Ho sentito per la prima volta il nome di Vali Myers il 16 gennaio scorso, grazie a un’intervista che feci per linus all’artista Matteo Guarnaccia. Matteo mi raccontò del suo viaggio in autostop ad Amsterdam, nel 1970. All’epoca aveva appena 15 anni. Amsterdam gli piacque così tanto che finì per restarci parecchio tempo. La città pullulava di giovanissimi venuti da tutta Europa.
Una volta spedite le domande avevo immaginato Matteo di fronte al computer, con i boccoli bianchi, impegnato a ricordare vicende accadute 46 anni prima, che tuttavia erano ancora perfettamente conservate nella sua memoria. Cosa che meriterebbe una digressione e quella lettura di Sant’Agostino che mi riprometto di fare da tempo.
Matteo mi disse che ad Amsterdam, nel 1970, lui e i suoi amici vestivano con gli abiti trovati nelle sartorie teatrali. Pedalavano su delle belle biciclette bianche, ereditate dai Provos e da Luud Schimmelpennink, autore di un piano per la mobilità urbana. Andavano ai concerti dei Pink Floyd oppure a vedere le mostre della strega Vali Myers, che disegnava col sangue mestruale. Chi era Vali Myers?
Diedi un’occhiata alla pagina in inglese su Wikipedia, poi digitai di nuovo Vali Myers, stavolta su Google immagini. A quel punto vidi le foto di una donna dal volto tatuato e poi una serie di ritratti in bianco e nero della stessa donna, negli anni ’50 a Parigi, immersa in una classica atmosfera esistenzialista. Non era ancora tatuata. In una di queste foto in bianco e nero Vali, che all’epoca aveva più o meno 20 anni, si guarda allo specchio fino a poggiare sul vetro un bacio morbidissimo, che avrà reso quello specchio parigino, immagino, felice per il resto della vita. O forse turbato, intossicato. Vali, infatti, in quella foto non ha un’aria felice.
La vita di un gruppo sbandati nel quartiere latino, a Parigi, all’inizio degli anni ’50, è il soggetto di Love on the left bank, libro fotografico di Ed Van Der Elsken. In queste foto Vali balla in slip e reggiseno, fuma o siede in un caffè insieme a qualche amico, proprio come in quel romanzo di Patrick Modiano: Nel caffè della gioventù perduta. Ripeto, non sembra molto felice. A Parigi era arrivata in nave dall’Australia, dov’era nata nel 1930 e dove per un periodo era stata la prima ballerina del Melbourne Modern Ballet. In altre foto, che furono scattate negli anni ‘60, Vali Myers appare molto cambiata: posa con la guancia accanto a un barbagianni e mostra dei tatuaggi sugli zigomi e intorno alla bocca.
Sul suo conto scoprii poi altre cose. Vali aveva ispirato un personaggio di Orpheus Descending, opera teatrale di Tennesse Williams. Era apparsa sulla copertina dell’edizione inglese di un romanzo di Francoise Sagan: Those without shadows. Il tatuaggio di una folgore che compare sul ginocchio di Patti Smith, è opera di Vali Myers. Così come un tatuaggio sulla mano di Dee Dee Ramone. Vali Myers, inoltre, aveva conosciuto Marianne Faithfull e Mick Jagger. Joni Mitchell le aveva dedicato una canzone. Negli anni ’50 a Parigi aveva conosciuto Jean Paul Sartre, Jean Cocteau e Jean Genet. Aveva vissuto a lungo nella camera 631 del Chelsea Hotel, a New York.
Altre informazioni, immagini, aneddoti, si accumulavano confusamente, come succede lavorando su Google. Poi vidi il pezzo di un documentario girato da Ed Van Del Elsken, il fotografo che l’aveva ritratta negli anni ’50. Si erano rivisti diversi anni dopo, nel 1972, e stavolta Ed l’aveva filmata in Italia, a Positano. Vali si era stabilita lì da tempo, nel folto di un bosco, in fondo a una specie di canyon, dove campava in compagnia di decine di animali e di un ragazzo molto più giovane di lei: Gianni Menichetti. Nel filmato la coppia è circondata da un corteo di animali, compresi un asino e una scrofa. Gianni sorride, ma è di poche parole. Visto in mezzo alla vegetazione, sembra un Dioniso in carne e ossa. Ciò che è dentro di lui, in quel momento della vita, dev’essere così potente da non poter essere verbalizzato. Per questo, probabilmente, è molto laconico. Vali e Gianni mimano un atto sessuale e si baciano di fronte alla cinepresa. Muovono la lingua evocando in me l’intelligenza e l’abilità di un serpente, dentro un’evocazione più grande del giardino dell’eden. Provo una specie d’invidia. Ma non è tanto invidia, quanto lo stupore provato da chi vive in un’epoca in cui il corpo non è più così vitale.
Vali Myers è morta nel 2003, a Melbourne, ma Gianni vive ancora a Positano, in quel canyon. Non se n’è mai andato. Quando è stata clonata una pecora nel 1996, è probabile che lui fosse lì, con le sue bestie, e che non si sia accorto di nulla. Così come, quando Al Qaeda ha messo una serie di bombe a Madrid, lui era lì. Quando un terremoto ha distrutto l’Irpinia, nel novembre 1980, lui era lì. “Quel giorno c’era una specie di scirocco, faceva caldissimo…”. Sono andato a conoscerlo nel suo eremo, l’ultimo sabato di maggio, passando il giorno prima per Napoli, dove su una bancarella in piazza Dante, per puro caso, ho trovato una vecchissima pubblicazione, forse dei primi anni ’60: Paris la nuit. Misteri, piaceri, inganni. In questa rivista si parla della vita notturna a Parigi – “la città del bacio” – e delle ragazze che arrivano da tutto il mondo per ballare, vestite di piume di struzzo. Dodo D’Amburgo, Bangura Ouma, Régine, Nelida. Su una di loro, durante uno strip, avevano proiettato una texture fatta di piccole svastiche. Ma Vali era diversa.
Non le interessava fare carriera e oltre al ballo cominciava ad appassionarsi al disegno, cosa che – è una mia supposizione – raffinò moltissimo grazie al prolungato uso di oppio, che forse la fecondò ma per qualche anno le complicò molto la vita.
A Napoli mi sono addormentato leggendo quel fascicoletto in bianco e nero e ascoltando in lontananza i botti dei fuochi d’artificio, provenienti da un quartiere a nord della città. Ne ho parlato con un amico del posto, che mi ha detto che forse erano stati esplosi da qualche clan per comunicare al mondo una notizia: è arrivata la droga.
