con grande abbondanza di particolari com’è avvenuta la cerimonia di iniziazione nella loggia massonica di cui fa parte da 35 anni.
«Lo stanzino nero si chiama, tecnicamente, gabinetto di riflessione. Quando entri, ti danno un foglio con tre domande. 1. “Chi sei?” 2. “Cosa è per te la patria?” 3. “Cosa è per te l’umanità?”. Le risposte costituiranno il tuo testamento massonico».
Gli chiedo quanto tempo ti danno per rispondere a quelle tre domande.
«Un quarto d’ora. Dopo di che arriva un tizio incappucciato, vestito di nero. Tu aspirante vieni bendato, e quello ti mette un cappio al collo e ti trascina come un animale all’interno del Tempio. Entri. Senti delle voci. Che si alzano di tono e si trasformano in un frastuono assordante. Poi si attenuano. Infine il silenzio. Che viene rotto da una domanda, pronunciata con tono poderoso: Perché nome-e-cognome vuole entrare a far parte della nostra loggia eccetera-eccetera-eccetera?»
La loggia di cui è membro Giuseppe Ivan è la Gran Loggia d’Italia degli ALAM, distaccatasi dal Grande Oriente d’Italia nel 1908. Sede centrale a Roma in via San Nicola de’ Cesarini, 3; sede milanese – quella che frequenta Giuseppe Ivan – in via del Progresso, 3. Alcuni personaggi celebri ad essa affiliati nel corso dei decenni: Curzio Malaparte, Hugo Pratt, Gabriele D’Annunzio, Antonio de’ Curtis meglio noto come Totò.
«A quella domanda risponde il tuo accompagnatore. E la risposta è fissa: Perché è un uomo libero e di buoni costumi».
Potrebbe mettersi una mano davanti agli occhi? Chiede il fotografo. Io resto immobile attento a non deviare il fascio di luce dal corpo di Giuseppe Ivan, che continua a raccontare, guardandosi il palmo della mano.
«Sempre lo stesso tizio, che poi è il Maestro Venerabile, pone un’altra domanda al tuo accompagnatore. E cosa chiede a noi nome-e-cognome? Altra risposta fissa: La mezza luce. A quel punto vieni sbendato. Il Tempio è semibuio. Sono tutti incappucciati. Segue una trafila di altre domande, fino all’ultima. Arrivati alla fine di questo percorso, cosa chiede a noi nome-e-cognome? E l’accompagnatore: Chiediamo per lui la piena luce. Tutti si tolgono il cappuccio, l’accompagnatore ti toglie il cappio dal collo, si accendono le luci, parte una musica trionfale. Sei diventato “apprendista”. A quel punto puoi partecipare alle riunioni di loggia, ma standotene zitto per un anno. Quando vieni elevato al grado di “compagno” puoi iniziare a parlare durante le sedute. I gradi nella mia loggia li ho ricoperti tutti, fino al 33esimo, l’ultimo».
Io sono a posto, grazie. È il fotografo. Io depongo il softbox. Giuseppe Ivan mi sfila a lato, diretto verso la sua camera da letto, ben attento alla bombetta, ma disinvolto, a suo agio. Va a rivestirsi.
Due
Lunedì.
La strada che dal mio appartamento, nella periferia nord della città, porta al tempio milanese della Gran Loggia d’Italia degli ALAM costeggia il naviglio della Martesana. Cammino con le cuffie nelle orecchie, ho il file con le registrazioni che ho fatto ieri a casa di Giuseppe Ivan nella memoria dello smartphone. Play.
