[Preludio]
Una foto alla luna
Stefano armeggia con il telefono e scatta una raffica di foto a una luna tronfia: sospesa a levante, riversa il suo esubero di luce sulle acque calme e scure del golfo di Palermo, il vivido luccichio che Italo Calvino, con le parole del suo irrequieto alter ego Palomar, avrebbe battezzato come “spada di luce”. L’impressione è che, se non ci fossero isole e continenti a spezzarne la lama, l’intero mondo potrebbe venir tagliato di netto
«Non avevo mai visto una luna del genere» confida Stefano, più a se stesso che a me, che pur gli ronzo intorno. Sostiamo sulla banchina nuova di zecca del porticciolo di Sant’Erasmo. È inizio settembre e l’aria è sorprendentemente fresca, un sollievo dopo l’insistente afa che ci ha assediato per tutta la giornata. Stefano posa il telefono e si volta verso di me e Roberta – la fotografa che mi accompagna – con fare impaziente e interrogativo, come a voler sincerarsi che la conversazione avvenuta nel pomeriggio non ci abbia deluso.
«Se avete altre cose da chiedermi…».
[Giorno 1]
Del caffè sul tavolo
«Mi piace definirmi un palermitano abbronzato».
È con un sorriso bonario che si presenta Stefano Edward, studente di comunicazione e attivista italo-tamil di seconda generazione. Le lenti spesse e squadrate, il volto mite coronato da un ciuffo corvino come i suoi occhi, Stefano, fin da subito, dirige la conversazione con caparbia autonomia, come a voler suggerire che già altre volte si è trovato di fronte a giornalisti, studiosi e accademici interessati alla questione tamil e che tutti, bene o male, chiedono sempre le stesse cose.
Ordiniamo tre caffè. Il cortile è tutto un garrire degli invisibili pappagalli del vicino orto botanico, almeno fino a quando qualcuno non alzerà il volume delle casse montate all’ingresso.
«Il popolo tamil rappresenta una diaspora. È un popolo che ha subito persecuzioni, che ha sofferto e che è tutt’ora sofferente».
Lo Sri Lanka è una grande isola a forma di goccia situata nell’Oceano Indiano, a sud-est della penisola indiana. Gli arabi la chiamavano Serendib, termine da cui i coloni britannici mutuarono la parola serendipity, serendipità, ovvero la capacità di compiere scoperte per puro caso quando invece si è in cerca di qualcos’altro. I tamil abitano l’isola da più di duemila anni fianco a fianco con i singalesi, il gruppo etnico maggioritario del paese. Oggi Palermo ospita la più grande comunità tamil in Italia formata da circa 8.000 persone: una parte abbraccia la fede cattolica, un’altra quella induista.
«La diaspora ha origine dal periodo coloniale. I britannici, per comodità amministrative, hanno forzato la fusione dei regni tamil con i regni singalesi, che fino a quel tempo, avevano convissuto in relativa serenità. Due culture dalle radicate specificità si sono ritrovate sotto un’unica ala governativa nella quale i singalesi, ovvero la maggioranza, hanno assunto il comando. Potete immaginare quel che successe una volta che i britannici lasciarono l’isola».
Lotte politiche, repressioni, attentati, rivolte armate, sino ad arrivare al luglio del 1983, il così detto Black July, il pogrom anti-tamil in cui vennero uccisi all’incirca tremila civili e altri centocinquanta mila persero le loro case.
Stefano si accalora: «La guerra civile è terminata nel 2009, eppure sinora non si è mai parlato dei movimenti pacifisti studenteschi, delle azioni politiche volte al federalismo autonomistico, nessuno ha ascoltato le richieste degli attivisti e della società civile. La resistenza da parte dei tamil non è stata solo armata».
Il cameriere interrompe il racconto di Stefano servendoci i caffè. Approfitto della pausa per chiedergli del suo attivismo e della sua vita a Palermo. Stefano osserva il cucchiaino un po’ dubbioso. Cerca il cameriere con lo sguardo ma è già filato via. Apre una bustina di zucchero e lo versa nel caffè.
«La mia famiglia ha spinto molto affinché imparassi fin da subito la lingua italiana perché avevano paura che mi ritrovassi alienato nel mio stesso paese. Immagina a scuola, spiegare ai genitori palermitani che i loro figli avevano in classe un compagno tamil. Chi sapeva qualcosa dei tamil? Oggi la situazione è migliorata, in generale Palermo si è aperta alle comunità straniere, almeno più di prima».
Stefano prosegue: «È durante gli anni universitari che la curiosità nei confronti della mia cultura d’origine si è fatta più intensa. Ho cominciato a frequentare le associazioni tamil, ho ascoltato le storie dei più anziani e dei nuovi arrivati. Col tempo i membri della comunità hanno visto in me un referente, un portavoce in grado di dialogare con i cittadini e le istituzioni. Oggi non mi definisco più come attivista tamil: sono un attivista per i diritti umani e basta».
Io e Roberta beviamo il nostro caffè, quello di Stefano invece continua a raffreddarsi sul tavolo.
«Studiando la storia del mio popolo, ho scoperto che il legame tra l’Italia e i tamil è ben più antico di quel che si possa immaginare: conosci Constanzo Beschi?».
Faccio di no con la testa.
«Fu un gesuita lombardo del diciottesimo secolo. Partì come missionario nel Tamil Nadu e visse lì fino alla morte. Fu un grande studioso della lingua tamil: compose grammatiche e dizionari dal tamil al latino e dal tamil al portoghese. Scrisse anche un’importante opera poetica in lingua, il Thembavani e oggi è considerato un classico della nostra letteratura. Beschi, nella nostra lingua, è conosciuto con il nome di Viramamunivar».
Stefano stringe gli occhi, è insospettito.
«Il cucchiaino è sporco».
Roberta si accinge a chiamare il cameriere ma Stefano non le dà il tempo e travasa il caffè ancora caldo dalla tazzina a un bicchiere di plastica, così da poter mescolare con maggior scioltezza lo zucchero usando soltanto il movimento circolare della propria mano.
«Un mio caro amico mauriziano si è appena trasferito a Cremona, stanno andando via tutti» rivela Stefano con languore, quando il bicchiere torna a posarsi sul tavolo. Gli chiedo se anche lui vorrebbe andar via da Palermo per trasferirsi al nord. Io ragiono su questa eventualità ogni giorno, gli dico.
«Sì, ogni tanto ci penso anch’io».
Con un movimento inconsulto della mano, quasi uno spasmo, Stefano rovescia il bicchiere di plastica sul tavolo. Ci arrabattiamo per pulire e asciugare mentre Stefano, mortificato, non vorrebbe altro che resettare l’intera conversazione: «Hai registrato tutto? Posso ripartire da zero? Magari mi focalizzo soltanto sugli excursus storici…».