Raggiungere casa di Gianni è stato più semplice di quanto pensassi. Con Gaetano, il fotografo, senza grande difficoltà abbiamo capito in quale punto parcheggiare, per poi inoltrarci nel bosco. “Vedrai”, mi aveva detto Gianni al telefono, “basta mettere un piede dentro e sei in Amazzonia”. Indosso ho una camicia a scacchi, simile a quella portata da Jack Kerouac, quando venne fotografato semiaddormentato su un sofà durante un party a Milano. Gianni era sul sentiero ad aspettarci e insieme siamo risaliti verso quel luogo scoperto 45 anni fa e mai più abbandonato. Dopo una mezz’ora di marcia, tra le felci, l’aria fresca e i versi d’uccellino, siamo arrivati di fronte alle sbarre di un piccolo cancello. Avevo già visto qualche foto, ma la muschiata spazialità del luogo, la sua vivida tridimensionalità, la vastità e l’altezza cangiante delle rocce color pesca che attorniano la casa, non sono facilmente riproducibili. Bisogna starci in mezzo e muovere lo sguardo a 360 gradi.
Al cancello ci hanno accolto i tanti animali di Gianni e in particolare i suoi diciotto cani, dei bastardini, poco o nulla abituati alla presenza dell’uomo. Perciò alla vista di me e Gaetano ci hanno circondato e hanno cominciato a guaire e ad abbaiare. Gianni mi ha fatto l’elenco dei rispettivi nomi: dalla A di Avalon fino alla S di Shosho, passando per Chapati e Monday. Uno dei primi oggetti che mi ha mostrato, arrivati in casa, è stato un foglio di carta spesso come un papiro, riempito da una grafia accurata, elegantissima, con cui si ricostruisce la genealogia delle centinaia di cani cresciuti qui tra il 1971 e il 2013: “Buffles son of Minnie”; “Smokey daughter of Janis” e così via. Insomma, un pezzo d’arte che mi ha incantato, mentre sedevo all’interno dell’abitazione di Gianni, che non ha mai avuto corrente elettrica. Mai in questi 45 anni e mai in tutta la sua lunga storia. Così come non esiste un bagno. Però c’è un telefono (a cui Gianni risponde sempre con un giovialissimo Hallo!?) collegato a Telecom grazie a un cavo lunghissimo, che aderisce a una parete rocciosa e poi s’immerge nel fitto del bosco, sibilando tra un’infinità di chiome verdi e tronchi d’albero, fino a rispuntare nella luce del sole, sulla strada per Amalfi. Con la pioggia a volte non funziona.
La casa consiste di una sola minuscola stanza, che ha l’aspetto di un santuario, dove si trovano un letto a soppalco in castagno, costruito da un artigiano locale negli anni ‘60, come nuovo, dei bauli, due sedie sfondate ma preziose, un caminetto, delle mensole con dei libri, disegni di Vali appesi ovunque alle pareti decorate, e in alto, accanto al materasso sul soppalco, una grande gabbia, di cui Gianni mi racconterà. Intanto ci sediamo e io non so da dove cominciare questa conversazione, in cui può intrecciarsi di tutto, come in internet o in un tappeto persiano. Oceania, Europa, America, il dopoguerra, opere d’arte, metropoli, uomini, cani, volpi, rospi, ere culturali trapassate, musicisti e artisti come Giotta Fuyo Tajiri e Ching Ho Cheng, di cui non avevo mai sentito dire.
Gianni ascolta il mio preambolo e precisa che Vali non può essere identificata con gli esistenzialisti. Un po’ perché non amava l’etichetta, e le etichette in genere, un po’ perché non voleva essere confusa con tipi come Jean Paul Sartre e altre teste d’uovo. “Detestava gli intellettuali”. La frase non mi sorprende ma un po’ mi ferisce, dal momento che mi capita di venire associato a quella categoria, che neppure a me piace. Quindi questo fatto vuol dire che forse, se ci fossimo incontrati, non sarei piaciuto a Vali. Troppo diverso da lei: un intellettuale. Ma se il simile è attratto dal simile, allora, mi chiedo, che cosa c’è di affine tra me, Vali e Gianni? Perché sono arrivato fin qui? Che cosa mi ha attratto? Senz’altro l’erotismo che per me questa storia sprigiona. A proposito di sangue mestruale: Gianni mi dice che Vali infilò giusto una goccia di sangue in un quadro. Il resto è leggenda.
A pagina 14 del bellissimo e a tratti sconcertante memoir scritto da Gianni e pubblicato negli Stati Uniti (spero che qualcuno lo traduca in Italia) viene descritta questa scena: Vali è ancora in Australia e si trova a una festa, sul terrazzo al secondo piano di una casa, quando all’improvviso un flusso di sangue mestruale le cola lungo le gambe e lei crolla e cade dal terrazzo in strada, rompendosi il collo e qualche dente. Ma ora chiedo a Gianni di raccontarmi tutta la storia da capo. Quando si stabilì Vali a Positano? Nel 1958, più o meno. E in compagnia di chi? Di Rudi Rappold, suo marito. Non era la prima volta che arrivavano da quelle parti. Avevano scoperto quella costruzione nel bosco, risalente forse al ‘700, molti anni prima, nel 1952, nel corso di un viaggio in autostop.
Ma è nel 1958, al termine dei suoi opium years, che Vali si stabilisce qui e insieme a decine di animali, compreso un asino che le passeggia per casa, scompare completamente dal mondo, per oltre dieci anni, mentre fuori succede di tutto, a cominciare dallo scoppio della contestazione. In questo periodo Vali disegna moltissimo. Il suo stile è qualcosa che sta “tra HR Giger e una strana commistione tra arte nordeuropea e africana”. Così ha provato a definirlo un amico, Lupo Borgonovo, osservando per la prima volta qualche disegno. Io vedo un po’ di Secessionismo viennese e un cupo espressionismo unito a una febbre, a un calore materno, specie quando osservo quelle spire cremose che sembrano masticare, avvolgere e proteggere le figure tra le pareti viscide di uno stomaco. In qualche modo, alcuni di questi disegni tenebrosi e caldissimi, mi sembrano come delle crostate morbide appena uscite da un forno.