«Per iniziare la narrazione della mia famiglia devo partire da quando attraversammo il mar Rosso. C’è questo Mosè, un ragazzo di ottime speranze allevato alla corte del Faraone, che a un certo punto si trova costretto a fuggire: probabilmente si sarà trombato qualche sorella del sovrano; ma questo è gossip, non è nelle Scritture. Fa le valigie, raduna il suo popolo, attraversa il mare, si ferma ai piedi del monte Sinai, allestisce una sorta di camping. Ha l’urgente necessità di organizzare religiosamente e socialmente questa banda di disperati: ecco le Tavole della Legge. Poco dopo prende una tribù più o meno a caso e dice loro: Voi sarete la casta dei sacerdoti, e vi chiamerete Cohen! Fino a quel tempo gli ebrei avevano solo nome e patronimico, nessun cognome. Poi prende un’altra tribù e dice loro: Voi sarete gli assistenti, gli addetti alle pulizie! Vi chiamerete Levi. La storia della famiglia Lantos inizia lì: noi, in realtà, siamo Levi. Il cambio di cognome è avvenuto nel Settecento, sotto gli Asburgo, per ordine dell’Imperatore; poi ti racconto.
Salto qualche manciata di secoli e arrivo alla diaspora: noi ebrei perdiamo la Terra Promessa e ci disperdiamo nei quattro angoli d’Europa. Nel Cinquecento ci chiudono nei ghetti. Intanto ci facciamo la fama di essere intelligenti. Niente di genetico, semplicemente avevamo uno strumento di aumento dell’intelligenza: la lettura. Qualsiasi ebreo, di qualsiasi condizione sociale, deve imparare a leggere e scrivere in ebraico, perché la prima cosa che dovrà fare alla sua presentazione in sinagoga sarà leggere un passo delle Scritture. Questo, nel corso delle generazioni, ha contribuito a una certa apertura mentale; che porta sempre con sé qualche vantaggio nell’ambito del commercio e della cultura».
Il naviglio scorre lento e torbido alla mia destra. Cammino e ogni tanto incrocio lo sguardo concentrato di qualche runner che corre nella direzione opposta alla mia.
«Per iniziare la narrazione della mia famiglia devo partire da quando attraversammo il mar Rosso»
«Il cambio di cognome della nostra famiglia è imputabile a Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, imperatore del Sacro Romano Impero – di cui i miei avi erano sudditi – dal 1765 al 1790. Era un buon uomo, anche se un po’ sprovveduto. Pensò: Gli ebrei sono identificabili come tali dai loro cognomi e questo non va bene; anche per il loro bene, devono asburgicizzarsi. Se non hanno cognome, che se ne prendano uno. Per cui inviò per tutte le province dell’Impero dei funzionari dell’anagrafe, che vendevano i cognomi. C’era una sorta di listino prezzi, fondato sulla gerarchia delle pietre preziose: si andava da Diamant, diamante, il cognome più costoso, fino a Liverstein, il calcolo renale, quello più economico; e in mezzo c’erano i vari rubini, oro, argento, ferro, Rubinstein, Goldstein, Silverstein, Eisenstein. Non so per quale ragione i miei avi hanno scelto Lantos, che in ungherese significa sia “suonatore di liuti” che “costruttore di liuti”… Forse volevano risparmiare ulteriormente».
Stop.
Tre
«Da piccolo avevo un’idea ben chiara in testa: non avrei fatto il dentista come mio padre. Mi piaceva molto la chirurgia, però. Passavo ore a tagliare, disinfettare, mettere i punti a una bambola di pezza di mia sorella. Poi al liceo mi appassionai di letteratura e filosofia: così scelsi la facoltà di Lettere, all’università di Genova, la città dove abitavamo».
Giuseppe Ivan Lantos si è rivestito e ora indossa un abito comodo da casa. Sta caricando pizzico per pizzico il tabacco nella pipa. Mi chiede se sto apprezzando la sonata per pianoforte in sottofondo, composta da Felix Mendelssohn, imparentato con i Lantos attraverso il ramo della famiglia di sua madre.
«1967: ho terminato gli esami e mi manca solo la tesi. Vengo a sapere che Ugo Mursia sta cercando dei redattori per la sua casa editrice, a Milano. A novembre parto per sostenere il colloquio con lui, mi chiede la storia del mio strano cognome, mi assume, e io mi trasferisco. Contemporaneamente mi iscrivo al Partito Socialista e inizio a lavorare come ufficio stampa per il senatore Francesco Fossa. Il giorno dopo la strage di piazza Fontana sono a casa con la febbre, mi chiama il figlio del senatore: Papà è stato nominato sottosegretario del governo, vuole che tu vada a lavorare con lui a Roma. Un attimo, calma, ho la febbre, devo riflettere. Sta arrivando un motociclista della prefettura al tuo indirizzo, ti consegnerà un biglietto del treno: è per domani, vagone letto. Dopodomani devi essere a Roma».