[Interludio]
Di fronte casa
Per circa cinque anni ho vissuto a Palermo. Non mi sono mai allontanato dal centro storico. Avevo tutto a portata di mano: università, mercati, librerie, barbieri, luoghi di ritrovo; e con 150 € potevi accaparrarti una stanza singola, una topaia il più delle volte, ma era il giusto compromesso per gli standard di vita di un universitario dalla poche pretese.
Tra le stamberghe che mi hanno ospitato ne ricordo una in particolare, sebbene ci abbia vissuto per una manciata di mesi soltanto. Si trovava in Via Maqueda, a pochi passi dai Quattro Canti. Un appartamento basso ed esteso, all’ultimo piano di un edificio storico, con una decina di stanze occupate dalla fauna più varia: studenti Erasmus turchi, tedeschi e spagnoli, una barista ungherese, una coppia omosessuale e un operaio sulla cinquantina nativo di Ballarò. Delle volte il baccano era tale che scappavo da casa. Non che andassi chissà dove. Scendevo giù e mi sedevo su una delle panchine di marmo appena installate dal comune. Stavo lì e osservavo con pigrizia il capannello di africani e asiatici accalcarsi nei pressi del cancello della chiesa di fronte casa.
[Giorno 2]
La panchina del mondo
Attendiamo silenziosi tra le colonne della navata destra della chiesa di San Niccolò da Tolentino. È sabato mattina, la chiesa è deserta, solo qualche sporadico turista si affaccia dal grande portone d’ingresso: la mascherina alzata e un segno della croce, per una timida e rapida visita. Una porta si apre alle nostre spalle. Padre Adriano ci saluta cordiale, tutto uno sbattere di gomiti, e ci guida presso l’ufficio di Padre Peter che ci sta già aspettando. Padre Adriano ci precede, sale i gradini in pietra quasi saltellando: i sandali e le vesti comode ne evidenziano la fisionomia minuta. Entriamo nell’ufficio, ampio e luminoso. Padre Peter è seduto a fianco di Delshiya, una ragazza tamil dal volto raggiante. Padre Adriano si accomoda su una sedia un po’ defilata e fa cenno anche a noi di metterci comodi. I due uomini fanno entrambi parte della Congregazione dei Missionari oblati di Maria Immacolata.
«Ci conosciamo da molti anni. Dopo aver lavorato nelle periferie, siamo tornati per questo progetto dedicato alle comunità cattoliche straniere» spiega Padre Adriano, «Le famiglie tamil hanno deciso di vivere le celebrazioni in questa chiesa. Allora abbiamo deciso di accogliere non solo loro, ma anche i nigeriani, gli ivoriani, i mauriziani, insomma, le comunità più grandi che abitano il quartiere. La comunità cristiana è mondiale e in questa chiesa si può ben vedere!».
Padre Peter annuisce: «È così. Ma molti giovani vanno via nel nord Italia, addirittura all’estero. Vedo sempre meno ragazzi coinvolti nelle nostre attività».
Delshiya si sente pungolata: «Io non so se voglio andare via da Palermo: mi dico che a oggi c’è il 45% di questa possibilità. Mi dispiacerebbe molto andarmene. È una città in cui ho costruito la mia libertà, posso fare quello che voglio».
Un piccolo silenzio, e poi continua.
«Ho lasciato lo Sri Lanka insieme alla mia famiglia all’età di 15 anni. Ammetto che delle volte si manifesta in me una mentalità, come dire, “srilankese”, ma quando ho cominciato a studiare qui ho sviluppato prospettive nuove, diverse. Spesso mi chiedo: chi sono io? Sono italiana oppure tamil? Noi della seconda generazione abbiamo due anime, non possiamo farci niente».
«E non è semplice neanche per le prime generazioni» continua Padre Adriano, «sono persone che partono per bisogno e arrivano qui portandosi dietro il loro paesaggio interiore che hanno costruito fin da quando erano bambini. Persone che non riescono a pregare in altre lingue se non con la loro».
Si alza dalla sedia e con fare cordiale ci invita a fare lo stesso: «Venite, vi faccio vedere una cosa».
Siamo di nuovo tra le navate della chiesa. Procediamo verso l’ingresso. Le statue dei santi fanno capolino tra i possenti pilastri, fino a quando non ci fermiamo davanti a una cappella vuota.
«Qui poseremo la statua della Madonna del santuario di Madhu, uno dei santuari più importanti dell’intero Sri Lanka» ci confida soddisfatto Padre Adriano, che ci invita alla messa in lingua tamil che si terrà in serata. Accettiamo con garbo prima di salutarci, e rituffarci nel trambusto cittadino.
Il crepuscolo giunge in fretta.
Via Maqueda alta, ovvero quella parte del viale che dalla stazione centrale scende fino ai Quattro Canti, brulica di vita. È come se il confinante mercato di Ballarò avesse riversato parte del proprio tramestio su questo lembo di città.
Ritrovo il palazzo che mi ha ospitato in quei mesi torbidi; seduto sulla panchina su cui ero solito rifiatare vedo Padre Adriano, con il viso riposato e sazio, a osservare e salutare i fedeli che man mano prendono posto nella sua chiesa. Indossa una camicia vistosa, dalle sfumature gialloverdi e impreziosita da candidi decori.
«È dello Zaire» dice, «prego, sedetevi!».
«Mi piace chiamarla la panchina del mondo. Mi basta stare seduto qui per dieci minuti e tante persone da ogni dove si fermano a salutarmi».
E infatti, poco dopo, un bambino africano frena sgommando con la sua bicicletta proprio davanti a noi.
«Ciao Albert!» esclama Padre Adriano.
Albert ricambia frettoloso il saluto e si arrampica su per la panchina, già incantato dalla macchina fotografica di Roberta. Un’altra bambina, alta e robusta, anche lei dai tratti africani, si avvicina a noi.
«Ciao Abigail!»
Un cane, secco e laido, vessato dalle pulci, zoppica a pochi passi dalla panchina. Abigail, impaurita, si lancia addosso a noi.
«Ho paura dei cani!».
Albert si separa e monta sulla bici per rincorrere un ragazzino bengalese sfrecciante col suo monopattino elettrico.
«Albert ha un fratellino simpaticissimo, si chiama Einstein» ci confida divertito Padre Adriano.
Vediamo Delshiya avvicinarsi in compagnia di un ragazzo tamil dalla folta capigliatura, le mani ferme sul manubrio della bici.