Mentre il mondo si prepara al ’68, Vali e Rudi vivono in comunione assoluta con gli animali. Il culmine di questo sodalizio è il rapporto privilegiato con una volpe, Foxy, che Vali riesce quasi ad addomesticare, nonostante spesso le devasti la stanza o faccia strage dei topolini lasciati liberi di fare il nido nel caminetto. Foxy è l’animale che disegna più spesso e col quale Vali entra più in risonanza, fino a diventare per lei una musa e il soggetto di molti ritratti. Anche Gianni riuscì a maturare una certa complicità con la volpe, di cui ricorda come una visione mistica i riflessi ambrati della pelliccia e l’occhio sempre all’erta, di notte, quando sedeva su una specie di trono alla luce della lampada a gas.
Marito e moglie lasciano il canyon solo di rado, per andare a ballare in qualche club sulla costiera, come la Buca di Bacco o l’Africana, dove si ritrova una clientela internazionale: gagà, artisti, attori dello spaghetti western. Una fauna simile a quella che popola il locale a Capri in cui si ambientano alcune scene di Totò a colori. Rudi e Vali si presentano così come sono, scalzi, randagi. Vanno e tornano a piedi, di notte. A volte vengono cacciati. Veniamo a Gianni. Gianni è ancora un ragazzo. Tra lui e Vali ci sono 22 anni di differenza. L’anno in cui Vali scopre per la prima volta Positano, il 1952, è l’anno in cui Gianni viene al mondo, in un paesino medievale di origini etrusche, Casole d’Elsa, in provincia di Siena.
La famiglia Menichetti è di estrazione contadina. Il padre conosce a memoria Dante e l’Ariosto. Quando Gianni compie quattro anni si trasferiscono a Firenze. Adora il greco e il latino ma s’iscrive all’Istituto Magistrale, anche perché “non appartenenevo alla borghesia”. Si descrive come un solitario. Durante un festival del cinema a Firenze, ricorda di aver visto la locandina di Vali, the witch of Positano, altro documentario dedicato alla sua futura amante. Dopo la maturità decide di provare a Napoli con Lingue orientali, ma non s’iscriverà mai. Comincia a vagabondare, dorme di notte lungo il rettifilo, cioè il corso Umberto I che dalla stazione porta dritto verso il centro universitario. Dice che all’epoca Napoli era come Bombay, Istanbul. La sua vita ricorda in questa fase quella narrata da Renato Curcio in A viso aperto, quando racconta del periodo in cui, prima di entrare a Sociologia di Trento, vagabondò per Genova, dormendo sulle panchine e frequentando i giovani scappati di casa, gli emigrati senza tetto e quelli che Marco Pannella definì sottoproletari anfetaminizzati.
Tramite un’amicizia comune, Gianni arriva finalmente a Positano. Scoppia un colpo di fulmine, per lei, per quel luogo sprofondato in un canyon, per gli animali. Ma più che un colpo di fulmine, un sortilegio. Questa è la storia del primo capitolo della sua vita. Inciso: Vali Myers è anche detta la strega (se non altro per l’immagine wiccan sfoggiata in alcune foto) ma secondo Gianni strega è una parola fuorviante. Lui preferisce spirito pagano, che in fondo, penso, è un’espressione concettualmente molto vicina a strega.
Il secondo capitolo della vita di Gianni inizia quando Vali, che ha accumulato un portfolio non indifferente, gli chiede di accudire per lei gli animali, mentre con Rudi se ne va per un breve periodo a New York, in cerca di acquirenti e collezionisti. Quando tornano, Gianni non se ne va. Come un cane resta nei dintorni e per un mese dorme in una caverna scavata lungo una parete del canyon. Intanto l’amore con Vali esplode –come documentato nel film di Ed Van Der Elsken- mentre la storia di lei con Rudi va alla deriva, complice l’alcolismo di lui, fino a quando Rudi lascia Positano e Gianni diventa l’amante di Vali. O meglio, per usare le sue parole: la sua sailor’s wife, dato che Gianni custodisce il focolare, mentre per tutti gli anni ’70 Vali va e viene da New York e da Amsterdam, dove coltiva la sua attività di artista. Quando torna, Gianni di notte le legge le saghe degli aborigeni e soprattutto Moby Dick, innumerevoli volte. Come biasimarli. Entrambi scrivono, disegnano e provvedono agli animali.
Questa è la loro vita, fino agli anni Novanta, quando inizia un periodo di grandi sofferenze, specie per Gianni, come si racconta nella parte più controversa e toccante del memoir. Vali, dopo più di quarant’anni, comincia ciclicamente a tornare in Australia, dove morirà nel 2003 di cancro allo stomaco.
Sopra una mensola in alto noto una fila di libri. Mi arrampico sulla scaletta che porta di sopra, sul letto a soppalco, per poterli vedere da vicino. Le costolette sono avvolte in una leggera ragnatela. Aguzzando lo sguardo, scopro che la stanza qua e là è disseminata dello scintillio di altre ragnatele. Così chiedo a Gianni se non le abbia spazzate via, come farebbe chiunque, per una forma di rispetto e pietà per la vita dei ragni. È così, in effetti, e per spiegarmi fa un accenno al giainismo, l’antica filosofia indiana che lo ispira nel suo amore per le forme di vita più umili: i lombrichi, gli insetti, la salamandrina terdigitata che vive in questa zona o i girini di cui la grande vasca fuori dalla casa trabocca. Nel giro di giorni un’armata di ranocchie invaderà lo spazio vitale dei cani, dei polli, rendendo ancora più plastico e vibrante l’antispecismo sovrano instaurato su questo fazzoletto di terra.
Ecco il numero della Paris review della primavera 1958, di cui avevo letto. Dentro si parla di Vali Myers, in un lungo ritratto firmato dal direttore George Plimpton. La carta è imbrunita dalla polvere, dai depositi terrosi, e ha il tono giallastro, la consistenza, delle ali di una falena. È un tuffo al cuore ritrovare qua, in questo canyon, un pezzo di tale valore. Se per il feticista antiquario la libidine si collega anche al luogo in cui il reperto viene ritrovato, in questo caso il godimento è davvero massimo. Nel numero è contenuto anche il racconto di un giovanissimo Philip Roth, The convertion of the jews, che Gianni, con una risata, mi assicura essere divertentissimo. Poi, combinazione, mi torna in mente dove avevo già sentito quella parola, ‘Giainismo’: era in Pastorale americana, il romanzo di Philip Roth. Se non erro la figlia di Seymour Levov, il protagonista, si lascia quasi morire di fame pur di non disturbare la vita di altri esseri viventi, infliggendo un dolore terribile al padre.