Giuseppe Ivan Lantos è in partenza. Sua moglie Giusi è morta da pochi mesi, dopo quarantanove anni di matrimonio. Forse andrà a ritirarsi alle Canarie, un amico gli ha indicato una buona casa con vista sull’oceano. Forse opterà per Londra, dove abita sua figlia e dove suo figlio – che è arbitro internazionale nei tornei di golf – lavora per metà della settimana (l’altra metà a Firenze). È ancora indeciso, mi dice.
Nel frattempo il piano inferiore della sua abitazione ha l’aspetto di un’enorme valigia gonfia e disordinata; si raggiunge con una scala a chiocciola. Su una sedia imbottita c’è una foto di un sorridente Bettino Craxi, che giace sdraiato, arreso, su un lato. Sepolta da qualche parte tra souvenir di viaggio e pile di libri ammonticchiati uno sull’altro c’è una valigia che Giuseppe Ivan ha ereditato dallo zio paterno, zeppa di fotografie di famiglia, pranzi di Natale e di Shavuot, l’ultima festa di compleanno di una zia di seconda grado che poi venne deportata ad Auschwitz – cinquantaquattro sono i membri della famiglia allargata Lantos che sono morti nei campi di concentramento nazisti – documenti di matrimonio, passaporti, diari, lettere censurate dei tempi delle due guerre, una foto del lago Balaton che il padre dello zio di Giuseppe Ivan è riuscito a stampare, con un qualche ingegnoso primo-novecentesco metodo, su una conchiglia raccolta sulle rive dello stesso lago Balaton.
Arriverà un’azienda di traslochi, impacchetterà tutto – sedie, scrivania, mobili, ritratto di Craxi, valigetta con ricordi, souvenir, libri, tutto – spedirà alle Canarie o a Londra, quando la scelta sarà stata fatta. Avrei voluto guardare dentro quella valigetta. Ma sono anni che è chiusa; e Giuseppe Ivan la riaprirà fra qualche giorno – mi ha detto – prendendosi il suo tempo, forse riordinandone il contenuto. Non ho insistito.
«Due giorni dopo la chiamata del figlio del senatore – era il dicembre del 1970 – ho preso il treno per Roma da solo. Io e Giusi eravamo sposati da un anno e mezzo. Il lavoro era precario, se il governo cade te ne torni a casa, e i governi cadevano spesso. Ma lo stipendio era ottimo. Incentivi ogni sei mesi. Avevo l’autista. Tessere di vari spacci della città. Dopo quindici giorni mi ha raggiunto mia moglie: sono andato alla stazione a prenderla, e abbiamo concepito Isabella quel mattino, la seconda figlia, nell’albergo dove stavo. Al governo c’era Mariano Rumor. Cadde, e al suo posto venne eletto Emilio Colombo: Fossa restò sottosegretario, io continuavo ad avere un lavoro. Cadde anche Colombo. E nel 1972 fu il turno di Andreotti. Con Andreotti non si va, decisero i vertici del PSI. Tutti a casa, Fossa compreso, io compreso, mia moglie e i due figli compresi. Facciamo le valigie, torniamo a Milano. Io passo da un lavoro all’altro nell’editoria, mia moglie inizia a intrufolarsi qua e là, nelle produzioni dei programmi televisivi RAI e poi Fininvest. Un giorno sono a Padova, su incarico del settimanale Gente: devo incontrare una tizia che si è schiantata a bordo di un Range Rover – la macchina una poltiglia di lamiere, lei uscita perfettamente illesa – e scriverne la storia. Faccio l’intervista e poi il fotografo mi riaccompagna in stazione; prima, però, si ferma in edicola, mi dice che vuole vedere se c’è la rivista che dirige sua moglie. Che rivista è?, gli chiedo io. Una rivista di cultura ferroviaria. Quando sono tornato a casa da Giusi, quella sera, le ho detto: Ho un’idea, facciamo il giro del mondo in treno. Aiutami a trovare dei finanziamenti».