«Salve Padre, sono venuto a salutarla, domani parto» dice con voce incerta.
«Parti? E dove vai?».
«In Germania».
«In Germania? E per quanto tempo?».
«Per sempre. Vado a cercare lavoro».
«Ma almeno lo sai un po’ di tedesco?».
«Un po’» risponde il ragazzo ancora più incerto.
«Bene, bene…» annuisce Padre Adriano con la vertigine in volto, «che dirti allora: auf Wiedersehen!».
Il ragazzo finge di capire, saluta con la mano e se ne va. Poco più in là, il cagnaccio si accovaccia sotto una saracinesca per rasparsi con la propria zampa le pulci di dosso.
La chiesa è gremita di fedeli nonostante il distanziamento fisico: solo due persone per panca. Sulle colonne, alcuni schermi proiettano in lingua tamil i canti da seguire. Defilato, in fondo al coro, un tastierista è chino sul proprio strumento. Padre Peter, in piedi sul leggio, introduce la messa. A un certo punto, dalle sue parole – un agitato bisbigliare a me incomprensibile – riesco a cogliere il mio nome e quello di Roberta. Accenniamo un saluto al brusio di teste rivolte verso di noi.
[Giorno 3]
ௐ
Il telefono vibra, è Chaby. “Mi raccomando, arrivate ben lavati. Roberta non potrà entrare se ha il ciclo. Ci vediamo al tempio alle 12.00”.
Ci laviamo per bene, e ci dirigiamo verso il porto.
Attraversare Palermo da capo a piedi, in linea retta, equivale a compiere continui balzi, come se la topografia dell’intera città fosse quella di un rosario steso, dove in ogni grano si addensano specifiche e riconoscibili architetture, facce, linguaggi e intenzioni. Per arrivare al porto però bisogna sfuggire al regime della linea retta e scantonare nei grandi rioni laterali, dove sguardi principianti non coglieranno nient’altro che segni confusi e illeggibili.
Una volta arrivati nell’area portuale, non è stato semplice accorgersi, tra due palazzi scoloriti e diroccati, dell’ergersi timido di una torre trapezoidale. Avvicinandoci però, ci rendiamo conto che dell’edificio c’è soltanto la facciata: il trompe-l’œil su legno di un tempio induista srilankese, dai colori un tempo sgargianti ma ormai sbiaditi dal troppo sole. Un’auto parcheggia dall’altro lato della strada. Scendono delle donne tamil in abiti tradizionali. Tra di loro, ci viene incontro Chaby, una giovane ragazza dai lunghi capelli neri e dal viso tornito.
«Benvenuti!».
Entriamo.
Il nome del tempio è Muthu Vinaayakar Aalayam ed è intitolato al dio Ganesh. Chaby ci invita a togliere le scarpe. Percorso un breve corridoio, si apre una grande sala al cui centro è posta una celletta che protegge la statua del dio Ganesh. Ai quattro angoli della sala sono posizionate altre statue di altri dei appartenenti allo sconfinato pantheon induista. Sulla parete di sinistra è dipinto ௐ, l’om in lingua tamil, la sillaba sacra. Due uomini a petto nudo preparano l’altare.
«Sono gli Ayar » spiega Chaby, «coloro che dirigeranno la cerimonia».
Il pavimento è segnato dalle croci adesive anti-assembramento. Prima che la cerimonia abbia inizio, chiedo a Chaby se abbiano mai avuto delle tensioni con i residenti del quartiere.
«Solo all’inizio. Per loro era strano, soprattutto perché le nostre cerimonie si svolgono in orari particolari, delle volte anche la sera tardi. Ma poi siamo stati accolti, qui siamo a casa. Non è stato facile trovare un luogo adatto alle nostre esigenze».
«L’induismo è una religione porosa e adattabile, incline all’accoglienza» continua Chaby, «in poco tempo le prime generazioni hanno trovato nella patrona di Palermo, Santa Rosalia, una divinità su cui fare affidamento. Santa Rosalia protegge dal male come Durgai, l’avatar di Amman, e come Durgai porta con sé un teschio e indossa una corona di rose. L’induismo contiene una moltitudine di dei, è vero, ma siamo ben consapevoli che Dio è uno soltanto».
Dalle casse straripa una musica monotona e ipnotica e una donna comincia a seguirne il ritmo con un’intensa scampanellata. L’Ayar più giovane porge i doni a Ganesh: versa sulla statua bidoncini di latte, miele e mango; i candelabri accesi, l’incenso e l’incedere della musica rendono l’atmosfera liquida, sfuocata.
Chaby prova a spiegarmi a bassa voce ogni gesto, ogni attimo della cerimonia. Faccio fatica a seguirla, lo scampanio è troppo forte; mi perdo tra le genealogie degli dei induisti e le proprietà terapeutiche e igieniche delle polveri utilizzate dagli Ayar; annuisco ma è come se il mio comprendere avesse subito un corto circuito e a fine cerimonia mi ritrovo le mani ingombre di doni: banane sacre e fiori di ibisco, pastelle di lenticchie e latte speziato. Vogliamo ringraziare ma ci viene prontamente proibito.
«Nel tempio non bisogna mai dire “grazie”. È cosa ovvia offrire e ricevere dei doni».
Io e Roberta siamo di nuovo per strada sotto un sole lancinante, la testa vuota, gli zaini più pesanti, un bindi cremisi sulla fronte.
[Giorno 4]
Addio alle armi
Avevo già incontrato Sumi una volta, ma non ci avevo badato.
Tre anni fa persi l’ultimo autobus che mi avrebbe riportato a Enna, la mia città. Chiamai subito Alberto, un caro amico palermitano, per chiedergli ospitalità. Passai dunque la notte da lui, nel suo grande appartamento familiare che si affaccia sui Giardini Inglesi. La mattina dopo, con gli occhi ancora impastati dal sonno, mi diressi verso la cucina. Il domestico di famiglia stava preparando la colazione a tutti. Mi chiese se volessi del caffè, risposi di sì, un po’ impacciato: non avevo mai avuto a che fare con un domestico e la cosa mi suscitava un vago disagio. Mi diede le spalle e azionò la macchina da caffè. Arrivò il resto della famiglia, il domestico andò in un’altra stanza e non lo vidi più.
Oggi sono tornato in quella casa e Sumi, il domestico, siede di fronte a me. Lo sguardo vispo, le labbra bardate da una barba curata, folta e brizzolata. Sotto il lobo destro, noto una mano tatuata.
«È la mano di un santo indiano. Non posso mostrarvi l’intero tatuaggio. È coperto dai capelli».
Alberto posa i caffè sul tavolo. Sumi lo guarda beffardo: «Lo conosco da quant’era così!» e alza la mano a poco più di un metro da terra.