E quali sono stati i rapporti tra Gianni e i genitori? Gianni a suo tempo troncò con la famiglia. I rapporti con suo padre e la sorella sono rimasti buoni, mentre per la madre restò uno choc, mille anni fa, vederlo tornare a Firenze col volto tatuato. Al funerale dei genitori non c’era, ma del resto nemmeno a quello di Vali. Per lui non aveva senso. Sembra una mancanza crudele, eppure Gianni mi è sembrato, almeno oggi, a 64 anni, una persona assolutamente perbene, consapevole, limpida, con una bella e armonica risata. Mai stato dal medico in cinquant’anni.
C’è un altro aspetto, che mi appare ancora più evidente quando mi accenna dei suoi poemi in ottave composti per alcune capre. La passione per le rime e la poesia che gli derivano dal padre contadino, l’accento toscano intatto, lo collegano alla storia profonda e alla civiltà del nostro paese, molto più di quanto non lo sia la maggior parte di chi, come me, si collega a internet ogni cinque minuti. In questo luogo, in fondo, Gianni si è conservato e così facendo ha mantenuto in sé una storia che lo trascende e che altrimenti, esposta all’azione di altri fattori -la tv degli anni ’80? Il berlusconismo?- forse sarebbe stata liquidata.
Nella gabbia costruita accanto al letto, che vedo alla sinistra del materasso sul soppalco, Vali Myers si andava a chiudere in raccoglimento. Era un omaggio alla gabbia di George, un gallo che aveva molto amato, e un ricordo delle gabbie in cui aveva visto esposte le prostitute di Grant Street a Bombay e infine un memento della condizione umana e universale: la libertà non esiste. “E Mick Jagger?”, chiedo a Gianni. Mick Jagger esiste e un giorno venne proprio qui, in questa casa.
Arrivò con Marianne Faithfull, entrò da quel cancello, fece tutto il vialetto, circondato dal corteo dei cani, e poi andò ad accomodarsi sul letto, passando di fronte alla sedia in cui sono seduto. Così Vali aveva raccontato a Gianni. Mick era un ragazzo molto riservato, educato, un lord amante della poesia antica. Questo le era sembrato, mentre lei se ne stava chiusa nella gabbietta e Mick e Marianne seduti sul materasso. Anche Donovan si presentò un giorno sul cancello. “I’m Donovan”, disse, e Rudi gli rispose: “And i am Rudy, fuck you!”. Poi diventarono amici.
A Gianni giro un paio di domande che mi sono fatto spedire da Brittany, una ragazza della Pennsylvania che su internet tiene un ricchissimo Tumblr dedicato a Vali Myers. Il Tumblr è pieno d’immagini, non potrebbe essere altrimenti, ma sento che condivide con me, e altre persone sparse per il mondo e connesse, un feticismo un po’ patologico, che si nutre di mitologie esotiche. Più sono oscure e trapassate, maggiore è la vertigine. È su quel Tumblr che ho trovato questo squisito aneddoto: Vali ha circa 70 anni e si trova in un bar, quando a un certo punto arriva un tizio che le fa: “E tu chi sei?”. Vali gli risponde “Bruce Lee” e con una specie di mossa di karate gli scaraventa il bicchiere di birra dall’altra parte del locale.
In Australia, a Melbourne, esiste un trust dedicato a Vali Myers. Mi piacerebbe andarci e contemplare i suoi stupendi diari, capolavori di calligrafia. Sfoglio un album di disegni raffinatissimi. Sono di Gianni, stavolta. Ogni tanto fa delle mostre. Ora è pomeriggio inoltrato. Sento il bisogno di uscire da questa stanza. Quando Gianni mi ha nominato l’esistenza, un tempo, di un nido di topi nel camino e di un altro sotto il letto, ho cambiato improvvisamente umore e ho cominciato a chiedermi fino a dove può spingersi il giainismo. Forse fino all’amore e alla tolleranza per le pulci, le zecche? Il pensiero mi ha messo addosso una certa inquietudine. Così mi è sembrato di sentire le caviglie e le braccia formicolare, come succede a quel personaggio di un romanzo di Philip Dick, e sono uscito. Subito mi hanno circondato i cani, abbaiando, colpendomi sui polpacci con le loro code bionde e rossicce.
Ho fatto un giro nei pressi del pollaio, dove Gaetano stava scattando qualche foto. Lì ho verificato sull’iPhone che quanto registrato, tutto il meraviglioso racconto di Gianni, fosse salvo e al sicuro. Ho schiacciato play. Il file si apre con il rumore di un filo d’acqua, di un bicchiere posato e di un grido: Fragolaaaa. E poi il nome di un altro cane: Shoshooo. È la voce di una giovane ragazza, la compagna di Gianni, che con lui da quattro anni condivide la vita nel canyon. Posso solo dire che è molto in gamba, molto bella e molto riservata. Non ha acconsentito a riportare altro sul suo conto, se non questo: tempo fa ha letto il libro di Gianni su Vali, quindi si sono scritti qualche mail, poi lettere di carta e alla fine lei ha preso un aereo e lo ha raggiunto qui, dov’è spuntata come una gemma sul verde albero genealogico del posto. Vali, Rudi, Gianni e adesso lei.
Gianni mi raggiunge all’aperto. Da qualche parte qua intorno dev’esserci lo stagno dove Vali, di notte, portava il cibo a un anguilla, chiamata Black Prince, recitandogli un verso di Edith Sitwell:
“Munza rattles his bones in the dust
Lurks in the murk because he must”.
Mi rendo conto di non aver chiesto a Gianni del tatuaggio che porta sulla fronte. Mi dice che fu Vali a disegnarlo, così come lui fu il tatuatore di Vali. Da principio pensavo si trattasse di una specie di Bindi, il simbolo indiano, e invece no: è l’impronta della zampa di una volpe. “A Napoli c’è gente che dopo avermi visto i tatuaggi mi ha detto: si stat’ puru tu ‘a Poggioreale?”. Ecco che Gianni si china a terra e solleva il corpo di una tartaruga. “Testudo hermanni”. La prendo tra le dita. Si chiama Winnie. Una coppia di tedeschi la regalò a un’altra coppia di tedeschi che poi la regalò a Vali. “E quanti anni ha?”. “117”. Classe 1899. Mi torna in mente una storia che ascoltai non ricordo più quando. C’era un’usanza tra gli hippie che viaggiavano in Asia. A un certo punto bruciavano i documenti d’identità, o li facevano a pezzi, per dimenticare chi erano stati e finalmente sparire.
Ho sentito per la prima volta il nome di Vali Myers il 16 gennaio scorso, grazie a un’intervista che feci per linus all’artista Matteo Guarnaccia. Matteo mi raccontò del suo viaggio in autostop ad Amsterdam, nel 1970. All’epoca aveva appena 15 anni. Amsterdam gli piacque così tanto che finì per restarci parecchio tempo. La città pullulava di giovanissimi venuti da tutta Europa.