I finanziamenti li hanno trovati. Hanno messo insieme una piccola troupe. Sono stati sui treni di Svizzera, Lapponia e Finlandia, Bretagna, Canada, Giamaica, Giordania, Bali e in un mucchio di altri posti. Hanno venduto i documentari a Hobby & Work per una buona cifra.
Quattro
Un piccolo salto e il naviglio della Martesana si tuffa sotto l’asfalto di via Melchiorre Gioia, e lì sotto continua a scorrere. Play.
«Seconda metà dell’Ottocento. I miei bisnonni fanno le valigie, e dalla regione dei Sudeti, dove abitavano, si trasferiscono a Budapest. In breve tempo al mio bisnonno materno, orologiaio, affidano la cura di tutti gli orologi municipali. Il mio bisnonno paterno apre il primo salone di automobili dell’intera Ungheria.
Poi c’è un salto della famiglia dalle attività commerciali a quelle intellettuali. Mio nonno Emilio si iscrive all’università, prima si laurea in Matematica, poi in Lettere; diventa insegnante a scuola e sposa una ragazza ebrea con cognome asburgicizzato, Heim, che significa casa. Lei era diplomata in pianoforte, di famiglia ricchissima ma in completa rovina per via di un padre stronzo che si era bruciato tutto al gioco, si era fatto la fama di baro, e si era suicidato al confine tra Yugoslavia e Ungheria per sfuggire al processo. Così mia nonna non divenne concertista come sognava, ma insegnante di pianoforte. Mise al mondo due bambini: Andrea e Paolo Ludovico, mio padre».
A questo punto, nella mia registrazione, attacca l’Inno alla Gioia; è la suoneria del cellulare di Giuseppe Ivan Lantos. Risponde. La chiamata è breve. Poi continua a raccontare, discendendo lungo i rami del suo albero genealogico. Io continuo a camminare, guardo a sinistra, guardo a destra, attraverso la strada e proseguo su via Melchiorre Gioia.
«Scoppia la prima guerra mondiale. Crolla l’Impero austroungarico. Il 1919 e il 1920 sono gli anni del biennio rosso. Poi viene nominato reggente d’Ungheria l’ammiraglio Miklós Horthy che, per prima cosa, promulga delle leggi razziali. Non pesantissime. Ma includono il divieto per gli ebrei di frequentare l’università. Mio padre voleva fare il medico: così prende un treno per l’Italia – in quegli anni Mussolini cercava di attrarre il maggior numero di cervelli dall’Europa centrale – insieme a un amico, un certo Cohn. Insomma, un Levi e un Cohen si ritrovano, con i cognomi un po’ mutati, coscia a coscia nello stesso scompartimento di un treno; scendono e si iscrivono a Medicina a Padova, la prima città universitaria in cui s’imbattono lungo il percorso. Poi mio padre si trasferisce a Genova, poi a Milano, poi a Torino, diventa dentista e medico condotto a Gassino Torinese. Infine torna a vivere a Genova. Guadagna bene, si compra la prima automobile, fa le vacanze sulla riviera ligure. Nell’estate del 1938, il regime fascista promulga le leggi razziali».
Stop.
Cinque
È il turno dell’ultimo set fotografico. Giuseppe Ivan Lantos esce dalla camera in calze filo di Scozia, un completo spezzato (pantaloni antracite, giacca nera), camicia bianca, papillon di seta giallo, fazzoletto bianco con trama floreale nel taschino della giacca, giacca su cui è appuntata una spilla in oro giallo che rappresenta un rametto d’acacia (simbolo massonico poco noto), gilet in tartan, anello con incisione di squadra e compasso (simbolo massonico molto noto), occhiali. Prima di mettersi in posa sfila un bastone da passeggio, che stava sull’attenti dentro una sacca da golf che ha tutta l’aria di essere molto costosa; si appoggia a quello. Io mi rimetto al mio posto, softbox in mano, e luce puntata sul soggetto ora sontuosamente vestito.