«Mia figlia si chiama Cristiana, come la sorella di Alberto: ha undici anni». Ci mostra le foto sul telefono. Noto il suo bindi e gli chiedo se è induista.
«Sì, lo sono. Ti stupisce il nome di mia figlia? Io non bado a queste cose, è un bel nome».
Sumi è arrivato a Palermo nel 1989, quando gli srilankesi erano ancora rari in città.
«Adesso siamo in tanti. Molti di noi vivono in Via Dante. Qualche anno fa si stava tranquilli, adesso i più giovani perdono tempo in strada, li vedo in Piazza Lolli a ubriacarsi e a drogarsi, a farsi male in stupide risse».
Roberta gli chiede cosa si ricorda del suo paese.
«Militari, bombe, morte». Ci mostra alcune brutte cicatrici sulla gamba.
«Ricordo che le Tigri piombarono nella mia scuola. Ho visto i fucili e mi pareva tutto un gioco. Il giorno dopo, ho lasciato lo zaino per strada e li ho seguiti nella foresta».
Le “Tigri Tamil per la liberazione della patria” è stato il gruppo paramilitare di stampo comunista e nazionalista che ha combattuto dal 1983 al 2009 contro il governo srilankese. Durante la guerra civile, il gruppo acquisì un notevole potere: uccise il primo ministro indiano Rajiy Gandhi nel 1991 e il presidente singalese Ranasinghe Premadasa nel 1993.
«Ho trascorso nove mesi con le Tigri. Non agivamo soltanto in Sri Lanka, organizzavamo delle retate anche in India. Anche mia sorella è stata una guerrigliera: trasportava armi e consegnava messaggi da un gruppo all’altro».
Sumi continua: «I campi di addestramento erano duri. Mangiavamo solo la mattina un pugno di lenticchie, guadavamo fiumi, nuotavamo con venti chili addosso tra provviste, armi e munizioni. Era un allenamento necessario per essere pronti in battaglia. Nascondevamo sempre del cianuro in bocca all’interno di piccoli contenitori di vetro, simili a dei campioncini di profumo, nel caso in cui venissimo catturati».
Sumi racconta della guerra civile con l’incedere frenetico del suo accento di origine. Però mantiene un palpabile distacco, come se narrasse la storia di qualcun altro, di un conoscente lontano.
«Nei campi di addestramento si organizzavano anche delle specie di olimpiadi tra i vari gruppi. Ricordo un gioco in particolare: ci venivano nascosti nella farina i pezzi di un AK-47; il nostro obiettivo era scovarli tutti, ripulirli e montarli nel modo corretto. Chi lo faceva nel minor tempo e nel miglior modo possibile, vinceva». E cosa si vinceva, gli chiedo. Sumi non risponde.
Ci racconta un altro aneddoto: «Una notte ero di guardia ma mi addormentai. Il mio comandante se ne accorse e allora per punirmi armò una granata e me la mise nelle mani: dovevo tenere premuto il clip altrimenti sarei esploso. Così rimani sveglio, mi disse. Ma non sapeva che io ero in grado di disarmarla. Appena si allontanò, disarmai la granata e mi addormentai di nuovo» e scoppia in una fragorosa risata.
«Mi stancai della guerra, troppa violenza, troppe morti. Scappai che avevo diciassette anni. Devo ringraziare mia zia per questo. Faceva la dottoressa a Jaffna: mi fece salire su un’ambulanza di nascosto e lasciai il paese. Mi imbarcai su una nave fatiscente, pagai una cifra che oggi equivale a 1.500€. Oggi i prezzi sono aumentati. Per arrivare a Lampedusa per esempio, la cifra si aggira intorno ai 15.000€. Quando scappai nell’89 la tratta principale era verso la Grecia. Arrivai prima in Jugoslavia. Una signora del posto mi aiutò a prendere un pullman che mi portò a Parigi; da lì mi sono spostato in auto a Milano, dopo qualche giorno presi un treno per raggiungere Palermo dove mi aspettava una cugina. Non parlavo né inglese né italiano, ma riuscii comunque a trovare un impiego come domestico. E dopo tanti anni di lavoro, eccomi qui».
Gli chiediamo se a Palermo ha trovato un po’ di pace.
«Così così» e lascia cadere un sorriso. Dal cortile del palazzo si alza il baccano di alcuni bambini in festa.
«Volete sapere qual era il mio nome di battaglia?» chiede a un tratto Sumi.
Certo, rispondiamo.
«Raja». Significa Re.
[Epilogo]
Panelle e crocché
Seduti a un tavolo di “Franco ‘u vastiddaru” ordiniamo tre portate di panelle e crocché.
Stefano Edward ci chiede come sono andate il resto delle giornate. Rispondiamo che sono andate benissimo e lo ringraziamo, del resto è merito suo se siamo riusciti a imbastire tutti questi incontri. Sembra più rilassato rispetto alla prima volta in cui lo abbiamo incontrato. Arrivano le portate e mangiamo di gusto.
Roberta chiede a Stefano se può fotografargli la pelle, magari parte della schiena. Stefano arrossisce, la schiena no, dice, però le braccia potrebbero andar bene.
Usciamo su Corso Vittorio. Roberta dirige Stefano sotto un buon punto luce. Io li osservo all’ombra di un albero. Stefano allunga le braccia davanti all’obiettivo come a voler cogliere dell’acqua a una sorgente. Terminati gli scatti, ci ritroviamo tutti e tre al centro della via. Io e Roberta stiamo per salutare quando a un tratto una scarica di botti sconquassa l’aria. Alziamo la testa. Il fumo chiaro dei fuochi d’artificio si alza sopra le case della Vucciria. Stefano si scompone, è come se i botti gli avessero danneggiato dei sostegni invisibili, e ci saluta per primo, con una fretta imprevista.
Lo salutiamo e lo ringraziamo ancora una volta, per poi vederlo risalire su Corso Vittorio, a testa bassa, col passo deciso ma affaticato, fin quando si confonde nella moltitudine di corpi provenienti da ogni dove che scorre sulla via.
[Preludio]
Una foto alla luna
Stefano armeggia con il telefono e scatta una raffica di foto a una luna tronfia: sospesa a levante, riversa il suo esubero di luce sulle acque calme e scure del golfo di Palermo, il vivido luccichio che Italo Calvino, con le parole del suo irrequieto alter ego Palomar, avrebbe battezzato come “spada di luce”. L’impressione è che, se non ci fossero isole e continenti a spezzarne la lama, l’intero mondo potrebbe venir tagliato di netto
«Non avevo mai visto una luna del genere» confida Stefano, più a se stesso che a me, che pur gli ronzo intorno. Sostiamo sulla banchina nuova di zecca del porticciolo di Sant’Erasmo. È inizio settembre e l’aria è sorprendentemente fresca, un sollievo dopo l’insistente afa che ci ha assediato per tutta la giornata. Stefano posa il telefono e si volta verso di me e Roberta – la fotografa che mi accompagna – con fare impaziente e interrogativo, come a voler sincerarsi che la conversazione avvenuta nel pomeriggio non ci abbia deluso.