Una volta spedite le domande avevo immaginato Matteo di fronte al computer, con i boccoli bianchi, impegnato a ricordare vicende accadute 46 anni prima, che tuttavia erano ancora perfettamente conservate nella sua memoria. Cosa che meriterebbe una digressione e quella lettura di Sant’Agostino che mi riprometto di fare da tempo.
Matteo mi disse che ad Amsterdam, nel 1970, lui e i suoi amici vestivano con gli abiti trovati nelle sartorie teatrali. Pedalavano su delle belle biciclette bianche, ereditate dai Provos e da Luud Schimmelpennink, autore di un piano per la mobilità urbana. Andavano ai concerti dei Pink Floyd oppure a vedere le mostre della strega Vali Myers, che disegnava col sangue mestruale. Chi era Vali Myers?
Diedi un’occhiata alla pagina in inglese su Wikipedia, poi digitai di nuovo Vali Myers, stavolta su Google immagini. A quel punto vidi le foto di una donna dal volto tatuato e poi una serie di ritratti in bianco e nero della stessa donna, negli anni ’50 a Parigi, immersa in una classica atmosfera esistenzialista. Non era ancora tatuata. In una di queste foto in bianco e nero Vali, che all’epoca aveva più o meno 20 anni, si guarda allo specchio fino a poggiare sul vetro un bacio morbidissimo, che avrà reso quello specchio parigino, immagino, felice per il resto della vita. O forse turbato, intossicato. Vali, infatti, in quella foto non ha un’aria felice.
La vita di un gruppo sbandati nel quartiere latino, a Parigi, all’inizio degli anni ’50, è il soggetto di Love on the left bank, libro fotografico di Ed Van Der Elsken. In queste foto Vali balla in slip e reggiseno, fuma o siede in un caffè insieme a qualche amico, proprio come in quel romanzo di Patrick Modiano: Nel caffè della gioventù perduta. Ripeto, non sembra molto felice. A Parigi era arrivata in nave dall’Australia, dov’era nata nel 1930 e dove per un periodo era stata la prima ballerina del Melbourne Modern Ballet. In altre foto, che furono scattate negli anni ‘60, Vali Myers appare molto cambiata: posa con la guancia accanto a un barbagianni e mostra dei tatuaggi sugli zigomi e intorno alla bocca.
Sul suo conto scoprii poi altre cose. Vali aveva ispirato un personaggio di Orpheus Descending, opera teatrale di Tennesse Williams. Era apparsa sulla copertina dell’edizione inglese di un romanzo di Francoise Sagan: Those without shadows. Il tatuaggio di una folgore che compare sul ginocchio di Patti Smith, è opera di Vali Myers. Così come un tatuaggio sulla mano di Dee Dee Ramone. Vali Myers, inoltre, aveva conosciuto Marianne Faithfull e Mick Jagger. Joni Mitchell le aveva dedicato una canzone. Negli anni ’50 a Parigi aveva conosciuto Jean Paul Sartre, Jean Cocteau e Jean Genet. Aveva vissuto a lungo nella camera 631 del Chelsea Hotel, a New York.
Altre informazioni, immagini, aneddoti, si accumulavano confusamente, come succede lavorando su Google. Poi vidi il pezzo di un documentario girato da Ed Van Del Elsken, il fotografo che l’aveva ritratta negli anni ’50. Si erano rivisti diversi anni dopo, nel 1972, e stavolta Ed l’aveva filmata in Italia, a Positano. Vali si era stabilita lì da tempo, nel folto di un bosco, in fondo a una specie di canyon, dove campava in compagnia di decine di animali e di un ragazzo molto più giovane di lei: Gianni Menichetti. Nel filmato la coppia è circondata da un corteo di animali, compresi un asino e una scrofa. Gianni sorride, ma è di poche parole. Visto in mezzo alla vegetazione, sembra un Dioniso in carne e ossa. Ciò che è dentro di lui, in quel momento della vita, dev’essere così potente da non poter essere verbalizzato. Per questo, probabilmente, è molto laconico. Vali e Gianni mimano un atto sessuale e si baciano di fronte alla cinepresa. Muovono la lingua evocando in me l’intelligenza e l’abilità di un serpente, dentro un’evocazione più grande del giardino dell’eden. Provo una specie d’invidia. Ma non è tanto invidia, quanto lo stupore provato da chi vive in un’epoca in cui il corpo non è più così vitale.
Vali Myers è morta nel 2003, a Melbourne, ma Gianni vive ancora a Positano, in quel canyon. Non se n’è mai andato. Quando è stata clonata una pecora nel 1996, è probabile che lui fosse lì, con le sue bestie, e che non si sia accorto di nulla. Così come, quando Al Qaeda ha messo una serie di bombe a Madrid, lui era lì. Quando un terremoto ha distrutto l’Irpinia, nel novembre 1980, lui era lì. “Quel giorno c’era una specie di scirocco, faceva caldissimo…”. Sono andato a conoscerlo nel suo eremo, l’ultimo sabato di maggio, passando il giorno prima per Napoli, dove su una bancarella in piazza Dante, per puro caso, ho trovato una vecchissima pubblicazione, forse dei primi anni ’60: Paris la nuit. Misteri, piaceri, inganni. In questa rivista si parla della vita notturna a Parigi – “la città del bacio” – e delle ragazze che arrivano da tutto il mondo per ballare, vestite di piume di struzzo. Dodo D’Amburgo, Bangura Ouma, Régine, Nelida. Su una di loro, durante uno strip, avevano proiettato una texture fatta di piccole svastiche. Ma Vali era diversa.
Chi era Vali Myers?
Non le interessava fare carriera e oltre al ballo cominciava ad appassionarsi al disegno, cosa che – è una mia supposizione – raffinò moltissimo grazie al prolungato uso di oppio, che forse la fecondò ma per qualche anno le complicò molto la vita.
A Napoli mi sono addormentato leggendo quel fascicoletto in bianco e nero e ascoltando in lontananza i botti dei fuochi d’artificio, provenienti da un quartiere a nord della città. Ne ho parlato con un amico del posto, che mi ha detto che forse erano stati esplosi da qualche clan per comunicare al mondo una notizia: è arrivata la droga.