«La signora che attualmente riposa in quella cassettina» e col bastone da passeggio indica un’urna cineraria di legno sopra un tavolino, su cui giace una rosa rossa «l’ho conosciuta a Genova. Frequentavamo lo stesso circolo culturale americano. Io ero lì per imparare l’inglese».
Deglutisce, sorride, non si scompone, prende una boccata di pipa, il fumo esce dalla sua bocca e si porta dietro un sentore gentile di vaniglia. Continua dicendomi che il sabato e la domenica il circolo organizzava delle gite in montagna, sulle piste da sci. Che in primavera si andava a vedere la fioritura dei narcisi: era una cosa che andava di moda. Durante una di queste uscite era seduto sul pullman in una delle prime file: stava mollando una ragazza, litigavano e urlavano. Quella seduta sul sedile davanti, si gira, lo guarda e gli dice: Scusate, se dovete litigare, potreste accomodarvi in fondo? Qui vorremmo cantare. Grazie. Che faccia di culo che ha questa, pensa lui. Va bene, senz’altro, si figuri, ha ragione, risponde. Questo è stato il primo contatto di Giuseppe Ivan con Giusi.
Riesce a sbuffare del fumo verso l’obiettivo? Chiede il fotografo. Lui esegue, una due, tre, quattro, cinque sbuffate di fumo denso, che poi si dissipa nel salotto.
«Qualche mese dopo l’episodio del pullman, sto lavorando alla drammaturgia di uno spettacolo teatrale, un racconto poetico sull’amore, dai trogloditi fino ai giorni nostri. Faccio dei piccoli casting: e a uno di questi si presenta una ragazza. La stessa delle prime file del pullman. Naturalmente le ho dato subito la parte. E sono partito con un corteggiamento spietato, un lavoro ai fianchi durato sei mesi. Poi un giorno lei mi dice: Devo parlarti. E ci diamo appuntamento in un caffè di Genova. Non funziona Giuseppe. E credo non funzionerà. Forse è meglio se la finiamo qui.
Incasso il colpo. Poi viene il mio turno: Bene, tu hai parlato. Fai parlare me, ora. Le dico che avrei voluto sposarla. Diventammo marito e moglie il 15 aprile 1968. Due anni dopo».
Potremmo fare uno scatto sulla porta di casa? Poi abbiamo concluso. Sempre il fotografo. Io mi porto dietro il softbox, lo punto, e ricominciano i flash.
La porta è blindata. Sull’altro lato, quello che dà sul pianerottolo, c’è un grosso stemma con squadra e compasso che Giuseppe Ivan si è comprato su Amazon. Poco distante, fissata allo stipite con un chiodo, c’è la mezuzah. Un oggetto rituale che gli ebrei affiggono alle loro porte. Ricorda il segno che, durante l’ultima notte in Egitto, Dio intimò a Mosè di tracciare sugli usci della gente del suo popolo. Quella notte sarebbe giunto l’angelo della morte a prendere con sé tutti i primogeniti della terra d’Egitto. Avrebbe risparmiato solo le case segnate col sangue d’agnello, quelle dei figli d’Israele.
«Mia madre e mio padre, hanno vissuto tutta la loro vita dopo la guerra, in Italia, assediati dal complesso del profugo. Come se qualcuno sarebbe potuto sbucare all’improvviso, bussare alla loro porta, prendersi tutto quello che avevano costruito, e distruggerlo, di nuovo. A me non piace nascondermi. Ti basta dare un’occhiata alla mia porta per capire che qui vive un ebreo e massone».
«A me non piace nascondermi. Ti basta dare un’occhiata alla mia porta per capire che qui vive un ebreo e massone.»