«Se avete altre cose da chiedermi…».
[Giorno 1]
Del caffè sul tavolo
«Mi piace definirmi un palermitano abbronzato».
È con un sorriso bonario che si presenta Stefano Edward, studente di comunicazione e attivista italo-tamil di seconda generazione. Le lenti spesse e squadrate, il volto mite coronato da un ciuffo corvino come i suoi occhi, Stefano, fin da subito, dirige la conversazione con caparbia autonomia, come a voler suggerire che già altre volte si è trovato di fronte a giornalisti, studiosi e accademici interessati alla questione tamil e che tutti, bene o male, chiedono sempre le stesse cose.
Ordiniamo tre caffè. Il cortile è tutto un garrire degli invisibili pappagalli del vicino orto botanico, almeno fino a quando qualcuno non alzerà il volume delle casse montate all’ingresso.
«Il popolo tamil rappresenta una diaspora. È un popolo che ha subito persecuzioni, che ha sofferto e che è tutt’ora sofferente».
Lo Sri Lanka è una grande isola a forma di goccia situata nell’Oceano Indiano, a sud-est della penisola indiana. Gli arabi la chiamavano Serendib, termine da cui i coloni britannici mutuarono la parola serendipity, serendipità, ovvero la capacità di compiere scoperte per puro caso quando invece si è in cerca di qualcos’altro. I tamil abitano l’isola da più di duemila anni fianco a fianco con i singalesi, il gruppo etnico maggioritario del paese. Oggi Palermo ospita la più grande comunità tamil in Italia formata da circa 8.000 persone: una parte abbraccia la fede cattolica, un’altra quella induista.
«La diaspora ha origine dal periodo coloniale. I britannici, per comodità amministrative, hanno forzato la fusione dei regni tamil con i regni singalesi, che fino a quel tempo, avevano convissuto in relativa serenità. Due culture dalle radicate specificità si sono ritrovate sotto un’unica ala governativa nella quale i singalesi, ovvero la maggioranza, hanno assunto il comando. Potete immaginare quel che successe una volta che i britannici lasciarono l’isola».
Lo Sri Lanka è una grande isola a forma di goccia situata nell’Oceano Indiano, a sud-est della penisola indiana. Gli arabi la chiamavano Serendib, termine da cui i coloni britannici mutuarono la parola serendipity.
Lotte politiche, repressioni, attentati, rivolte armate, sino ad arrivare al luglio del 1983, il così detto Black July, il pogrom anti-tamil in cui vennero uccisi all’incirca tremila civili e altri centocinquanta mila persero le loro case.
Stefano si accalora: «La guerra civile è terminata nel 2009, eppure sinora non si è mai parlato dei movimenti pacifisti studenteschi, delle azioni politiche volte al federalismo autonomistico, nessuno ha ascoltato le richieste degli attivisti e della società civile. La resistenza da parte dei tamil non è stata solo armata».
Il cameriere interrompe il racconto di Stefano servendoci i caffè. Approfitto della pausa per chiedergli del suo attivismo e della sua vita a Palermo. Stefano osserva il cucchiaino un po’ dubbioso. Cerca il cameriere con lo sguardo ma è già filato via. Apre una bustina di zucchero e lo versa nel caffè.
«La mia famiglia ha spinto molto affinché imparassi fin da subito la lingua italiana perché avevano paura che mi ritrovassi alienato nel mio stesso paese. Immagina a scuola, spiegare ai genitori palermitani che i loro figli avevano in classe un compagno tamil. Chi sapeva qualcosa dei tamil? Oggi la situazione è migliorata, in generale Palermo si è aperta alle comunità straniere, almeno più di prima».
Stefano prosegue: «È durante gli anni universitari che la curiosità nei confronti della mia cultura d’origine si è fatta più intensa. Ho cominciato a frequentare le associazioni tamil, ho ascoltato le storie dei più anziani e dei nuovi arrivati. Col tempo i membri della comunità hanno visto in me un referente, un portavoce in grado di dialogare con i cittadini e le istituzioni. Oggi non mi definisco più come attivista tamil: sono un attivista per i diritti umani e basta».
Io e Roberta beviamo il nostro caffè, quello di Stefano invece continua a raffreddarsi sul tavolo.
«Studiando la storia del mio popolo, ho scoperto che il legame tra l’Italia e i tamil è ben più antico di quel che si possa immaginare: conosci Constanzo Beschi?».
Faccio di no con la testa.
«Fu un gesuita lombardo del diciottesimo secolo. Partì come missionario nel Tamil Nadu e visse lì fino alla morte. Fu un grande studioso della lingua tamil: compose grammatiche e dizionari dal tamil al latino e dal tamil al portoghese. Scrisse anche un’importante opera poetica in lingua, il Thembavani e oggi è considerato un classico della nostra letteratura. Beschi, nella nostra lingua, è conosciuto con il nome di Viramamunivar».
Stefano stringe gli occhi, è insospettito.
«Il cucchiaino è sporco».
Roberta si accinge a chiamare il cameriere ma Stefano non le dà il tempo e travasa il caffè ancora caldo dalla tazzina a un bicchiere di plastica, così da poter mescolare con maggior scioltezza lo zucchero usando soltanto il movimento circolare della propria mano.
«Un mio caro amico mauriziano si è appena trasferito a Cremona, stanno andando via tutti» rivela Stefano con languore, quando il bicchiere torna a posarsi sul tavolo. Gli chiedo se anche lui vorrebbe andar via da Palermo per trasferirsi al nord. Io ragiono su questa eventualità ogni giorno, gli dico.
«Sì, ogni tanto ci penso anch’io».
Con un movimento inconsulto della mano, quasi uno spasmo, Stefano rovescia il bicchiere di plastica sul tavolo. Ci arrabattiamo per pulire e asciugare mentre Stefano, mortificato, non vorrebbe altro che resettare l’intera conversazione: «Hai registrato tutto? Posso ripartire da zero? Magari mi focalizzo soltanto sugli excursus storici…».