Raggiungere casa di Gianni è stato più semplice di quanto pensassi. Con Gaetano, il fotografo, senza grande difficoltà abbiamo capito in quale punto parcheggiare, per poi inoltrarci nel bosco. “Vedrai”, mi aveva detto Gianni al telefono, “basta mettere un piede dentro e sei in Amazzonia”. Indosso ho una camicia a scacchi, simile a quella portata da Jack Kerouac, quando venne fotografato semiaddormentato su un sofà durante un party a Milano. Gianni era sul sentiero ad aspettarci e insieme siamo risaliti verso quel luogo scoperto 45 anni fa e mai più abbandonato. Dopo una mezz’ora di marcia, tra le felci, l’aria fresca e i versi d’uccellino, siamo arrivati di fronte alle sbarre di un piccolo cancello. Avevo già visto qualche foto, ma la muschiata spazialità del luogo, la sua vivida tridimensionalità, la vastità e l’altezza cangiante delle rocce color pesca che attorniano la casa, non sono facilmente riproducibili. Bisogna starci in mezzo e muovere lo sguardo a 360 gradi.
Al cancello ci hanno accolto i tanti animali di Gianni e in particolare i suoi diciotto cani, dei bastardini, poco o nulla abituati alla presenza dell’uomo. Perciò alla vista di me e Gaetano ci hanno circondato e hanno cominciato a guaire e ad abbaiare. Gianni mi ha fatto l’elenco dei rispettivi nomi: dalla A di Avalon fino alla S di Shosho, passando per Chapati e Monday. Uno dei primi oggetti che mi ha mostrato, arrivati in casa, è stato un foglio di carta spesso come un papiro, riempito da una grafia accurata, elegantissima, con cui si ricostruisce la genealogia delle centinaia di cani cresciuti qui tra il 1971 e il 2013: “Buffles son of Minnie”; “Smokey daughter of Janis” e così via. Insomma, un pezzo d’arte che mi ha incantato, mentre sedevo all’interno dell’abitazione di Gianni, che non ha mai avuto corrente elettrica. Mai in questi 45 anni e mai in tutta la sua lunga storia. Così come non esiste un bagno. Però c’è un telefono (a cui Gianni risponde sempre con un giovialissimo Hallo!?) collegato a Telecom grazie a un cavo lunghissimo, che aderisce a una parete rocciosa e poi s’immerge nel fitto del bosco, sibilando tra un’infinità di chiome verdi e tronchi d’albero, fino a rispuntare nella luce del sole, sulla strada per Amalfi. Con la pioggia a volte non funziona.
La casa consiste di una sola minuscola stanza, che ha l’aspetto di un santuario, dove si trovano un letto a soppalco in castagno, costruito da un artigiano locale negli anni ‘60, come nuovo, dei bauli, due sedie sfondate ma preziose, un caminetto, delle mensole con dei libri, disegni di Vali appesi ovunque alle pareti decorate, e in alto, accanto al materasso sul soppalco, una grande gabbia, di cui Gianni mi racconterà. Intanto ci sediamo e io non so da dove cominciare questa conversazione, in cui può intrecciarsi di tutto, come in internet o in un tappeto persiano. Oceania, Europa, America, il dopoguerra, opere d’arte, metropoli, uomini, cani, volpi, rospi, ere culturali trapassate, musicisti e artisti come Giotta Fuyo Tajiri e Ching Ho Cheng, di cui non avevo mai sentito dire.
Gianni ascolta il mio preambolo e precisa che Vali non può essere identificata con gli esistenzialisti. Un po’ perché non amava l’etichetta, e le etichette in genere, un po’ perché non voleva essere confusa con tipi come Jean Paul Sartre e altre teste d’uovo. “Detestava gli intellettuali”. La frase non mi sorprende ma un po’ mi ferisce, dal momento che mi capita di venire associato a quella categoria, che neppure a me piace. Quindi questo fatto vuol dire che forse, se ci fossimo incontrati, non sarei piaciuto a Vali. Troppo diverso da lei: un intellettuale. Ma se il simile è attratto dal simile, allora, mi chiedo, che cosa c’è di affine tra me, Vali e Gianni? Perché sono arrivato fin qui? Che cosa mi ha attratto? Senz’altro l’erotismo che per me questa storia sprigiona. A proposito di sangue mestruale: Gianni mi dice che Vali infilò giusto una goccia di sangue in un quadro. Il resto è leggenda.
Vali ha circa 70 anni e si trova in un bar, quando a un certo punto arriva un tizio che le fa: “E tu chi sei?”. Vali gli risponde “Bruce Lee”.
A pagina 14 del bellissimo e a tratti sconcertante memoir scritto da Gianni e pubblicato negli Stati Uniti (spero che qualcuno lo traduca in Italia) viene descritta questa scena: Vali è ancora in Australia e si trova a una festa, sul terrazzo al secondo piano di una casa, quando all’improvviso un flusso di sangue mestruale le cola lungo le gambe e lei crolla e cade dal terrazzo in strada, rompendosi il collo e qualche dente. Ma ora chiedo a Gianni di raccontarmi tutta la storia da capo. Quando si stabilì Vali a Positano? Nel 1958, più o meno. E in compagnia di chi? Di Rudi Rappold, suo marito. Non era la prima volta che arrivavano da quelle parti. Avevano scoperto quella costruzione nel bosco, risalente forse al ‘700, molti anni prima, nel 1952, nel corso di un viaggio in autostop.
Ma è nel 1958, al termine dei suoi opium years, che Vali si stabilisce qui e insieme a decine di animali, compreso un asino che le passeggia per casa, scompare completamente dal mondo, per oltre dieci anni, mentre fuori succede di tutto, a cominciare dallo scoppio della contestazione. In questo periodo Vali disegna moltissimo. Il suo stile è qualcosa che sta “tra HR Giger e una strana commistione tra arte nordeuropea e africana”. Così ha provato a definirlo un amico, Lupo Borgonovo, osservando per la prima volta qualche disegno. Io vedo un po’ di Secessionismo viennese e un cupo espressionismo unito a una febbre, a un calore materno, specie quando osservo quelle spire cremose che sembrano masticare, avvolgere e proteggere le figure tra le pareti viscide di uno stomaco. In qualche modo, alcuni di questi disegni tenebrosi e caldissimi, mi sembrano come delle crostate morbide appena uscite da un forno.
Mentre il mondo si prepara al ’68, Vali e Rudi vivono in comunione assoluta con gli animali. Il culmine di questo sodalizio è il rapporto privilegiato con una volpe, Foxy, che Vali riesce quasi ad addomesticare, nonostante spesso le devasti la stanza o faccia strage dei topolini lasciati liberi di fare il nido nel caminetto. Foxy è l’animale che disegna più spesso e col quale Vali entra più in risonanza, fino a diventare per lei una musa e il soggetto di molti ritratti. Anche Gianni riuscì a maturare una certa complicità con la volpe, di cui ricorda come una visione mistica i riflessi ambrati della pelliccia e l’occhio sempre all’erta, di notte, quando sedeva su una specie di trono alla luce della lampada a gas.