Giuseppe Ivan Lantos pronuncia queste ultime parole in tono bonario. E senza rabbia o risentimento mi dice che, una settimana fa, qualcuno ha tracciato una stella di David sul cofano della sua auto con delle chiavi. Ha sporto denuncia. Secondo lui è stato il gesto di qualche ragazzotto idiota, niente più, niente di cui avere paura. Così mi ha detto, ci ha riso sopra. È passato ad altro. Io con lui – un po’ titubante – ho cambiato argomento, sono tornato sulla massoneria, gli ho chiesto come avvengono le riunioni, concretamente. «Niente di speciale». Ha risposto. «L’incontro base avviene in un locale apposito, detto Tempio, disegnato, all’incirca, sul modello del tempio di Salomone. Ci sono due ordini di sedie. Una cattedra sopraelevata, a cui si accede tramite tre gradini, su cui siede il Maestro Venerabile. Poi ci sono due aiutanti, i sorveglianti, seduti di fronte. Un segretario che redige il verbale. E un oratore che fa una sintesi finale dei discorsi pronunciati».
E di cosa si parla, ho chiesto: «Dipende. C’è un ordine del giorno deciso dal Maestro Venerabile di volta in volta. Non è un dibattito o una discussione. Si interviene uno alla volta e non si ribatte al discorso precedente. Quando tutto è finito si esce fuori, si va al ristorante – abbiamo una convenzione con una trattoria in zona – e si continua a discutere, molto più liberamente».
E come arrivano le convocazioni alle riunioni? «Un tempo via posta, raccomandata con ricevuta di ritorno. Da qualche anno via mail. Nella convocazione c’è l’ordine del giorno».
E l’età media, più o meno? «Ci sono molti giovani».
E si può assistere? «Se non si è iniziati no; in nessun caso. Ma facciamo molti eventi aperti al pubblico. La massoneria, da dentro, è molto più normale di come appare da fuori».
Grazie. Io qui ho finito. Aiuto il fotografo a smontare il softbox e inserirlo nella sua valigetta. Salutiamo. Ringraziamo. Chiudiamo la porta.
Sei
Svolta a destra su via del Progresso!, mi intima la voce femminile del navigatore.
«1938. A casa di mio padre si presenta un ufficiale della milizia, accompagnato da altri due uomini. Signor Paolo Ludovico Lantos, lei ha 48 ore per lasciare il paese. Può portarsi solo gli effetti personali. L’unica, a quel punto, era tornare in Ungheria. Il viaggio durò un paio di mesi: a mio padre venne un terribile mal di denti, che lui ritenne di curarsi con abbondanti sciacqui di cognac. Arrivò in piazza Oktogon, a Budapest. Gli mancava solo l’ultima tappa del percorso, in tram. Era alticcio, si mise a cantare arie di opere liriche italiane. Il caso volle che di lì, in quel momento, passò una ragazza, che doveva prendere lo stesso tram. La ragazza conosceva già mio padre: le loro famiglie erano amiche. Ma era la prima volta che lo sentiva cantare. Lì in piazza Oktogon nacque il lungo e travagliato amore tra mio padre e mia madre».
Sei arrivato! La tua destinazione si trova sulla sinistra!
«A Budapest mio padre ritrova anche Cohn, l’amico con cui era partito per l’Italia, anche lui costretto ad andarsene. C’era già stata l’annessione nazista dell’Austria. Nel 1939 l’invasione della Cecoslovacchia. In Ungheria l’aria si faceva sempre più irrespirabile. Il posto non era più sicuro. Bisognava partire. Una sera a cena, Cohn dice a mio padre che ci sono solo due posti sicuri, in quel nuovo mondo, per gli ebrei. Uno è Shanghai. L’altro è Tangeri. Mio padre gli domanda: E tu dove vai? Cohn: A me piacciono i cinesi, vado a Shanghai. Mio padre: E come si arriva a Shanghai? Cohn: Si va in un porto, si prende un battello; un mese e mezzo o due di navigazione e si arriva. Mio padre soffriva di mal di mare anche solo a guardare le barche al cinema. Per Tangeri, invece? Cohn: Passi dall’Austria, se ti fanno passare i tedeschi. Svizzera. Francia. Spagna. E arrivi fino a Lisbona: tutto in treno. Lì puoi prendere un aereo. E andò così. Mio padre salutò mia madre, la sua fidanzata, le disse che lei era libera di decidere quello che voleva fare. Partì. Venne fermato al confine tra Austria e Svizzera: aveva due valigie, in una i libri, nell’altra gli strumenti chirurgici. I tedeschi gli sequestrarono qualcosa ma lo lasciarono passare. A Lisbona – per via di quel fermo – verrà arrestato, in attesa di accertamenti. Una settimana in carcere. Poi lo liberarono. Aereo per Tangeri, dove trovò un posto come assistente chirurgo all’ospedale francese della Charité. Nel febbraio del 1940 lo raggiunse mia madre. Ad aprile si sposarono».