[Interludio]
Di fronte casa
Per circa cinque anni ho vissuto a Palermo. Non mi sono mai allontanato dal centro storico. Avevo tutto a portata di mano: università, mercati, librerie, barbieri, luoghi di ritrovo; e con 150 € potevi accaparrarti una stanza singola, una topaia il più delle volte, ma era il giusto compromesso per gli standard di vita di un universitario dalla poche pretese.
Tra le stamberghe che mi hanno ospitato ne ricordo una in particolare, sebbene ci abbia vissuto per una manciata di mesi soltanto. Si trovava in Via Maqueda, a pochi passi dai Quattro Canti. Un appartamento basso ed esteso, all’ultimo piano di un edificio storico, con una decina di stanze occupate dalla fauna più varia: studenti Erasmus turchi, tedeschi e spagnoli, una barista ungherese, una coppia omosessuale e un operaio sulla cinquantina nativo di Ballarò. Delle volte il baccano era tale che scappavo da casa. Non che andassi chissà dove. Scendevo giù e mi sedevo su una delle panchine di marmo appena installate dal comune. Stavo lì e osservavo con pigrizia il capannello di africani e asiatici accalcarsi nei pressi del cancello della chiesa di fronte casa.
[Giorno 2]
La panchina del mondo
Attendiamo silenziosi tra le colonne della navata destra della chiesa di San Niccolò da Tolentino. È sabato mattina, la chiesa è deserta, solo qualche sporadico turista si affaccia dal grande portone d’ingresso: la mascherina alzata e un segno della croce, per una timida e rapida visita. Una porta si apre alle nostre spalle. Padre Adriano ci saluta cordiale, tutto uno sbattere di gomiti, e ci guida presso l’ufficio di Padre Peter che ci sta già aspettando. Padre Adriano ci precede, sale i gradini in pietra quasi saltellando: i sandali e le vesti comode ne evidenziano la fisionomia minuta. Entriamo nell’ufficio, ampio e luminoso. Padre Peter è seduto a fianco di Delshiya, una ragazza tamil dal volto raggiante. Padre Adriano si accomoda su una sedia un po’ defilata e fa cenno anche a noi di metterci comodi. I due uomini fanno entrambi parte della Congregazione dei Missionari oblati di Maria Immacolata.
«Ci conosciamo da molti anni. Dopo aver lavorato nelle periferie, siamo tornati per questo progetto dedicato alle comunità cattoliche straniere» spiega Padre Adriano, «Le famiglie tamil hanno deciso di vivere le celebrazioni in questa chiesa. Allora abbiamo deciso di accogliere non solo loro, ma anche i nigeriani, gli ivoriani, i mauriziani, insomma, le comunità più grandi che abitano il quartiere. La comunità cristiana è mondiale e in questa chiesa si può ben vedere!».
Padre Peter annuisce: «È così. Ma molti giovani vanno via nel nord Italia, addirittura all’estero. Vedo sempre meno ragazzi coinvolti nelle nostre attività».
Oggi Palermo ospita la più grande comunità tamil in Italia formata da circa 8.000 persone: una parte abbraccia la fede cattolica, un’altra quella induista.
Delshiya si sente pungolata: «Io non so se voglio andare via da Palermo: mi dico che a oggi c’è il 45% di questa possibilità. Mi dispiacerebbe molto andarmene. È una città in cui ho costruito la mia libertà, posso fare quello che voglio».
Un piccolo silenzio, e poi continua.
«Ho lasciato lo Sri Lanka insieme alla mia famiglia all’età di 15 anni. Ammetto che delle volte si manifesta in me una mentalità, come dire, “srilankese”, ma quando ho cominciato a studiare qui ho sviluppato prospettive nuove, diverse. Spesso mi chiedo: chi sono io? Sono italiana oppure tamil? Noi della seconda generazione abbiamo due anime, non possiamo farci niente».
«E non è semplice neanche per le prime generazioni» continua Padre Adriano, «sono persone che partono per bisogno e arrivano qui portandosi dietro il loro paesaggio interiore che hanno costruito fin da quando erano bambini. Persone che non riescono a pregare in altre lingue se non con la loro».
Si alza dalla sedia e con fare cordiale ci invita a fare lo stesso: «Venite, vi faccio vedere una cosa».
Siamo di nuovo tra le navate della chiesa. Procediamo verso l’ingresso. Le statue dei santi fanno capolino tra i possenti pilastri, fino a quando non ci fermiamo davanti a una cappella vuota.
«Qui poseremo la statua della Madonna del santuario di Madhu, uno dei santuari più importanti dell’intero Sri Lanka» ci confida soddisfatto Padre Adriano, che ci invita alla messa in lingua tamil che si terrà in serata. Accettiamo con garbo prima di salutarci, e rituffarci nel trambusto cittadino.
Il crepuscolo giunge in fretta.
Via Maqueda alta, ovvero quella parte del viale che dalla stazione centrale scende fino ai Quattro Canti, brulica di vita. È come se il confinante mercato di Ballarò avesse riversato parte del proprio tramestio su questo lembo di città.
Ritrovo il palazzo che mi ha ospitato in quei mesi torbidi; seduto sulla panchina su cui ero solito rifiatare vedo Padre Adriano, con il viso riposato e sazio, a osservare e salutare i fedeli che man mano prendono posto nella sua chiesa. Indossa una camicia vistosa, dalle sfumature gialloverdi e impreziosita da candidi decori.
«È dello Zaire» dice, «prego, sedetevi!».
«Mi piace chiamarla la panchina del mondo. Mi basta stare seduto qui per dieci minuti e tante persone da ogni dove si fermano a salutarmi».
E infatti, poco dopo, un bambino africano frena sgommando con la sua bicicletta proprio davanti a noi.
«Ciao Albert!» esclama Padre Adriano.
Albert ricambia frettoloso il saluto e si arrampica su per la panchina, già incantato dalla macchina fotografica di Roberta. Un’altra bambina, alta e robusta, anche lei dai tratti africani, si avvicina a noi.
«Ciao Abigail!»
Un cane, secco e laido, vessato dalle pulci, zoppica a pochi passi dalla panchina. Abigail, impaurita, si lancia addosso a noi.
«Ho paura dei cani!».
Albert si separa e monta sulla bici per rincorrere un ragazzino bengalese sfrecciante col suo monopattino elettrico.
«Albert ha un fratellino simpaticissimo, si chiama Einstein» ci confida divertito Padre Adriano.
Vediamo Delshiya avvicinarsi in compagnia di un ragazzo tamil dalla folta capigliatura, le mani ferme sul manubrio della bici.
«Salve Padre, sono venuto a salutarla, domani parto» dice con voce incerta.
«Parti? E dove vai?».
«In Germania».
«In Germania? E per quanto tempo?».