Marito e moglie lasciano il canyon solo di rado, per andare a ballare in qualche club sulla costiera, come la Buca di Bacco o l’Africana, dove si ritrova una clientela internazionale: gagà, artisti, attori dello spaghetti western. Una fauna simile a quella che popola il locale a Capri in cui si ambientano alcune scene di Totò a colori. Rudi e Vali si presentano così come sono, scalzi, randagi. Vanno e tornano a piedi, di notte. A volte vengono cacciati. Veniamo a Gianni. Gianni è ancora un ragazzo. Tra lui e Vali ci sono 22 anni di differenza. L’anno in cui Vali scopre per la prima volta Positano, il 1952, è l’anno in cui Gianni viene al mondo, in un paesino medievale di origini etrusche, Casole d’Elsa, in provincia di Siena.
La famiglia Menichetti è di estrazione contadina. Il padre conosce a memoria Dante e l’Ariosto. Quando Gianni compie quattro anni si trasferiscono a Firenze. Adora il greco e il latino ma s’iscrive all’Istituto Magistrale, anche perché “non appartenenevo alla borghesia”. Si descrive come un solitario. Durante un festival del cinema a Firenze, ricorda di aver visto la locandina di Vali, the witch of Positano, altro documentario dedicato alla sua futura amante. Dopo la maturità decide di provare a Napoli con Lingue orientali, ma non s’iscriverà mai. Comincia a vagabondare, dorme di notte lungo il rettifilo, cioè il corso Umberto I che dalla stazione porta dritto verso il centro universitario. Dice che all’epoca Napoli era come Bombay, Istanbul. La sua vita ricorda in questa fase quella narrata da Renato Curcio in A viso aperto, quando racconta del periodo in cui, prima di entrare a Sociologia di Trento, vagabondò per Genova, dormendo sulle panchine e frequentando i giovani scappati di casa, gli emigrati senza tetto e quelli che Marco Pannella definì sottoproletari anfetaminizzati.
È nel 1958 che Vali si stabilisce qui e, insieme a decine di animali, scompare completamente dal mondo, per oltre dieci anni, mentre fuori succede di tutto, a cominciare dallo scoppio della contestazione.
Tramite un’amicizia comune, Gianni arriva finalmente a Positano. Scoppia un colpo di fulmine, per lei, per quel luogo sprofondato in un canyon, per gli animali. Ma più che un colpo di fulmine, un sortilegio. Questa è la storia del primo capitolo della sua vita. Inciso: Vali Myers è anche detta la strega (se non altro per l’immagine wiccan sfoggiata in alcune foto) ma secondo Gianni strega è una parola fuorviante. Lui preferisce spirito pagano, che in fondo, penso, è un’espressione concettualmente molto vicina a strega.
Il secondo capitolo della vita di Gianni inizia quando Vali, che ha accumulato un portfolio non indifferente, gli chiede di accudire per lei gli animali, mentre con Rudi se ne va per un breve periodo a New York, in cerca di acquirenti e collezionisti. Quando tornano, Gianni non se ne va. Come un cane resta nei dintorni e per un mese dorme in una caverna scavata lungo una parete del canyon. Intanto l’amore con Vali esplode –come documentato nel film di Ed Van Der Elsken- mentre la storia di lei con Rudi va alla deriva, complice l’alcolismo di lui, fino a quando Rudi lascia Positano e Gianni diventa l’amante di Vali. O meglio, per usare le sue parole: la sua sailor’s wife, dato che Gianni custodisce il focolare, mentre per tutti gli anni ’70 Vali va e viene da New York e da Amsterdam, dove coltiva la sua attività di artista. Quando torna, Gianni di notte le legge le saghe degli aborigeni e soprattutto Moby Dick, innumerevoli volte. Come biasimarli. Entrambi scrivono, disegnano e provvedono agli animali.
Questa è la loro vita, fino agli anni Novanta, quando inizia un periodo di grandi sofferenze, specie per Gianni, come si racconta nella parte più controversa e toccante del memoir. Vali, dopo più di quarant’anni, comincia ciclicamente a tornare in Australia, dove morirà nel 2003 di cancro allo stomaco.
Sopra una mensola in alto noto una fila di libri. Mi arrampico sulla scaletta che porta di sopra, sul letto a soppalco, per poterli vedere da vicino. Le costolette sono avvolte in una leggera ragnatela. Aguzzando lo sguardo, scopro che la stanza qua e là è disseminata dello scintillio di altre ragnatele. Così chiedo a Gianni se non le abbia spazzate via, come farebbe chiunque, per una forma di rispetto e pietà per la vita dei ragni. È così, in effetti, e per spiegarmi fa un accenno al giainismo, l’antica filosofia indiana che lo ispira nel suo amore per le forme di vita più umili: i lombrichi, gli insetti, la salamandrina terdigitata che vive in questa zona o i girini di cui la grande vasca fuori dalla casa trabocca. Nel giro di giorni un’armata di ranocchie invaderà lo spazio vitale dei cani, dei polli, rendendo ancora più plastico e vibrante l’antispecismo sovrano instaurato su questo fazzoletto di terra.
Ecco il numero della Paris review della primavera 1958, di cui avevo letto. Dentro si parla di Vali Myers, in un lungo ritratto firmato dal direttore George Plimpton. La carta è imbrunita dalla polvere, dai depositi terrosi, e ha il tono giallastro, la consistenza, delle ali di una falena. È un tuffo al cuore ritrovare qua, in questo canyon, un pezzo di tale valore. Se per il feticista antiquario la libidine si collega anche al luogo in cui il reperto viene ritrovato, in questo caso il godimento è davvero massimo. Nel numero è contenuto anche il racconto di un giovanissimo Philip Roth, The convertion of the jews, che Gianni, con una risata, mi assicura essere divertentissimo. Poi, combinazione, mi torna in mente dove avevo già sentito quella parola, ‘Giainismo’: era in Pastorale americana, il romanzo di Philip Roth. Se non erro la figlia di Seymour Levov, il protagonista, si lascia quasi morire di fame pur di non disturbare la vita di altri esseri viventi, infliggendo un dolore terribile al padre.