«Dai racconti fatti molto sottovoce nella mia famiglia, ho scoperto che mia madre rimase incinta, ma decise di abortire. Mio padre, però, pian piano la convinse che un figlio ci voleva. Così il 18 novembre 1942 nacqui io»
Sono arrivato al Tempio della Gran Loggia d’Italia, sede di Milano. Da fuori è un parallelepipedo alto quattro o cinque metri, con le sbarre alle finestre, completamente anonimo. Potrebbe essere una piccola ditta familiare che produce qualcosa di non troppo ingombrante.
Mi avvicino. C’è un citofono senza alcun nominativo. Una targa che recita “Centro sociologico italiano”, Giuseppe Ivan mi aveva anticipato che quello è il nome legale della parte di struttura che si occupa dell’amministrazione. «Un po’ serve anche come copertura, mica puoi scrivere “Tempio Massonico della Gran Loggia d’Italia degli ALAM. Anche se c’è poco da coprire: i nominativi di tutti gli affiliati sono depositati regolarmente in questura». Un’altra targa avverte che l’area è sottoposta a video-sorveglianza. Ci sono due telecamere puntate sull’ingresso. Tutto qui.
Il muro di fronte è scalcinato, qualcuno con una bomboletta nera ha scritto: “Curva Nord, Padroni di Milano”; gli interisti. A lato hanno ribattuto i milanisti con la bomboletta rossa: “Curva Sud”. E sopra quella scritta qualcuno ha tracciato una stella di David, in nero, e sotto: “Ebrei”. Nel gergo ultras i milanisti sono “ebrei” perché hanno una curva di destra troppo poco estrema, secondo le tifoserie rivali.
«L’eliminazione degli ebrei ungheresi fu una cosa rapida, perché nell’inverno del 1944 a Budapest arrivò Eichmann. I primi morirono nel Danubio gelato. Venivano disposti in fila sugli argini, legati l’uno all’altra con il fil di ferro. I soldati sparavano alla testa dei primi tre, che si trascinavano nel fiume gli altri dieci. Poi furono organizzati i treni. I miei nonni riuscirono a mettersi in salvo in alcune case protette di Budapest gestite da uno svedese. A mia madre e mio padre le notizie da casa arrivavano a singhiozzo, tramite qualche lettera che riusciva ad attraversare l’Europa. Dai racconti fatti molto sottovoce nella mia famiglia, ho scoperto che mia madre rimase incinta, ma decise di abortire. Mio padre, però, pian piano la convinse che un figlio ci voleva. Così il 18 novembre 1942 nacqui io.
Finì la guerra. Nel 1947 nacque mia sorella. Nel 1948 tornammo a Genova. La città era distrutta. Al posto della nostra casa c’era un cumulo di macerie. Siamo ripartiti da lì, e ci siamo ricostruiti una vita».
Stop. Mi tolgo le cuffie. Suono al citofono senza nominativo. Aspetto. Non risponde nessuno.
Sette
Un qualche cosa l’uomo avrà
In tutta la pena sua di sotto il sole?
Un vaevieni di generazioni
E la terra che sta nel tempo
Sole si leva
Sole tramonta
Corre laggiù
Di là riappare
Andato a Sud gira a Nord
Il vento nel suo andare
Dopo giri su giri
Il vento ricomincia il suo girare
Si versano nel mare tutti i fiumi
Senza riempire il mare.
[Qohélet, I, 3-7]