«Per sempre. Vado a cercare lavoro».
«Ma almeno lo sai un po’ di tedesco?».
«Un po’» risponde il ragazzo ancora più incerto.
«Bene, bene…» annuisce Padre Adriano con la vertigine in volto, «che dirti allora: auf Wiedersehen!».
Il ragazzo finge di capire, saluta con la mano e se ne va. Poco più in là, il cagnaccio si accovaccia sotto una saracinesca per rasparsi con la propria zampa le pulci di dosso.
La chiesa è gremita di fedeli nonostante il distanziamento fisico: solo due persone per panca. Sulle colonne, alcuni schermi proiettano in lingua tamil i canti da seguire. Defilato, in fondo al coro, un tastierista è chino sul proprio strumento. Padre Peter, in piedi sul leggio, introduce la messa. A un certo punto, dalle sue parole – un agitato bisbigliare a me incomprensibile – riesco a cogliere il mio nome e quello di Roberta. Accenniamo un saluto al brusio di teste rivolte verso di noi.
[Giorno 3]
ௐ
Il telefono vibra, è Chaby. “Mi raccomando, arrivate ben lavati. Roberta non potrà entrare se ha il ciclo. Ci vediamo al tempio alle 12.00”.
Ci laviamo per bene, e ci dirigiamo verso il porto.
Attraversare Palermo da capo a piedi, in linea retta, equivale a compiere continui balzi, come se la topografia dell’intera città fosse quella di un rosario steso, dove in ogni grano si addensano specifiche e riconoscibili architetture, facce, linguaggi e intenzioni. Per arrivare al porto però bisogna sfuggire al regime della linea retta e scantonare nei grandi rioni laterali, dove sguardi principianti non coglieranno nient’altro che segni confusi e illeggibili.
«In poco tempo le prime generazioni hanno trovato nella patrona di Palermo, Santa Rosalia, una divinità su cui fare affidamento. Santa Rosalia protegge dal male come Durgai, l’avatar di Amman, e come Durgai porta con sé un teschio e indossa una corona di rose»
Una volta arrivati nell’area portuale, non è stato semplice accorgersi, tra due palazzi scoloriti e diroccati, dell’ergersi timido di una torre trapezoidale. Avvicinandoci però, ci rendiamo conto che dell’edificio c’è soltanto la facciata: il trompe-l’œil su legno di un tempio induista srilankese, dai colori un tempo sgargianti ma ormai sbiaditi dal troppo sole. Un’auto parcheggia dall’altro lato della strada. Scendono delle donne tamil in abiti tradizionali. Tra di loro, ci viene incontro Chaby, una giovane ragazza dai lunghi capelli neri e dal viso tornito.
«Benvenuti!».
Entriamo.
Il nome del tempio è Muthu Vinaayakar Aalayam ed è intitolato al dio Ganesh. Chaby ci invita a togliere le scarpe. Percorso un breve corridoio, si apre una grande sala al cui centro è posta una celletta che protegge la statua del dio Ganesh. Ai quattro angoli della sala sono posizionate altre statue di altri dei appartenenti allo sconfinato pantheon induista. Sulla parete di sinistra è dipinto ௐ, l’om in lingua tamil, la sillaba sacra. Due uomini a petto nudo preparano l’altare.
«Sono gli Ayar » spiega Chaby, «coloro che dirigeranno la cerimonia».
Il pavimento è segnato dalle croci adesive anti-assembramento. Prima che la cerimonia abbia inizio, chiedo a Chaby se abbiano mai avuto delle tensioni con i residenti del quartiere.
«Solo all’inizio. Per loro era strano, soprattutto perché le nostre cerimonie si svolgono in orari particolari, delle volte anche la sera tardi. Ma poi siamo stati accolti, qui siamo a casa. Non è stato facile trovare un luogo adatto alle nostre esigenze».
«L’induismo è una religione porosa e adattabile, incline all’accoglienza» continua Chaby, «in poco tempo le prime generazioni hanno trovato nella patrona di Palermo, Santa Rosalia, una divinità su cui fare affidamento. Santa Rosalia protegge dal male come Durgai, l’avatar di Amman, e come Durgai porta con sé un teschio e indossa una corona di rose. L’induismo contiene una moltitudine di dei, è vero, ma siamo ben consapevoli che Dio è uno soltanto».
Dalle casse straripa una musica monotona e ipnotica e una donna comincia a seguirne il ritmo con un’intensa scampanellata. L’Ayar più giovane porge i doni a Ganesh: versa sulla statua bidoncini di latte, miele e mango; i candelabri accesi, l’incenso e l’incedere della musica rendono l’atmosfera liquida, sfuocata.
Chaby prova a spiegarmi a bassa voce ogni gesto, ogni attimo della cerimonia. Faccio fatica a seguirla, lo scampanio è troppo forte; mi perdo tra le genealogie degli dei induisti e le proprietà terapeutiche e igieniche delle polveri utilizzate dagli Ayar; annuisco ma è come se il mio comprendere avesse subito un corto circuito e a fine cerimonia mi ritrovo le mani ingombre di doni: banane sacre e fiori di ibisco, pastelle di lenticchie e latte speziato. Vogliamo ringraziare ma ci viene prontamente proibito.
«Nel tempio non bisogna mai dire “grazie”. È cosa ovvia offrire e ricevere dei doni».
Io e Roberta siamo di nuovo per strada sotto un sole lancinante, la testa vuota, gli zaini più pesanti, un bindi cremisi sulla fronte.
[Giorno 4]
Addio alle armi
Avevo già incontrato Sumi una volta, ma non ci avevo badato.
Tre anni fa persi l’ultimo autobus che mi avrebbe riportato a Enna, la mia città. Chiamai subito Alberto, un caro amico palermitano, per chiedergli ospitalità. Passai dunque la notte da lui, nel suo grande appartamento familiare che si affaccia sui Giardini Inglesi. La mattina dopo, con gli occhi ancora impastati dal sonno, mi diressi verso la cucina. Il domestico di famiglia stava preparando la colazione a tutti. Mi chiese se volessi del caffè, risposi di sì, un po’ impacciato: non avevo mai avuto a che fare con un domestico e la cosa mi suscitava un vago disagio. Mi diede le spalle e azionò la macchina da caffè. Arrivò il resto della famiglia, il domestico andò in un’altra stanza e non lo vidi più.
Oggi sono tornato in quella casa e Sumi, il domestico, siede di fronte a me. Lo sguardo vispo, le labbra bardate da una barba curata, folta e brizzolata. Sotto il lobo destro, noto una mano tatuata.
«È la mano di un santo indiano. Non posso mostrarvi l’intero tatuaggio. È coperto dai capelli».