E quali sono stati i rapporti tra Gianni e i genitori? Gianni a suo tempo troncò con la famiglia. I rapporti con suo padre e la sorella sono rimasti buoni, mentre per la madre restò uno choc, mille anni fa, vederlo tornare a Firenze col volto tatuato. Al funerale dei genitori non c’era, ma del resto nemmeno a quello di Vali. Per lui non aveva senso. Sembra una mancanza crudele, eppure Gianni mi è sembrato, almeno oggi, a 64 anni, una persona assolutamente perbene, consapevole, limpida, con una bella e armonica risata. Mai stato dal medico in cinquant’anni.
C’è un altro aspetto, che mi appare ancora più evidente quando mi accenna dei suoi poemi in ottave composti per alcune capre. La passione per le rime e la poesia che gli derivano dal padre contadino, l’accento toscano intatto, lo collegano alla storia profonda e alla civiltà del nostro paese, molto più di quanto non lo sia la maggior parte di chi, come me, si collega a internet ogni cinque minuti. In questo luogo, in fondo, Gianni si è conservato e così facendo ha mantenuto in sé una storia che lo trascende e che altrimenti, esposta all’azione di altri fattori -la tv degli anni ’80? Il berlusconismo?- forse sarebbe stata liquidata.
Nella gabbia costruita accanto al letto, che vedo alla sinistra del materasso sul soppalco, Vali Myers si andava a chiudere in raccoglimento. Era un omaggio alla gabbia di George, un gallo che aveva molto amato, e un ricordo delle gabbie in cui aveva visto esposte le prostitute di Grant Street a Bombay e infine un memento della condizione umana e universale: la libertà non esiste. “E Mick Jagger?”, chiedo a Gianni. Mick Jagger esiste e un giorno venne proprio qui, in questa casa.
Arrivò con Marianne Faithfull, entrò da quel cancello, fece tutto il vialetto, circondato dal corteo dei cani, e poi andò ad accomodarsi sul letto, passando di fronte alla sedia in cui sono seduto. Così Vali aveva raccontato a Gianni. Mick era un ragazzo molto riservato, educato, un lord amante della poesia antica. Questo le era sembrato, mentre lei se ne stava chiusa nella gabbietta e Mick e Marianne seduti sul materasso. Anche Donovan si presentò un giorno sul cancello. “I’m Donovan”, disse, e Rudi gli rispose: “And i am Rudy, fuck you!”. Poi diventarono amici.
C’era un’usanza tra gli hippie che viaggiavano in Asia. A un certo punto bruciavano i documenti d’identità, o li facevano a pezzi, per dimenticare chi erano stati e finalmente sparire.
A Gianni giro un paio di domande che mi sono fatto spedire da Brittany, una ragazza della Pennsylvania che su internet tiene un ricchissimo Tumblr dedicato a Vali Myers. Il Tumblr è pieno d’immagini, non potrebbe essere altrimenti, ma sento che condivide con me, e altre persone sparse per il mondo e connesse, un feticismo un po’ patologico, che si nutre di mitologie esotiche. Più sono oscure e trapassate, maggiore è la vertigine. È su quel Tumblr che ho trovato questo squisito aneddoto: Vali ha circa 70 anni e si trova in un bar, quando a un certo punto arriva un tizio che le fa: “E tu chi sei?”. Vali gli risponde “Bruce Lee” e con una specie di mossa di karate gli scaraventa il bicchiere di birra dall’altra parte del locale.
In Australia, a Melbourne, esiste un trust dedicato a Vali Myers. Mi piacerebbe andarci e contemplare i suoi stupendi diari, capolavori di calligrafia. Sfoglio un album di disegni raffinatissimi. Sono di Gianni, stavolta. Ogni tanto fa delle mostre. Ora è pomeriggio inoltrato. Sento il bisogno di uscire da questa stanza. Quando Gianni mi ha nominato l’esistenza, un tempo, di un nido di topi nel camino e di un altro sotto il letto, ho cambiato improvvisamente umore e ho cominciato a chiedermi fino a dove può spingersi il giainismo. Forse fino all’amore e alla tolleranza per le pulci, le zecche? Il pensiero mi ha messo addosso una certa inquietudine. Così mi è sembrato di sentire le caviglie e le braccia formicolare, come succede a quel personaggio di un romanzo di Philip Dick, e sono uscito. Subito mi hanno circondato i cani, abbaiando, colpendomi sui polpacci con le loro code bionde e rossicce.
Ho fatto un giro nei pressi del pollaio, dove Gaetano stava scattando qualche foto. Lì ho verificato sull’iPhone che quanto registrato, tutto il meraviglioso racconto di Gianni, fosse salvo e al sicuro. Ho schiacciato play. Il file si apre con il rumore di un filo d’acqua, di un bicchiere posato e di un grido: Fragolaaaa. E poi il nome di un altro cane: Shoshooo. È la voce di una giovane ragazza, la compagna di Gianni, che con lui da quattro anni condivide la vita nel canyon. Posso solo dire che è molto in gamba, molto bella e molto riservata. Non ha acconsentito a riportare altro sul suo conto, se non questo: tempo fa ha letto il libro di Gianni su Vali, quindi si sono scritti qualche mail, poi lettere di carta e alla fine lei ha preso un aereo e lo ha raggiunto qui, dov’è spuntata come una gemma sul verde albero genealogico del posto. Vali, Rudi, Gianni e adesso lei.
Gianni mi raggiunge all’aperto. Da qualche parte qua intorno dev’esserci lo stagno dove Vali, di notte, portava il cibo a un anguilla, chiamata Black Prince, recitandogli un verso di Edith Sitwell:
“Munza rattles his bones in the dust
Lurks in the murk because he must”.
Mi rendo conto di non aver chiesto a Gianni del tatuaggio che porta sulla fronte. Mi dice che fu Vali a disegnarlo, così come lui fu il tatuatore di Vali. Da principio pensavo si trattasse di una specie di Bindi, il simbolo indiano, e invece no: è l’impronta della zampa di una volpe. “A Napoli c’è gente che dopo avermi visto i tatuaggi mi ha detto: si stat’ puru tu ‘a Poggioreale?”. Ecco che Gianni si china a terra e solleva il corpo di una tartaruga. “Testudo hermanni”. La prendo tra le dita. Si chiama Winnie. Una coppia di tedeschi la regalò a un’altra coppia di tedeschi che poi la regalò a Vali. “E quanti anni ha?”. “117”. Classe 1899. Mi torna in mente una storia che ascoltai non ricordo più quando. C’era un’usanza tra gli hippie che viaggiavano in Asia. A un certo punto bruciavano i documenti d’identità, o li facevano a pezzi, per dimenticare chi erano stati e finalmente sparire.