«Ricordo che le Tigri piombarono nella mia scuola. Ho visto i fucili e mi pareva tutto un gioco. Il giorno dopo, ho lasciato lo zaino per strada e li ho seguiti nella foresta»
Alberto posa i caffè sul tavolo. Sumi lo guarda beffardo: «Lo conosco da quant’era così!» e alza la mano a poco più di un metro da terra.
«Mia figlia si chiama Cristiana, come la sorella di Alberto: ha undici anni». Ci mostra le foto sul telefono. Noto il suo bindi e gli chiedo se è induista.
«Sì, lo sono. Ti stupisce il nome di mia figlia? Io non bado a queste cose, è un bel nome».
Sumi è arrivato a Palermo nel 1989, quando gli srilankesi erano ancora rari in città.
«Adesso siamo in tanti. Molti di noi vivono in Via Dante. Qualche anno fa si stava tranquilli, adesso i più giovani perdono tempo in strada, li vedo in Piazza Lolli a ubriacarsi e a drogarsi, a farsi male in stupide risse».
Roberta gli chiede cosa si ricorda del suo paese.
«Militari, bombe, morte». Ci mostra alcune brutte cicatrici sulla gamba.
«Ricordo che le Tigri piombarono nella mia scuola. Ho visto i fucili e mi pareva tutto un gioco. Il giorno dopo, ho lasciato lo zaino per strada e li ho seguiti nella foresta».
Le “Tigri Tamil per la liberazione della patria” è stato il gruppo paramilitare di stampo comunista e nazionalista che ha combattuto dal 1983 al 2009 contro il governo srilankese. Durante la guerra civile, il gruppo acquisì un notevole potere: uccise il primo ministro indiano Rajiy Gandhi nel 1991 e il presidente singalese Ranasinghe Premadasa nel 1993.
«Ho trascorso nove mesi con le Tigri. Non agivamo soltanto in Sri Lanka, organizzavamo delle retate anche in India. Anche mia sorella è stata una guerrigliera: trasportava armi e consegnava messaggi da un gruppo all’altro».
Sumi continua: «I campi di addestramento erano duri. Mangiavamo solo la mattina un pugno di lenticchie, guadavamo fiumi, nuotavamo con venti chili addosso tra provviste, armi e munizioni. Era un allenamento necessario per essere pronti in battaglia. Nascondevamo sempre del cianuro in bocca all’interno di piccoli contenitori di vetro, simili a dei campioncini di profumo, nel caso in cui venissimo catturati».
Sumi racconta della guerra civile con l’incedere frenetico del suo accento di origine. Però mantiene un palpabile distacco, come se narrasse la storia di qualcun altro, di un conoscente lontano.
«Nei campi di addestramento si organizzavano anche delle specie di olimpiadi tra i vari gruppi. Ricordo un gioco in particolare: ci venivano nascosti nella farina i pezzi di un AK-47; il nostro obiettivo era scovarli tutti, ripulirli e montarli nel modo corretto. Chi lo faceva nel minor tempo e nel miglior modo possibile, vinceva». E cosa si vinceva, gli chiedo. Sumi non risponde.
Ci racconta un altro aneddoto: «Una notte ero di guardia ma mi addormentai. Il mio comandante se ne accorse e allora per punirmi armò una granata e me la mise nelle mani: dovevo tenere premuto il clip altrimenti sarei esploso. Così rimani sveglio, mi disse. Ma non sapeva che io ero in grado di disarmarla. Appena si allontanò, disarmai la granata e mi addormentai di nuovo» e scoppia in una fragorosa risata.
«Mi stancai della guerra, troppa violenza, troppe morti. Scappai che avevo diciassette anni. Devo ringraziare mia zia per questo. Faceva la dottoressa a Jaffna: mi fece salire su un’ambulanza di nascosto e lasciai il paese. Mi imbarcai su una nave fatiscente, pagai una cifra che oggi equivale a 1.500€. Oggi i prezzi sono aumentati. Per arrivare a Lampedusa per esempio, la cifra si aggira intorno ai 15.000€. Quando scappai nell’89 la tratta principale era verso la Grecia. Arrivai prima in Jugoslavia. Una signora del posto mi aiutò a prendere un pullman che mi portò a Parigi; da lì mi sono spostato in auto a Milano, dopo qualche giorno presi un treno per raggiungere Palermo dove mi aspettava una cugina. Non parlavo né inglese né italiano, ma riuscii comunque a trovare un impiego come domestico. E dopo tanti anni di lavoro, eccomi qui».
«Nei campi di addestramento si organizzavano anche delle specie di olimpiadi tra i vari gruppi. Ricordo un gioco in particolare: ci venivano nascosti nella farina i pezzi di un AK-47».
Gli chiediamo se a Palermo ha trovato un po’ di pace.
«Così così» e lascia cadere un sorriso. Dal cortile del palazzo si alza il baccano di alcuni bambini in festa.
«Volete sapere qual era il mio nome di battaglia?» chiede a un tratto Sumi.
Certo, rispondiamo.
«Raja». Significa Re.
[Epilogo]
Panelle e crocché
Seduti a un tavolo di “Franco ‘u vastiddaru” ordiniamo tre portate di panelle e crocché.
Stefano Edward ci chiede come sono andate il resto delle giornate. Rispondiamo che sono andate benissimo e lo ringraziamo, del resto è merito suo se siamo riusciti a imbastire tutti questi incontri. Sembra più rilassato rispetto alla prima volta in cui lo abbiamo incontrato. Arrivano le portate e mangiamo di gusto.
Roberta chiede a Stefano se può fotografargli la pelle, magari parte della schiena. Stefano arrossisce, la schiena no, dice, però le braccia potrebbero andar bene.
Usciamo su Corso Vittorio. Roberta dirige Stefano sotto un buon punto luce. Io li osservo all’ombra di un albero. Stefano allunga le braccia davanti all’obiettivo come a voler cogliere dell’acqua a una sorgente. Terminati gli scatti, ci ritroviamo tutti e tre al centro della via. Io e Roberta stiamo per salutare quando a un tratto una scarica di botti sconquassa l’aria. Alziamo la testa. Il fumo chiaro dei fuochi d’artificio si alza sopra le case della Vucciria. Stefano si scompone, è come se i botti gli avessero danneggiato dei sostegni invisibili, e ci saluta per primo, con una fretta imprevista.
Lo salutiamo e lo ringraziamo ancora una volta, per poi vederlo risalire su Corso Vittorio, a testa bassa, col passo deciso ma affaticato, fin quando si confonde nella moltitudine di corpi provenienti da ogni dove che scorre sulla via.